SUL TAMBURO n.16: Marco Balzano, “L’ultimo arrivato”

Marco Balzano, L'ultimo arrivatoMarco Balzano, L’ultimo arrivato, Palermo, Sellerio, 2014

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di Giuseppe Panella

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L’ultimo è sempre lo sconfitto, il vessato, la vittima designata: Ninetto detto pelleossa per la sua magrezza frutto di una fame secolare e apparentemente inestinguibile è il protagonista di un romanzo di formazione che, però, si conclude con una dura sconfitta, non con il compimento della maturità o il successo sociale da parte del personaggio più significativo della storia raccontata.

Il bambino (ha nove anni all’epoca) scappa da San Cono, sperduto paese della provincia di Catania e noto soprattutto per il miracolo officiato dal santo frate che portava questo nome, stabilendosi a Milano presso i parenti del “paesano” Giuvà che dovrebbe fargli da mentore e aiutarlo in questa difficile trasferta. Ma Giuvà non fa molto per lui oltre a rubargli i danari del gruzzolo affidatogli dal padre Rosario e ubriacarsi lasciandolo sempre solo nell’”alveare” (il complesso edilizio popolare dove gli operai di origine meridionale arrivati a Milano finiscono quasi sempre per andare ad abitare). Dopo essersi ripreso i suoi soldi quasi con la forza, Ninetto va a fare il galoppino in bicicletta per una lavanderia dove, seppure molto sfruttato, il lavoro gli procura una qual certa indipendenza economica. Ma ovviamente non potrà bastargli fare le consegne a domicilio della biancheria stirata e strappa – al compimento del quindicesimo anno di età – un posto all’Alfa Romeo di Arese, alla catena di montaggio dove rimarrà per lunghi anni senza cambiare mai prospettiva e dimensione lavorativa. Nel frattempo, Ninetto si è sposato con Maddalena, una ragazza altrettanto giovane e piena di buona volontà: si è sposato quasi clandestinamente al suo paese, è ritornato a Milano e poi ha avuto una bambina, Elisabetta. Quando la ragazza sarà diventata grande, il delirio possessivo nei confronti delle “sue” donne (un atteggiamento che non l’aveva mai abbandonato fin da quando si era sposato) esploderà in un atto di violenza contro Paolo, futuro marito della figlia, da lui sorpreso in un atteggiamento di abbandono amoroso con lei.

Ninetto lo pugnalerà più volte, per fortuna senza ucciderlo, in preda a un furore esasperato dalla frustrazione. Poi si consegnerà ai carabinieri e accetterà la conseguenza condanna al carcere. Uscito e senza lavoro, trascorrerà giorni disperati a cercare un’occupazione accettabile (tornerà a fare il galoppino e a consegnare pizze per conto di certi volenterosi africani) e a spiare la figlia per intravedere, anche da lontano, la nipotina Lisa. L’incontro con la bambina avverrà più tardi e Ninetto ne approfitterà per condurla nei luoghi dove ha vissuto la sua tormentata e straordinaria adolescenza (in particolare, i due visiteranno l’”alveare” da sempre degradato ma oggi ancor più popolato da un’umanità pericolosa e dolente). Il romanzo si conclude così, con un finale aperto: forse l’uomo (che si definisce “vecchio” ma non ha che cinquasette anni) non rivedrà più la nipotina, forse riuscirà a ricucire il rapporto con la figlia deteriorato dal suo gesto assurdo: ai lettori non è dato saperlo perché probabilmente non è importante. Quel che conta per Ninetto è aver vissuto l’indimenticabile esperienza di essere stato a Milano da bambino ed essere sopravvissuto, di avere gestito la propria esistenza in modo tale da raggiungere dei risultati positivi (avere un lavoro stabile, una casa di proprietà, un figlio e una moglie) che lo hanno liberato dal ruolo scomodo di “ultimo arrivato”. Ma resta la nostalgia per quei tempi e per quella miseria dove però c’erano stimoli forti a vivere e a farsi strada per raggiungere obiettivi concreti mentre poi quando questi erano stati ottenuti si erano rivelati inadeguati agli sforzi fatti per coglierli. Scrive Balzano nella Nota posta in fondo al romanzo:

«Questi uomini hanno oggi tra i sessanta e i settant’anni, alcuni lavorano ancora. Quando li ho intervistati ciò che più mi ha colpito erano i racconti della loro infanzia: ne parlavano come di un’epoca tanto difficile quanto avventurosa, piena com’è stata di imprevisti e di situazioni rocambolesche. L’entusiasmo, invece, si smorzava quando passavano a raccontare i trenta o quaranta anni di lavoro in fabbrica, spesso in catena di montaggio. Per questo secondo tempo c’è molto meno da dire: la vita diventa monotona, il lavoro spesso è alienante, il clima che si respira per qualcuno presenta qualche stimolo, ma per molti altri la fabbrica è deludente rispetto alle aspettative, a volte molto ingenue, che ne avevano. Insomma sull’entusiasmo di prima cala un silenzio imbarazzato, non di rado triste» (p. 204).

Il caso di Ninetto pelleossa non è un caso esemplare, certo, e la sua storia nei suoi risvolti più drammatici forse non è simile a quella di nessun altro ma nel modo in cui Balzano la racconta il senso di un’esperienza comune a quelli di tanti altri meridionali come lui trapiantati al Nord è comunque possibile coglierlo e identificarlo in una forte volontà di raggiungere l’obiettivo di una sopravvivenza e di una vita più decente. In questo il racconto della vicenda del ragazzino di San Cono che non vuole più mangiare pane e acciughe è molto simile a quelli che si potrebbero ricavare dalle storie umane di tanti extracomunitari scappati dall’Africa o anche da quell’Europa del Sud che è più povera e più arretrata ancora oggi rispetto a quella ricca ed opulenta del Nord.

La lingua di Balzano, asciutta e solo a tratti arricchita (e direi consacrata) dall’uso di parole dialettali

pur facilmente decrittabili, rende bene questa calma disperazione del fuggiasco per volontà di sopravvivere nonostante tutti gli ostacoli frapposti a questo suo sentimento così forte e così potente.

I periodi brevi e cadenzati della narrazione sono la mimesi di una lingua che non riesce a dire se non sottraendo e scavando nel profono. Non a caso il romanzo della vita è per Ninetto proprio Lo straniero di Albert Camus: simbolo di uno straniamento e di un rifiuto della realtà in cui è costretto a vivere ma anche omaggio a un’umanità che non si piega e che la vita disumana di cui è stato vittima non è riuscita completamente a vincere e a spezzare.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.