Storie di scuola. Alfonso Lentini, “Le professoresse meccaniche”

Alfonso Lentini, Le professoresse meccaniche, Graphofeel, 2019, pp. 155, € 13,30

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di Stefano Lanuzza
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“‘Razionalismo è l’idea che noi si possa sempre comprendere tutto sullo stato dell’essere’. È un viaggio verso la morte. Lo è sempre stato. […] Ma l’ altro motivo per cui siamo qui sono i sogni e i sogni sono irrazionali. […] forse dovremmo cominciare ad accettare (solo nell’inconscio per ora e con un’infinità di remore dovute a ritardi culturali) una diversa definizione dell’esistenza. L’idea che non arriveremo mai a comprendere tutto sullo stato dell’essere. E se il razionalismo è un viaggio verso la morte, allora l’irrazionalismo potrebbe essere il viaggio verso la vita… almeno fino a prova contraria” (S. King, The Stand, 1978, 1990).

Le professoresse meccaniche (Roma, Graphofeel, 2019, pp. 155, € 13,30), come un traslato o quasi una parodia del quadro delle Muse inquietanti (1918) di De Chirico, è il titolo del secondo racconto dell’omonimo libro di Alfonso Lentini, da cui possono ricavarsi pagine-campionatura ognuna emblematica. In esso, l’autore stabilizza la sua visionarietà fingendo dapprima la biografia, risalente all’infanzia e poi alla contemporaneità, di un personaggio ultracentenario rammemorante aure metafisiche con meccani e manichini che assumono vita propria richiamando certe atmosfere, oltre che dechirichiane, dei Bontempelli, Paola Masino, Dino Buzzati o d’un simpatetico Savinio con le sue le metamorfosi animalistiche; senza trascurare le magnetizzazioni dei quadri di Escher…

Sulla scorta di cotali maestri, l’autore prende a fare i conti con parvenze che solo la mancanza d’immaginazione fa credere siano quelle comunemente intese o interpretate. Poiché esistono, se vuoi, anche una “Valle Taciturna” stretta tra i monti, una “scuola senza suoni” con un “insegnante di Silenzio”, bizzarri “grattacieli nani” e “scalatori di Roseti”, “cercatori di Dei” e un’“Isola delle Bidelle”, “demiurghi uranici” e un fenomenologo dell’Invisibile, una “professoressa Volante” e uno “zio dal Collo lungo”, un “Professore a rotelle” docente di “Lucore Lunare”, una “Macchina Emanatrice di Buio” e un “Reclutatore di Bambini prodigio”…, distopiche fenomenologie non approssimabili a prima vista e disposte in un contesto alieno dove ciò che conta non è “l’amore per il prossimo, ma l’amore per il lontano”… Vi sono anche dei modi di percepire il senso ‘distante’ delle cose senza determinarne l’assoluta identità o negarne i processi combinatori, le mutevolezze illimitate, le avventure oniriche, le variazioni e ripetizioni, le inaspettate trasformazioni e le repentine sparizioni.

C’è una guerra, l’eterna stolida guerra degli uomini tra loro, che dura da secoli e ora devasta una scuola uccidendo “tre professoresse” subito sostituite da altrettante professoresse dalla buffa onomastica – Leprottina, Padellina e Pallotta –, ma non in carne, ossa, frattaglie bensì… ‘fabbricate’ con fili e ingranaggi, parrucche di stoppa, occhi di vetro strabicamente vaganti e dei plaid a coprire le vergogne.

Poi, nel racconto Il crocifisso, c’è, inchiodato con bulloni sopra la cattedra di un’aula scolastica, un crocifisso “pieno di polvere e bucherellato da cacche di mosca” costretto a guardare dall’alto una scolaresca di adolescenti distratti e annoiati, più che altro intenti a manipolare “certi rettangoli piatti, detti smartfon o aifon, mentre dalle loro orecchie pendono dei fili attraverso i quali ascoltano voci”. Ne vede d’ogni sorta, il povero crocefisso di ferro inchiodato a un muro: allievi, furtivi segaioli; “Nadia la Secchiona” che, in cambio d’un sacchetto di patatine, esibisce “il culo al compagno seduto dietro di lei”, uno che subito dopo si pianta un ago in vena e languidamente s’assopisce; la “professoressa di Santità Ancestrale” arrabbiata di brutto e ululante come una lupa; o un piccolo Chen “dagli occhi a mandorla” che, abitualmente “vestito da calciatore”, sale sul davanzale d’una finestra dopo un’interrogazione andata male e si getta a braccia spalancate sul marciapiede sottostante.

Ma giunta l’estate e chiuse le scuole, a chi può volgersi il povero Cristo appeso accanto a un foglio fissato alla sua destra, raffigurante una “biondona in bikini”? Lui, si sa, parla “solo aramaico”; ma, non avendo potuto fare niente per i sottostanti allievi, ora s’impegna a insegnare la propria lingua alla vicina che apprende in fretta, ma poi, purtroppo, non smette più di parlare: di balli, “creme abbronzanti”, “trucco sulle ciglia”… Se una critica della scuola è suggerita da questo racconto di un Nazzareno che osserva impotente i riti quotidiani di una spossata scolaresca, essa coinvolgerebbe la sclerosi di un’istituzione chiusa in sé stessa che, per programma, abolisce l’immaginario travalicante le leggi d’una realtà data dove non c’è posto per il dubbio, l’improbabilità, il sogno, la stranezza o la meraviglia.

Adesso, quante formiche nell’aula evocata in Il convertitore, racconto che l’autore omaggia a Buzzati e nel quale descrive un “professore di Metafisica Elettrica” determinato a sgominare la colonia di formiche, spadroneggianti in un’aula, divenute lo spasso degli studenti che le acchiappano e un po’ le torturano prima di ucciderle. Fino all’arrivo, appunto, del Convertitore, freudiano ‘perturbante’ realizzato dal prof nel suo “Laboratorio di Invenzioni crudeli”: una macchinetta piccolissima capace di avviare addirittura una trattativa o tradurre un ‘dialogo’ con gli stessi fastidiosi imenotteri che, moltiplicatisi e soprattutto cresciuti smisuratamente a vista d’occhio, vediamo entrare nelle orecchie degli studenti o salire in cattedra costringendoli a seguire delle lezioni basate sul concetto di comunità o “egoismo collettivo”: possibilmente contrastate da un certa “Gerlanda”, da un “professore di Brividoglia” e da una “suonatrice di arcobaleno”. Invano, perché le formiche prendono il sopravvento soggiogando “professori, bidelli, allievi, allieve, segretari” che, costituiti in bande eterodirette (comandate dalle formiche!), prendono inopinatamente ad assaltare negozi e banche, incendiare automobili, spaccare vetrine, bastonare, accoltellare, mitragliare i passanti. Alla loro guida è proprio quell’artefice del Convertitore che, oltre ad essersi occupato di elettrometafisica, si rivela un arcigno gerarca-negromante che con in testa “un cappellaccio a tre punte” entra ed esce dalle aule con piglio dittatoriale… Non è che così possa andar bene: bisogna perciò disattivare l’infernale Convertitore, congegno lillipuziano che Gerlanda scopre dentro un calzino e, dopo averlo gettato sul pavimento, lo schiaccia col tacco della scarpa. Al fragoroso scoppio prodotto dal Convertitore disintegrato seguono la vittoria sulle formiche con la stabilizzazione consueta e rassicurante d’una rarefatta ‘normalità’ che, come vuole la prassi, ha da fiscalmente regnare in ogni rispettabile ambiente scolastico.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.