STORIA CONTEMPORANEA n.7:Il buco nero del passato. “Il cuoco di Mussolini” di Carlo Bordoni

Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei.  (G.P.)

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di Giuseppe Panella 

 

7. Il buco nero del passato. Carlo Bordoni, Il cuoco di Mussolini, Milano, Bietti, 2009

 

Cosa sarebbe successo se… è domanda che si pongono spesso gli storici e altrettanto spesso i romanzieri (specie quelli che scrivono narrativa d’anticipazione).

Se l’Asse tra Italia, Germania  e Giappone avessero prevalso su Stati Uniti e Unione Sovietica, l’ordine mondiale non solo sarebbe risultato straordinariamente mutato, ma tutto quello che oggi ci sembra consueto e familiare sarebbe totalmente diverso e completamente stravolto.

E’ quello che accade, infatti, in La svastica sul sole (The Man in the High Castle del 1962) di Philip K. Dick, forse il romanzo più famoso dello scrittore statunitense (anche se il libro è assai più complesso di così e presenta, in maniera vertiginosa, la presenza di un libro nel libro e dell’alternanza di due possibili versioni della realtà).

Anche Carlo Bordoni prova in questo suo terzo romanzo a mettere a punto una possibile ucronia relativa alle sorti della Seconda Guerra Mondiale in Italia, ambientandola nel momento in cui sembra proprio che le vicende del conflitto stiano ormai volgendo verso la fine con la sconfitta delle forze tedesche di occupazione e dell’esercito repubblichino ad esse alleate.

Più che un’ucronia, però, a me sembra che il romanzo sia più un esperimento mentale (quello che in linguaggio filosofico viene definito da Mach e poi da Wittgenstein come un Gedankenexperiment) o un tentativo di riscrivere la storia già avvenuta senza riscriverla del tutto ma limitandosi a mettere in evidenza un suo punto nero, una possibilità inesplorata, una potenzialità forse inscritta in essa ma poi non più sviluppatasi per tutta una serie di ragioni (oggettive e, soprattutto, in questo caso, soggettive).

L’ipotesi è che Mussolini, resosi conto ormai da tempo di come stiano andando le vicende della guerra civile in Italia, abbia deciso di consegnarsi agli americani per barattare la propria sopravvivenza personale con i preziosi documenti segreti che trasporta sempre con sé e dai quali non si separa mai – di essi fanno parte probabilmente le celebri missive del carteggio tra il Caro Winston e il Dear Benito che Arrigo Petacco pubblicherà parecchi anni più tardi, per Mondadori, nel 1985 (la storia delle sessantadue lettere scritte da Mussolini a Winston Churchill è troppo complicata anche solo per poterla qui riassumere ma potrebbe certamente essere il materiale privilegiato di un altro romanzo, storico questa volta).

Il piano mussoliniano avrebbe dovuto chiamarsi (secondo Bordoni) Operazione Solleone.

Se è certo possibile che l’ex-Duce del Fascismo abbia pensato a questa possibilità estrema che gli avrebbe assicurato almeno la salvezza (e, nella peggiore delle ipotesi, un processo non sommario) non sapremo mai come il suo piano di fuga fosse stato architettato e chi ne sarebbero stati gli esecutori materiali.

Chi la racconta nel romanzo sono due dei suoi personaggi principali: Mussolini stesso in primis in una serie assai inquietanti e incisivi di monologhi interiori e poi un ragazzo (di cui non viene mai detto il nome da nessuno dei protagonisti della storia) che avrebbe dovuto assumere un ruolo fondamentale nella vicenda.

Il ragazzo (che è poi il Narratore principale della vicenda) è un classico “figlio del tempo”: il padre è stato deportato in Germania, la madre è stata costretta per necessità economiche ad andare a servizio presso una famiglia più abbiente e lui è stato “sfollato” (è la parola-chiave questa per descrivere la sua condizione esistenziale) in campagna presso la signora T., una vedova vecchia amica dei suoi genitori:

 

«La signora T. aveva detto a tutti che ero suo nipote. Poteva anche starci. Troppo complicato spiegare la verità. La questione di mio padre rastrellato e portato in un campo di lavoro. Di mia madre costretta ad “andare per serva” (come diceva lei) in a famiglia benestante. Troppo complicato e troppo sospetto. Come avrei giustificato la mia presenza? Se avessi detto la verità, magari, sarebbe venuto fuori che cercavo di sfuggire alla guerra. Alle mie responsabilità di ragazzo grande abbastanza per andare soldato. Che ero un disertore. Disertore di che? E però continuavo a covarmi dentro un senso di colpa che mi faceva stare male, mi bruciava. Quelli non erano tempi normali. Tutto era cambiato di colpo, i valori si erano deformati. C’erano nuove leggi, nuovi comportamenti a cui adeguarsi. Era successo tutto così in fretta che non ci si capiva più niente. Quel poco che avevo imparato non valeva più, come se qualcuno avesse ordinato: Basta, adesso cambiamo le regole del gioco, perché non ci si diverte più! Così il mio mondo era svanito nel nulla. Disperso. Invece del fascio, a sfasciarsi era stata la mia famiglia» (p. 15).

 

Il ragazzo parla in prima persona e in tempo reale. Non ricorda, non mescola passato e presente (se non in alcuni momenti onirici in cui le sinestesie dei cibi e degli odori legati ai luoghi lo fanno ritornare indietro bruscamente ad episodi a luoghi cari dell’infanzia meno recente), non si sente proiettato, tuttavia, verso un futuro migliore. Egli vive, in realtà, come se si trovasse in mezzo al nulla, un una dimensione di cui non capisce né le finalità né le prospettive.

Come i gerarchi fascisti e gli ufficiali tedeschi di scorta a Mussolini anch’egli si trova a vivere “nelle confortevoli stanze del Grand Hotel Abisso, sospeso sul vuoto, sul nulla” (come scrive Bordoni a p. 48, citando il titolo di un saggio del giovane Lukács pubblicato postumo). La differenza, però, rispetto ad essi, già condannati dalla storia e presto anche dai tribunali umani, è che egli è consapevole che il fascismo è finito e che presto gli Alleati metteranno termine alla sua ultima avventura di Salò.

Nella casa gialla (di ascendenza bellowiana) in cui vive con la signora T. arrivano all’improvviso Mussolini, il suo segretario, il suo medico personale Baldini e il colonnello Jandl delle SS incaricato (apparentemente) della sicurezza del Duce, in realtà designato a sorvegliarlo a vista perché non si defili e cerchi una possibile salvezza passando dall’altra parte del fronte (la casa di campagna in cui si è rifugiato è a poca distanza dalla Linea Gotica, tra Pisa e Lucca, e, quindi, non molto lontano dalle linee degli americani che, dopo aver liberato Firenze in seguito ad aspri combattimenti casa per casa, stanno per sfondare e dilagare verso il Nord). Ad essi e solo per una notte si aggiungerà Claretta Petacci che finalmente riuscirà a dormire con il suo uomo, lontana dall’imbarazzante sorveglianza dei tedeschi e libera dalla situazione di “mantenuta di lusso” che viveva di solito a Gardone Riviera dove a Mussolini poteva avvicinarsi solo per qualche momento di intimità.

In questa situazione ambigua e solo apparentemente tranquilla (dato che Mussolini aveva spacciato la sua venuta in Toscana come un periodo di vacanze) matura l’evento desiderato dal Duce.

Al ragazzo, reputato affidabile e simpaticamente accettato come cuoco di fiducia da tutti i presenti che non sanno, ad esempio, che egli aggiunge, quale ingrediente nuovo e saporoso, della merda di gallina nel dolce al cioccolato che lo ha reso famoso e gradito in qualità di chef improvvisato, viene affidata una lettera con la quale dovrebbe partire la misteriosa operazione di sganciamento di Mussolini. Ma il ragazzo, nonostante accetti la missione affidatagli, si rende conto delle sue possibili conseguenze e distrugge la lettera che avrebbe dovuto consegnare all’emissario indicatogli dal Duce.

 

«Non so cosa mi sia preso. Una furia sorda, una rabbia dentro che mi parve incontenibile. Uscii dalla macelleria e inforcai la bici per le strade deserte. Alla fontana della piazzetta mi fermai a bere. Bagnai il fazzoletto e me lo misi in testa. Il sole cominciava a bruciare. Non c’erano giustificazioni, non c’erano appelli. Avevano cambiato il mondo, il mio mondo. Potevo provare a cambiare il loro? Avevano stravolto la mia vita e quella di tanta altra gente. Non sarebbe stata più la stessa cosa. Non avrei più rivisto mio padre; non sapevo neppure se avrei rivisto mia madre… Ma quello che mi faceva infuriare di più era il pensiero degli anni rubati della mia adolescenza. Cancellati per sempre, tagliati via con la violenza. Questa era un’idea insopportabile. Da far impazzire. Se fossi riuscito a sopravvivere alla guerra, sarei sempre stato un uomo a metà. Privato dei ricordi dolci dell’infanzia, dell’affetto di una vera famiglia, dei giochi, degli amici. Di tutte le stupidaggini e delle lievità che fanno crescere. Non sarei stato capace di amare, di vivere appieno la mia vita. Perché mi avevano strappato la gioia di ragazzo e, assieme, la dignità di uomo. Avrei maturato un carattere diverso. Incerto, diffidente, fragile, incompleto. Succube, timido, pronto a sottomettersi agli altri, pur di sopravvivere. Servo. Un mezzo uomo, infame e inetto. Anche quando quei soldati, laggiù, se ne fossero andati, il loro passaggio non mi avrebbe lasciato indenne. Mi avevano marchiato a fuoco. Quella gente, quella guerra avrebbe impresso un segno indelebile sul mio spirito. Sarei cambiato per sempre. Ormai avevo appreso alla scuola dell’infamia il male di vivere e il risultato era questo. Era ciò che volevano: formare mezzi uomini senza idee, senza dignità, senza futuro. Misi una mano dentro i pantaloni e tirai fuori la lettera. Era accartocciata e bagnata di sudore. La rigirai fra le dita lievi come una cosa sporca. Là dentro, forse, c’erano le speranze di salvezza di un uomo che aveva molte responsabilità. Che cercava di uscirne alla meglio. Contando, come sempre, sulla paura, sul conformismo, sulla viltà, su un senso bastardo dell’onore. Non si meritava il mio aiuto. Sarei stato connivente, complice dell’immensa distruzione dei valori umani in cui ero stato trascinato assieme agli altri. Perché? C’era un vantaggio? C’era una salvezza per me, per loro? Era così semplice opporsi. Per una volta bastava “non fare”. Si chiamava resistenza passiva, no? Allungai la mano tremante e feci scivolare la lettera sotto il getto liquido della fontana» (pp. 124-125).

 

 

Quello che il ragazzo pensa di sé ha, ovviamente, un senso più ampio e va riferito al destino futuro dell’Italia, a quello che le accadrà negli anni a venire, nel bene e nel male. .

Quindi: tutto andrà secondo copione e, alla fine, il 29 aprile del 1945, i corpi di Benito, della sua amante Claretta e di molti gerarchi di Salò (da Nicola Bombacci a Goffredo Coppola, da Alessandro Pavolini ad Achille Starace) penzoleranno a testa in giù a Piazzale Loreto vicino alla pompa di benzina che vi si trovava al centro. Questa loro sorte sembra essere prefigurata da un’analoga mattanza di partigiani i cui corpi erano stati analogamente appesi all’ingiù nello stesso luogo e le cui foto erano apparse sui giornali letti in quei giorni sia dal ragazzo che da Mussolini.

Tutto il romanzo è impastato del sangue che viene versato in Italia in quei giorni – l’eco dell’efferata strage di Sant’Anna di Stazzema in cui i tedeschi massacrarono, senza farsi troppi problemi o scrupoli umanitari, cinquecentosessanta tra uomini, donne e bambini per rappresaglia raggiunge il Duce e lo fa indignare per un’azione inutile che coinvolge anche la Repubblica di Salò in una spirale inutile di morte e di massacri gratuiti e controproducenti.

Questo romanzo di Bordoni, tuttavia, non è soltanto un’ucronia (e neppure l’esplorazione romanzesca di una pagina della Storia che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo e dei suoi abitanti). E’ il tentativo di spiegazione di cosa è successo in Italia (tentato, ovviamente, con le armi della letteratura) in un momento storico cruciale per la sua vita di giovane nazione e delle conseguenze di esso, conseguenze che durano ancora oggi a partire da allora.

Il “buco nero” della storia d’Italia consiste in quel periodo storico (le vicende dell’occupazione tedesca in Italia e la lotta armata contro di essa) in cui tutto poteva cambiare e in cui poi è finito per mutare ben poco – non certo l’atteggiamento degli italiani e la loro volontà di voltare definitivamente pagine di fronte al “fascismo italiano di sempre” (Sciascia). Eppure se la ribellione di pochi si fosse trasformata nella rivolta generale di tutti…

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.