STORIA CONTEMPORANEA n.89: Un mese in Questura. Alessandro Bonanni, “Zerosedici. Vie di fuga”

Un mese in Questura. Alessandro Bonanni, Zerosedici. Vie di fuga, Milano, Eclissi Editrice, 2009

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di Giuseppe Panella*

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A che cosa pensano veramente i poliziotti quando lavorano, compiono le loro indagini, cercano di catturare i criminali o di prevenire i crimini? In fondo, è questo l’obiettivo letterario di Alessandro Bonanni. Ispirato da innumerevoli romanzi seriali americani (prima fra tutte, la lunga saga dell’87° Distretto di Ed McBain –Evan Hunter – Salvatore Lombino in tutte le sue possibili varianti letterarie, cinematografiche e televisive), il suo terzo romanzo poliziesco (in America direbbero procedural) è, in realtà, nonostante l’inizio luttuoso e mortale, un inno alla vita.

Alla fine della storia, infatti, tutti i principali protagonisti delle vicende narrate risulteranno in attesa di un figlio, ivi compreso il commissario capo Arturo Calzoni che da sempre sembrava alieno da quest’idea se non ostile per principio a questa prospettiva. E’ lui a raccontare le ultime vicende della squadra a Domenico Lo Canto, il collega siciliano ormai in pensione:

«”Tu mettiti a sedere e stura le orecchie, Mimmo, che le novità sono tante”.

“Mizzica, commissario, non sto più nella pelle. Che c’è, che c’è?”

“C’è che De Meo e Clara hanno avuto una bella bambina…”

“Già lo sapevo.”

“Che Stoppa e Milena aspettano un maschietto… “

“Alla faccia, vedo che al distretto si sono dati da fare!”

“Aspetta, aspetta che non ho finito: la Moranti e suo marito hanno un ragazzo in affido da gennaio e…” “E cosa?”

“E in contemporanea il viceispettore è in dolce attesa.”

“ Non ci credo, e bravo il geometra! Dai e dai ce l’ha fatta a ingravidarla!”

“ Ma ora viene il bello, sei pronto per lo scoop dell’anno?”

Mimmo rimase zitto, in attesa.

“Il sottoscritto, caro il mio Domenico, si sposa a giugno, e con moglie incinta.”

“Cristo Santo, commissario, se sapevo che dalle vostre parti gli ormoni giravano così a mille, con il cazzo che venivo via!”» (p. 188).

Il pretesto narrativo del romanzo è abbastanza esile e serve più che altro per far partire la cabala dei personaggi (come avviene pure, ad esempio, nei romanzi di Marco Malvaldi ambientati in un circolino di pensionati detto l’”asilo senile” e popolato da soggetti umorosi e pimpanti).

All’inizio del romanzo, la scoperta della morte di una coppia un po’ particolare (il vecchio colonnello in pensione Carmelo Speranza, già puttaniere indefesso e la sua badante Dolores Del Ria) sembra poter essere etichettata come un incidente dovuto ad una stufa a gas difettosa e mortale ma poi le indagini si orientano verso l’omicidio. Il principale sospettato è uno dei sei figli di Dolores, Javier, un giovane sedicenne di scarsa virtù sessuale (fa il gigolò con successo, pare) e in rotta con la società. Contemporaneamente al delitto della stufa, un giovane a sua volta sedicenne, Carlo Torquati scompare da casa propria senza lasciare tracce di alcun tipo. La madre, Laura Bianchi, una ex-maestra elementare un po’ troppo organizzata e inquisitoria nei confronti del figlio unico, telefona al vice-ispettore Morena Morandi di cui è amica per parte del marito Bernardo. Parte così una ricerca angosciosa che per buona parte del romanzo non sembra dare alcun frutto. Sarà un giovane spettatore di Chi l’ha visto?, la nota trasmissione televisiva cui Laura Bianchi si è rivolta per ottenere notizie del figlio scomparso a fornire l’incredibile notizia che Carlo Torquati è a Certaldo, non lontano da Firenze. Sarà la stessa donna, in compagnia del cagnetto Bolso e della sua tenacia, a fare luce sulla fuga del figlio: insoddisfatto della marcatura stretta della madre, il ragazzo si era recato nella località natale di Boccaccio presso una donna più vecchia di lui (ventiquattro anni e con problemi di obesità) che aveva conosciuto in una chat per anime solitarie. Prima di partire, il sedicenne aveva cancellato tutte le tracce che potevano portarlo al suo nido d’amore. Solo il fiuto e la pertinacia del cane Bolso erano stati capaci di rintracciarlo, nonostante la polizia ce l’avesse messa tutta con le sue battute di ricerca. Anche il caso della stufa assassina si concluderà poco dopo con la confessione della sorella di Dolores, Conchita, vera madre di Javier, che aveva ucciso sia perché gelosa del destino della sorella che stava per sposare il pur vetusto Carmelo Speranza sia perché la madre putativa di suo figlio stava per rimandarlo al paese natale, il Perù, per sbarazzarsene definitivamente a favore dei propri veri figli.

Ma qui – ripeto – la trama del procedural è palesemente un pretesto interessante per raccontare le storie personali dei protagonisti e le loro vicende più o meno angosciose e liete. Morena Morandi cerca disperatamente di avere un figlio utilizzando a tale scopo i giorni fecondi che ha a disposizione – nel frattempo, si farà dare in affido un bambino, Mirko, la cui famiglia ha serie difficoltà a tenerlo e curarlo. L’agente Federico Stoppa è incerto se avere o no un figlio dalla sua compagna Milena perché non si sente pronto per il gran passo di diventare padre ma poi, avuta la conferma che la donna è incinta, accetterà con gioia il peso della responsabilità che lo aspetto. Anche l’agente De Meo è inquieto per il parto imminente della moglie e la sua reazione sarà di una leggera follia mista a tenerezza quando la venuta al mondo della figlia Stella sarà condotta in porto con non poca fatica anche per il personale medico. E, infine, il commissario Arturo Calzoni riuscirà a superare i propri dubbi e le proprie remore per la necessità di fare una scelta a favore della vita familiare e piccolo-borghese cui non vorrebbe essere destinato. Nonostante la felicità che gli dà la sua donna, il giudice Antonia Iacone, e la sincerità dei loro sentimenti, il suo timore di essere incastrato a vita lo rende talvolta nervoso e inquieto:

«A torso nudo, nei boxer di cotone a righe, l’uomo, e non il poliziotto, chiese ripetutamente al se stesso riflesso una risposta al quesito che gli martellava le tempie: “Ma chi cazzo me lo ha fatto fare?”. Di trasferirsi in campagna, così lontano poi, con fidanzata a carico con tanto di sogno matrimoniale nel cassetto. Fidanzata, proprio con questa orrenda parola la Icone si divertiva a presentarsi ai suoi amici, ai suoi colleghi, anche a semplici conoscenti. “Fidanzata dei miei coglioni!” pensò Calzoni provando a fugare i cattivi pensieri con una bella sorsata d’acqua di rubinetto. Rimase muto per un paio di minuti, di estraniazione totale. Il bic a mezz’aria, lo sguardo smarrito fisso su uno schizzo di dentifricio nell’angolo in basso a sinistra del lavandino. Incapace di pensare ad altro che non fosse la trappola ostinatamente orditagli dal suo magistrato personale. C’era cascato; lui, proprio lui che aveva fatto del disimpegno una coerente strategia di vita relazionale, che non voleva sentir parlare di progetti a due, tanto meno di promesse nuziali, pargoli e tutto il “sfottuto” bagaglio di certezze familiari piccolo borghesi. L’astrazione meditabonda di quel momento lo collocò in una sorta di limbo, i piedi fermi sui mattoni rettangolari di cotto e la testa ballerina, a cercare senza trovarlo il perché di quel passo prematuro e avventato» (pp. 15-16).

Calzoni non sa che cosa fare: ama la giudice con cui convive ma il resto – la casa definitiva, la famiglia, i figli – non lo attirano poi troppo se li considera come una trappola micidiale per il suo futuro. Solo la vista della felicità familiare altrui e un episodio casuale (la scorta con sirena a una coppia che ha bisogno di arrivare in tutta fretta a Careggi perché lei sta per partorire) lo spingeranno a fare il grande passo.

Romanzo di ambiente, quasi una sit-com, Zero sedici. Vie di fughe è un romanzo che spinge nella direzione di un realismo quotidiano che si fa, alla fine, rappacificazione con il mondo e speranza per un futuro migliore. A differenza di tanti polizieschi interamente confitti nell’orrore e nella paranoia metropolitana, il testo di Bonanni gioca la carta dello happy end per confortare chi crede ancora nelle soluzioni classiche di un tempo.

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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.