STORIA CONTEMPORANEA n.49: Il peccato e la gloria. Roberto Bertoldo, “Ladyboy”

Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)

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di Giuseppe Panella

Il peccato e la gloria. Roberto Bertoldo, Ladyboy, Milano-Udine, Mimesis, 2009

«Quando gli apparve per la prima volta, era come se si fosse buttata nella sua vita. Aveva esperienza di questo. Gli era già successo di percepire, al primo sguardo, la solennità di un incontro e non s’era mai sbagliato. Sempre, dopo, ciò aveva significato un’emozione importante. E’ solo che le volte precedenti si era trattato di donne. Anche il nome era un segno. Si chiamava Liza e Liza, come Anna, era un nome che aveva influito sulla sua precoce andropausa. Liza era una cinese e aveva sedici anni. Inginocchiata sulla sedia, i gomiti sulla cattedra, sporgendo il viso verso di lui, aveva raccontato la sua breve storia, il padre ignoto, la madre ammalata, l’espatrio. Lui le aveva dato una carezza quando aveva visto che gli occhi le si inumidivano. Così nascono gli amori ultraterreni » (p. 8).

Il protagonista principale di Ladyboy, l’ultimo romanzo di Roberto Bertoldo, già autore affermato di testi narrativi e poesie e operatore culturale di rilievo con la sua rivista Hebenon,  è un prete. E’ la storia, infatti, successivamente e alternativamente narrata da diverse angolature, di don Giuseppe, l’ecclesiastico che si invaghisce di un transessuale di origine cinese, Liza, e finisce per sprofondare nell’alcoolismo e nella dipendenza dagli stupefacenti fino a morire per mano di uno spacciatore che ne teme l’influenza sui propri uomini.

Don Giuseppe, tuttavia, è un sacerdote particolare che non è mai stato insensibile ai piaceri della carne ma che si è sforzato fino ad allora di non cedervi (in una sola occasione, con Anna, lo ha fatto ma senza seguito). L’incontro con Liza, giovane transessuale con lineamenti femminei ma attributi maschili, sarà per lui devastante. Essa rappresenterà, infatti, per lui l’impatto primario e assolutamente nuovo con l’amore. Anche se non è certo della famiglia degli Humbert Humbert, il protagonista innamorato follemente di Lolita nel romanzo omonimo di Vladimir Nabokov, i toni del ricordo delle ormai trascorse notti d’amore saranno gli stessi:

«Liza, dolce Liza, mio canto d’amore disperato, io che temo d’essere retorico, mentre questo grido è amore, lo sa chi ama e deve abdicare e si porta via le carezze per sempre, perché l’amore è spesso di una sostanza irrisoria, è interamente forma, e le mie mani le mie labbra il mio corpo tutto che vorrebbe donare a Liza tenerezza perpetua deve accovacciarsi su questa tenerezza, farne fagotto, andare via. Liza non sa che mondo lascia, io sono impraticabile per lei, deve evitarmi ormai, ma non è questo a rattristarmi, è l’implosione del mio amore. Quando il suo corpo era a portata delle mie mani che avevano conosciuto la delicatezza nel lume della passione, in uno di quei momenti in cui gli occhi vivono solo degli occhi altrui, le mormorai la mia desolazione e lei, che era certo più desolata di me, stava zitta, lei uomo, lei donna della mia vita, io seppi allora, nel culmine dell’amore, di non essere io, invece, l’uomo della sua vita. E che poteva saperne?» (p. 91).

Don Giuseppe, nonostante si sia follemente perduto nel corpo acerbo, in sboccio, di Liza, non è un pedofilo. Si è innamorato della pura e impossibile bellezza, in realtà, di una bellezza in perpetuo mutamento che egli vorrebbe, tuttavia, fermare nell’attimo della sua massima apertura e fioritura. Dopo una breve stagione d’amore al mare, in un albergo di lusso, il prete che la sottana ha gettato alle ortiche, capisce che l’esplosione erotica fino ad allora reciproca non lo è più. Liza vorrebbe cercare una normalità che sa altrettanto impossibile e si fidanza con un certo Claudio che, però, si rivela, in fondo in fondo, una persona di molta buona volontà certo ma tragicamente inadatta a capirne la complessa mentalità e gli sviluppi della sua sessualità in divenire.

«Vivevo con un ragazzo, adesso. La mia normalità era questa. Una casa, il mio lavoro, mia madre che si era gravemente ammalata, forse in seguito alla mia bizzarria, come la chiamava lei. Avevamo cominciato il via vai degli ospedali, mia madre ed io, la seguivo dovunque. Lastre, operazioni, chemioterapie. L’inverno fu questo e anche al mio nuovo rapporto mancò, per un motivo diverso, la serenità. Ma poi venne la primavera, mia madre si era ripresa, il mio compagno aveva fatto di tutto per compiacermi. Si chiamava Claudio, era un insicuro» (p. 87).

Anche l’anello che lui le regalerà non basterà a dare sicurezza a Liza che lo lascerà abbastanza presto ma senza tornare da Don Giuseppe. Quest’ultimo, definitivamente abbandonata la Chiesa, troverà rifugio nella droga e, per procurarsela, accetterà un lavoro procacciatogli da Hrabal, un immigrato tunisino che fa il muratore di giorno e lo spacciatore di droga di notte. Ha una moglie, Malika, che lo ha già abbandonato una volta per seguire un italiano e poi è ritornata quando lui l’ha lasciata e due figli. Il suo rapporto con la donna è inesistente (lei praticamente lo ignora) ma il tunisino continua a tenere al simulacro di famiglia che si è costruito a forza di lavori onesti e non.

«Ogni volta che torno a casa, trovo Malika, ora. Delusa dall’amore italiano che l’ha ripudiata, è divenuta una sfaccendata depressa. E mi guarda, se mi guarda, con disprezzo. La convivenza gerarchica di due anime non può che produrre questa spocchia. Io però devo guadagnare il più possibile per conservare la famiglia, senza famiglia l’integrazione è ardua. Così, dopo tanto peregrinare, ho incontrato Righelli. Ossuto, loquace, determinato, non sembra un italiano di oggi. C’è chi lo scimmiotta, chi lo evita, qualcuno lo irrita, ma lui va dritto per la sua strada e se ti ci metti davanti, swram!, ti asfalta. E’ un peso massimo, nutrito a cocaina, con un naso da levriero. L’uomo che fa per me. Mi sono subito messo prono, non gli servivo in ginocchio altrimenti in ginocchio mi sarei messo, io ho la stoffa del servitore se mi si dà il dovuto. E Righelli è uno che paga solerte, come le bestemmie che tira. Per raccontarne una, un giorno mi fa: tu, pidocchio, c’è da conquistare il fortino antistante la caserma. E io, nonostante il livore che mi tuonava dentro, ci sono andato, davanti ai carabinieri, con i miei intingoli allucinogeni e ho allargato il mercimonio sotto il naso della buoncostume. Bravo non me l’ha detto ma sotto il cuscino mi sono trovato dei bei bigliettoni che hanno reso Malika docile ai miei fermenti per più di una settimana» (p. 119).

Hrabal lavorerà sempre più intensamente per lo spacciatore-capo e cercherà di coinvolgere anche il prete ormai spretato. Gli uomini di Righelli, alla fine, uccideranno Don Giuseppe per impedirgli di sabotare o bloccare il traffico della droga convincendo i pesci piccoli come Hrabal a non proseguire.

Per il sacerdote reietto sarà un riscatto; per Liza l’occasione di vendicarlo verrà seguendo Hrabal e denunciandolo alla polizia. La morte di Don Giuseppe, alla fine, servirà a qualcosa, molto più di quanto egli stesso pensasse di essere in grado di fare di buono:

«Sì, certo, i ricordi belli mi lusingavano, ma in amore le macchie sono indelebili, la disaffezione irrecuperabile. E che si pretende da uno che, come me, non ha assolto neppure Dio? Dio che mi ha negato le gioie più naturali per un essere umano: il calore di un altro corpo, i sogni di una vita insieme, lo spettacolo di un viso innamorato di me. Senza la pelle di Liza, non sono mai stato nessuno!» (p. 125).

Sia questo il miglior epitaffio per chi, come Don Giuseppe, ha saputo perdere dignitosamente (dopo aver giocato) al tavolo dell’amore… Una sconfitta che vale sempre come una vittoria.

Nel 1940, un romanzo di Graham Greene, Il potere e la gloria, storia di un prete che cade sovente in tentazione (al punto da aver avuto un figlio naturale) ma, nonostante tutto, è capace di giungere fino al martirio per confermare la propria fede, fu argomento di un dibattito che andava oltre la pura natura letteraria dell’evento. Il romanzo parve a un alto prelato della Chiesa Cattolica, il cardinale Bernard Griffin della diocesi di Westminster, un testo eccessivamente “paradossale” e incapace quindi di rappresentare, come tale, la natura effettiva dell’impegno nella fede e nelle opere dei “veri” cristiani (in seguito, Paolo VI, incontrando personalmente Greene, lo rassicurò sull’importanza e la bontà della sua opera di cattolico – e sicuramente non ce ne sarebbe stato affatto bisogno). Il personaggio del prete in questo romanzo di Greene (reso celebre dall’interpretazione magistrale che ne diede Henry Fonda in un film di John Ford, The Fugitive, all’epoca sottovalutato dalla critica) va al di là della pura e semplice provocazione morale.

Probabilmente anche Ladyboy è un’opera del tutto “paradossale”. Il suo senso va molto al di là della pura trasgressione letteraria e anche al di là del suo valore di indagine sociologica su un fenomeno effettivamente in via di espansione. La dimensione del romanzo, infatti, vuole essere rigorosamente etica e mostrare il rapporto tra colpa e verità e tra amore e senso del peccato piuttosto che cercare di scandalizzare i suoi lettori o descrivere un mercato dei corpi che tende a distruggere la resistenza delle anime. Testo polifonico, in cui nello stesso capitolo si alternano più voci in prima e in terza persona, questo romanzo di Bertoldo tenta di rispondere ad una domanda vecchia quanto il mondo e pur sempre coniugata in modi alterni e ossessivi: che cosa è l’amore? E quanto l’amore può salvare in un essere umano o invece corrodere e condannare?

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.