Stefano Lazzarin, Pierluigi Pellini (a cura di), “Un «osservatore e testimone attento». L’opera di Remo Ceserani nel suo tempo”

Stefano Lazzarin, Pierluigi Pellini (a cura di), Un «osservatore e testimone attento». L’opera di Remo Ceserani nel suo tempo, Modena, Mucchi, «Lettere Persiane» (12), 2018, 762 pp., 30 euro.

_____________________________

di Luciano Curreri

È la seconda volta che mi capita di recensire, senza pensarci su, un libro sulla critica co-curato da Stefano Lazzarin. Ma questa occasione, forse più della prima, mi fa muovere al di là della simpatia e della stima che ho nei confronti suoi (e del co-curatore del nuovo libro, Pierluigi Pellini). Perché questa volta si tratta di Remo Ceserani (1933-2016), cioè di un critico che a 23 anni, in una lettera al maestro Mario Fubini (1900-1977) per la tesi, ha il coraggio di scoprirsi «dispersivo e centrifugo», dimostrando una maturità di sguardo (anche in altre missive) che, come puntualizza subito Lucia Rodler, «segnala precocemente quel desiderio di allargare i confini della ricerca che diviene la cifra interpretativa del Ceserani critico» (p. 27).

Al tempo stesso, pur allargando di continuo la mappa grazie a quella «curiosità sempre in viaggio» di cui parla Giulio Ferroni (pp. 503-509), il Nostro sarà, più di altri, in grado di «raccontare»: di raccontare la letteratura e tanti altri, convergenti saperi (su cui si veda il saggio di Simona Micali, pp. 271-286), e non solo in seno al famoso libro del 1990, edito da Bollati Boringhieri, di cui Lazzarin, nell’esemplare Bibliografia (pp. 533-762), non fa fatica a dire che si tratta «dell’indagine e del bilancio più sistematici che Ceserani abbia prodotto su un argomento, la storia letteraria, da sempre al centro dei suoi interessi» — fin dalle lettere giovanili a Fubini — e «di una costellazione che comprende [una ventina di] scritti sul tema» (p. 624), i primi dei quali risalgono all’inizio degli anni Settanta.

Ecco, questo raccontare, a quell’altezza cronologica, nel contesto storico, nel tempo di cui Ceserani è più che attento testimone, tra anni Sessanta e Settanta, non va ridotto a quella divulgazione a cui oggi sembra ci si debba piegar tutti, recitando magari, uno per uno, il non sum dignus. Come precisa bene Andrea Bernardelli «narrare serve a prendere possesso del proprio tempo (individuale e storico), a farsene letteralmente una ragione, a comprenderne la complessità» (p. 383), per cui lo stoytelling di Ceserani non è né di origine narratologica (la narratologia, specie dove non compensata da un discorso storico, storico-ideologico, ha alleggerito le coscienze critiche dei giovani e post-giovani) né narcisistico-modaiola. Il Breve viaggio nella critica americana (1984), edito da ETS nella collana di Carlo Alberto Madrignani (1936-2008), la dice già lunga in tal senso e si avvicina, per certi versi, alla funzione di Critique de la critique. Un roman d’apprentissage (1984) di Tzvetan Todorov (1939-2017). E forse non è un caso che Francesco Orlando (1934-2010) — rispondendo, a questo proposito, a un’iterata e sentita domanda di Ceserani in un’intervista pubblicata da «L’Indice» (4, 1985, pp. 24-25) — osservi che «si ha spesso l’impressione di qualcuno per cui dietro l’impegno sui testi letterari c’è la coscienza che anche questa è una maniera di rapportarsi al mondo». Ovviamente questa maniera è poi diversa per ciascuno dei tre ma è fin troppo significativo che Todorov sia severo con Maurice Blanchot (1907-2003) e invece ben disposto verso il canadese Northrop Frye (1912-1991), i cui «libri ricreano il contesto del dialogo […] Egli parla [racconta] ad un ascoltatore benevolo, non allo specialista» (cito da Tzvetan. Todorov, Critica della critica. Un romanzo di apprendistato, Torino, Einaudi, 1986, p. 120).

Certo, possiamo — anzi potete — non essere d’accordo, ma poi non possiamo non constatare una convergenza di non banali sintesi di apprendistati: una convergenza che peraltro pare azzerare il cosiddetto «ritardo» in cui si sente Ceserani e sfumare il suo voler non essere protagonista, malgrado sé stesso e la sua incredibile voglia di vivere e di dialogare. Diciamocelo, il Nostro è animato da un desiderio (e un ingegno, ché a desiderare son buoni tutti) figlio di un’energia che Vittorio Roda (pp. 511-524) — un po’ prima della fine del corposo volume collettivo di Mucchi, edito nella bella collana di Luigi Weber, di cui a modo mio sto provando a dire qualcosa — ammira e riconosce, con la sua intelligente (e cronologicamente avvertita) bontà, in quel Ceserani che ha il ruolo di «pioniere», d’imbattibile corridore e ricercatore che sta sempre sul pezzo: e poco importa che il pezzo sia, direi, l’umana fabrique di Il materiale e l’immaginario (1979-1995) o quel «capolavoro della critica tematica di casa nostra che porta il nome di Treni di carta (1993 e 2002)» (p. 514).

E, sulla scia del ricordo di Roda, non posso non citare — tornando quasi all’inizio del libro — il pezzo di Emanuele Zinato dedicato all’«utopia concreta del Materiale e l’immaginario» (pp. 93-106), sul cui laboratorio (belfagoriano) interviene Sotera Fornaro (pp. 71-92); mentre sul Ceserani tematico, sempre con Roda rapidamente evocato, intervengono, fra monografie e dizionari, Sebastiana Nobili (pp. 199-212) e Romano Vecchiet (pp. 213-232). Ma tutto il volume curato da Lazzarin (ottima l’umanissima e a un tempo precisissima Presentazione alle pp. 11-19) e da Pellini (onesta e misurata la Postilla alle 525-531), ovvero da chi si sa mettere al servizio e da parte, è una ‘chicca’ (rarissimi i paragrafi ascrivibili al pezzo facile, scritto con la sinistra). Fa venir voglia di rileggere, una volta di più, il Ceserani anche un po’ dimenticato (l’ariostista tratteggiato, per esempio, da Sergio Zatti, alle pp. 41-56) o, et pour cause, quello americano (ben contestualizzato sul lungo periodo da Alberto Comparini, pp. 57-70).

Un «osservatore e testimone attento». L’opera di Remo Ceserani nel suo tempo fa venir voglia di credere ancora e tanto nella critica e nella sua vocazione a raccontare storie (letterarie, della cultura tutta, teoriche, pratiche, comparate, interdisciplinari…): una critica mai data per morta — ch’io sappia — da quel Ceserani che era (ed è, per Massimo Fusillo, alle pp. 489-500, e per molti di noi) «un critico eclettico (prospettivista, relativista)» che, proprio perché tale, sapeva ancora prestare attenzione a tutto e finanche rispondere a tutti. E pure a quel bischero del sottoscritto, che tanti anni fa, sempre grazie a Lazzarin, aveva avuto il privilegio di scriverne in maniera un po’ birichina ma sincera: «Ceserani, con la leggerezza di chi vi sta dando, in un labirinto metropolitano, due indicazioni per raggiungere le autostrade, parla di Teoria/teorie. Dal “festino” di Segre si passa, ma con meno pudore circa la “confusa situazione” americana, alla “scorpacciata” che a Yale, Cornell, Johns Hopkins e altre università degli States, si faceva (e forse si fa ancora) “di Marx, Nietzsche, Heidegger, Benjamin, Derrida, Foucault, Althusser, Bachtin, e chi più ne ha più ne metta” (e dopo, infatti, si ricordano altri numi tutelari, fra i quali il nostro Antonio Gramsci). Seguono classica indigestione (la crisi di cui si parlava con Segre) e classica cura: critici tradizionalisti versus modernisti, ormai dediti a riti tribali (vedi alla voce studi culturali, etnici, post-coloniali). E Remo Ceserani, negli aneddoti che snocciola in tal senso, passando da par suo dalle scorpacciate alle sculacciate, è impagabile, per il tono informato e brillante con cui vi parla del grigiore della teoria e dell’albero (paradossalmente) verde e dorato della vita. Ovvio (ma non scontato per la sua generazione) il rifiuto di prendere parte a una “crociata in favore di una concezione alta e assoluta della letteratura”; e opportunamente ci viene ricordato quanto quest’ultima possa essere “veicolo di prese di posizione ideologica a sostegno degli orgogli nazionali, o della violenza guerresca, o di un’ortodossia religiosa intollerante”. La conclusione è più che legittima [e ancora oggi più che condivisibile]: “A me non pare che si debbano porre troppo decisamente in contrapposizione studi letterari e studi culturali”» (e mi permetto di rinviare al mio Attualità della critica: persistenze novecentesche tra Francia e Italia, «Ermeneutica letteraria», 4, 2008, pp. 145-150).

_____________________________

[Leggi tutti gli articoli di Luciano Curreri pubblicati su Retroguardia 2.0]

_____________________________

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.