Stefano Lanuzza, “Argotier”

Stefano Lanuzza, Argotier. Louis-Ferdinand Céline, l’argot, il Novecento, Milano, Jouvence, 2018, pp. 86, € 9,00

_____________________________

di Marco Fagioli

Argotier: un saggio di letteratura comparata che ha come spunto emblematico il Louis-Ferdinand Céline innovatore ‘argotico’ del linguaggio letterario posto a confronto con altri autori e con le vicende storiche novecentesche riflesse nel nostro tempo. Céline non è quel tipo di romanziere che narrando dimentica se stesso. Piuttosto, valorizzando in funzione stilistica le possibilità espressive del linguaggio, i neologismi e gli argotismi, le assonanze o gli echi prodotti dalle parole, egli vuole attirare i lettori dentro la propria soggettività delimitatrice dell’orizzonte d’un reale che lo stesso autore – velleitario ideologo e imperfetto politico, moralista paradossale, filosofo anomalo e mistico ateo, ma, alla fine, scrittore inarrivabile – non affabula bensì “presenta” a tutto tondo.

*

Argotier. Louis-Ferdinand Céline, l’argot, il Novecento (Milano, Jouvence, 2018, pp. 86, € 9,00) di Stefano Lanuzza è un piccolo libro, ma è destinato a occupare un posto di rilievo nella più estesa bibliografia critica céliniana degli ultimi anni. All’autore si devono anche altri libri sul grande scrittore francese (Maledetto Céline, 2010; Céline della libertà, 2015; Louis-Ferdinand Céline. La parola irregolare, 2015; Céline testimone dell’Europa, 2016), oltre alla curatela e alla traduzione nel 2013 del libro del 1938 di Hanns-Erich Kaminski Céline in camicia bruna.

Un elemento fondante della lettura di Céline/argotier è quello di rifiutare la superficiale vulgata d’un Céline reazionario, nichilista, antiprogressista e anticomunista che la cultura di destra, specie in Italia, ha fatto circolare anche accreditandosi lo scrittore. Lo stesso fenomeno era già avvenuto in Francia, ove, però, tra gli intellettuali cosiddetti ‘di destra’ che hanno scritto di Céline vi sono figure, come per esempio Alain de Benoist, di ben altra levatura rispetto a taluni agiografi italiani.

A prima vista, Argotier si presenta come un saggio a struttura ‘narrativa’ e svolge nei suoi undici capitoli molti dei problemi riguardanti la critica intorno a Céline: prima di tutto la definizione morfologica della scrittura dell’autore, basata su “un francese caricato di locuzioni e fraseologie della parlata quotidiana che integra dialetto, gergo, neologismi” (p. 10).

Una risposta sulla scrittura di Céline, il critico la dà nel capitolo III:

«Céline – convinto che una scrittura espressiva, nata per lo più dalle parole del volgo, debba (in antitesi con le formule d’una letteratura innocua, consolatoria oppure ‘gonfiata’ à la manière di Proust, ebreo per parte di madre cui, contrariamente a quanto capita che si sostenga, lo accomunerebbero, a ben vedere, non la scrittura ma solo i sentimenti antisemiti) evocare anche le verità più dure o sgradevoli – matura il proprio argot in Mort à crédit. Lo fa sulla scorta delle criptografie del poeta e malavitoso François Villon, del medico ed eretico vocato al rogo Rabelais, dello storpio e sberleffante Paul Scarron che s’en fout de tout, dell’astioso Molière, del contrabbandiere Louis Mandrin, del poeta e assassino Piere-François Lacenaire autore del poema argotico Dans la lunette (1836, [lunette=ghigliottina]), del poliziotto ex criminale Eugène-François Vidocq col suo dettagliato Les voleurs (1837); e di Balzac, Jehan Rictus, Aristide Bruant, Eugène Sue, Marcel Schwob, Zola, Henri Barbusse, Marc Stéphane. Col Victor Hugo teorico della gergalità tra i più puntuali quale appare in Notre-Dame de Paris (1831), descrivendo il “popolo dell’argot” come una comunità di erranti e diseredati, e soprattutto nel Libro VII della Parte quarta di Les Misérables (1862): epico, monumentale romanzo sociale che gremisce di sé l’intero Ottocento della letteratura non solo francese ed è sicuramente vicino al buon cuore del dottor Destouches. Questi, nel ruolo dello scrittore Céline, rigetta le forme tradizionali avvalendosi delle ‘coloriture grasse’ come delle sottigliezze del frasario popolare (delle parole dei gueux mendicanti, malingreux sofferenti, colporteurs imbroglioni, sabouleux maltrattati, capons impauriti, drilles buontemponi…) per ottenere un effetto immediato presso i suoi lettori; da cui vuole, innanzitutto, essere inteso ‘emotivamente’… È un’emotiva lingua, dopotutto neoletteraria, quella di Céline; la cui voce risuona ancora oggi unica e inconfondibile.

Di Hugo, affascinato dalla Cour des Miracles accattona e vagabonda, esegeta del Royaume de l’argot e non ignoto al Céline erede delle protolingue criptico-malavitose dei bassifondi parigini (jobelin, baragouin, blesquin, narquois), ha rilievo anche il romanzo contro la pena di morte Le dernier jour d’un condamné (1829), reso in prima persona da un condannato che racconta la propria disperazione in un codice refrattario e marcatamente gergale. Forse è proprio questo personaggio estremo che più di altri protagonisti letterari discopre, con i suoi mots expressifs o ‘lingua di natura’ fattasi ‘di cultura’, quello che Hugo chiama le gouffre (l’abisso) de l’esprit accogliente le masse subproletarie poste in scena da Jack London nel reportage dell’East End londinese The People of the Abyss (1903): quel popolo – scrive il marxista London in The Iron Heel (1908) – che non ha ‘niente da perdere, fuorché la sua miseria e la pena di vivere’.

L’argot è nel complesso un fenomeno letterario e un prodotto sociale’ spiega Hugo in Les Misérables. Aggiungendo: ‘Cos’è l’argot propriamente detto? L’argot è la lingua della miseria’.

L’argot è fatto per esprimere i veri sentimenti della miseria’ concorda Céline mostrando di conoscere il romanzo di Hugo. ‘L’argot è fatto perché l’operaio possa dire al padrone che detesta: tu vivi bene e io male, mi sfrutti e giri col macchinone, ti farò fuori’ (‘Arts’, 6 febbraio 1957, pp. 19-20)».

In questa genealogia linguistica che l’autore traduce in una linea alternativa alla lingua aulico-accademica della letteratura francese da Villon a Hugo, quest’ultimo occuperebbe un posto decisivo come teorico della gergalità; mentre Céline s’inserirebbe nella linea d’una lingua opposta a quella delle classi dominanti presso le quali il classicismo sarebbe lo stile letterario passato dall’aristocrazia alla borghesia nemica delle classi sfruttate: di quel “popolo degli abissi” descritto anche da London.

L’argomento della scrittura di Céline era stato affrontato in maniera esemplare anche dal maggior esegeta dello scrittore, Henri Godard, in Poétique de Céline (Gallimard, Paris, 1985). Nei primi tre capitoli del volume – Le français de Céline, Le plurivocalisme célinien, Écriture et idéologie –, Godard seziona tutti gli aspetti della questione: innanzitutto egli sembra mantenere la distinzione tra langue e style; e pur riconoscendo che “Mai, [in Céline] più che in altri, il progetto stilistico passa per la scelta, o le scelte, di lingua” (p. 29), afferma che la tecnica di scrittura, il plurivocalisme célinien, il grande lavoro linguistico realizzato dallo scrittore nei romanzi non ne fanno da soli la grandezza. Nel suo libro, Godard è stato quasi obbligato ad affrontare la questione dell’argot non solo dal punto di vista storico, ma anche linguistico e quindi a introdurre nella descrizione della scrittura e dello stile céliniani delle categorie di analisi desunte dalla linguistica. La maggior parte di queste categorie, Godard le riprende dai saggi decisivi di Mikhail Bakhtin (Esthétique et théorie du roman, 1978; La Poétique de Dostoïevski, 1970), che negli anni dal 1970 al 1990 domineranno il dibattito europeo sul romanzo parallelamente allo strutturalismo.

Quale pertinente definizione dell’argot, Stefano Lanuzza cita quella di Hugo: “Il vero argot, l’argot per eccellenza […] non è altro […] che la lingua laida, inquieta, sorniona, traditrice, velenosa, crudele, losca, vile, profonda e fatale della miseria . […] la miseria ha inventato una lingua di lotta che è l’argot” (Argotier, p. 21)… Fin qui il disegno storico circa l’uso dell’argot di Céline funziona, mentre nello stesso tempo, come avvertito da Godard, nasce un problema critico allorché si passa dalla storia dell’argot all’analisi linguistica delle sue strutture; ed è qui che in Argotier si sospende l’analisi, ripresa nel quarto capitolo del libro.

Uno degli aspetti interessanti di Argotier è il passaggio continuo operato tra analisi letteraria, ricostruzione storica e giudizio politico, così come ben appare nel quarto capitolo dove si passa dalle riflessioni sull’argot agli scritti antisemiti di Céline: Bagatelles pour un massacre, L’École des cadavres, Les beaux draps. È in queste pagine che l’autore ripropone uno dei temi centrali della sua interpretazione di un Céline “comunista”, pure esemplato nell’epigrafe céliniana “Je suis pas réactionnaire! pas pour un poil! pas un minute! pas fasciste”, tratta da Bagatelles. Qui, però, sembra di ravvisare una sorta di giustificatoria dell’antisemitismo di Céline nella constatazione, con Enzo Biagi autore di Addio a questi mondi (Rizzoli, Milano, 2002), che, al tempo di Bagatelles e dopo, anche molti scrittori e intellettuali italiani ed europei professano il loro antisemitismo.

Altresì, il critico ritorna sull’antisemitismo dell’ebreo Marx segnalandone le punte in Zur Judenfrage (1843) o nello stesso Das Kapital (1867) dove Marx “appella i capitalisti ‘giudei intimamente circoncisi’” e identifica il capitalismo con la borghesia capitalistica.

Una difesa, così motivata, del Céline antisemita parrebbe speculare all’accusa altrettanto totale e senza appello del suo antisemitismo “genetico dalla nascita” che Annick Duraffour e Pierre-André Taguieff hanno fatto risalire addirittura al Voyage nel loro monumentale Céline, la race, le Juif. Légende littéraire et verité historique (Fayard, Paris, 2017): del quale si è già ampiamente trattato, proprio con Stefano Lanuzza, in Marginalia intorno a Louis-Ferdinand Céline (Aión, Firenze, 2018).

Dalle Bagatelles in poi, ma senza ignorare L’Église, un testo teatrale del 1933, l’antisemitismo di Céline fu profondo e ossessivo. Appare allora corretto collegarlo all’alveo di quella cultura francese di fine Ottocento che trovò in La France Juive (1886) di Édouard Drumont la sua più compiuta espressione.

Ora, il fatto che Céline costruisca il suo antisemitismo sull’assioma ebrei uguale capitalismo finanziario internazionale, ebrei uguale potere della borghesia contro le classi più povere, ebrei uguale plutocrazia, nulla toglie all’ingiustificata implicazione razzista del suo pensiero. Il razzismo è un fenomeno culturale storicamente così complesso che può essere analizzato non solo con gli strumenti della storia politica, ma anche da un punto di vista antropologico. Su esso è utile ricordare qualche asserzione di Hannah Arendt, che scrive: “La verità storica è che il pensiero razziale, le cui radici affondavano profondamente nel XVIII secolo, emerse simultaneamente in tutti i paesi occidentali nel XIX. Fin dall’inizio di quel secolo, il razzismo ha costituito la potente ideologia delle politiche imperialistiche” (Race-Thinking before Racism, 1944; Il razzismo prima del razzismo, trad. M. De Pascale, Castelvecchi, Roma, 2018, pp. 6-11).

Lo stesso autore di Argotier avverte come il problema del razzismo non può essere solo spiegato con i motivi storico-sociali quando accenna alle implicazioni psicologiche, culturali, ideologiche, religiose; ma non compie il passo finale verso la visione della Arendt – “il razzismo è sopravvissuto a intere biblioteche di confutazioni” – che indica altre ragioni profonde, attinenti anche al darwinismo sociale e all’etologia (Huxley, Lorenz) o all’uso ideologico-politico dello scientismo.

Un’altra indicazione su cui occorrerebbe riflettere è quella del rapporto razzismo-totalitarismo sempre presente nella storia delle due ideologie, la razzista e la totalitaria.

Nella sua lettura dell’opera céliniana, Lanuzza opera una saldatura tra la critica antitotalitaria al regime sovietico (Mea culpa, diffuso all’inizio del 1937, viene dopo il viaggio di Céline in Unione Sovietica e contiene un’accusa radicale contro il comunismo staliniano: “Uno Stato di polizia burocratico e nemico del diritto, repressivo, corrotto e criminale non meno di quello zarista e dei Paesi totalitari”, Argotier, p. 43) e la rivendicazione di un comunismo come “qualità dell’anima” (Bagatelles) e “vocazione poetica” (L’École des cadavres). Nell’occasione, l’autore richiama anche una nota di Marina Alberghini secondo cui Céline avrebbe scritto Mea culpa “per avvertire le sinistre del loro tragico errore che era quello, come aveva ammonito George Orwell, di voler essere antifascista senza essere antitotalitario” (Gatti e ribelli. Gli scrittori ‘maledetti’ raccontati dai loro gatti, Mursia, Milano, 2017).

Allora come conciliare le dichiarazioni di comunismo come “qualità dell’anima”, il sentirsi “comunista in ogni fibra” (parole consegnate alle pagine di Bagatelles e di L’École), con l’ossessivo antisemitismo che anima i due libri? Forse ritrovando le origini dell’antisemitismo di Céline nella cultura di base e nell’idea che gli ebrei fossero l’anima perversa della plutocrazia e del capitale finanziario internazionale? Ma questa è un’interpretazione delle contraddizioni ideologiche a fondamento della scrittura di Céline che non può essere risolta dalla critica. Il ragionamento andrebbe capovolto: occorre partire dal fatto che le parti narrate e quelle di collage politico e ideologico costituiscono l’essenza stessa della struttura delle Bagatelles, libro assai composito. Esso allora apparirebbe nella sua vera luce, cioè come un esito alto della scrittura céliniana, non inferiore al Voyage e a Mort à crédit. Non è possibile, infatti, pensare oggi Céline senza un libro come Bagatelles ed escludendolo solo per motivi ideologici dalla sua opera complessiva.

Dalle Bagatelles nella loro forma di esperimento linguistico, in quel composito succedersi di invettive politiche, di rabbia ossessiva, di quadri parodistici, di balletti, in cui Céline raggiunge uno degli apici della propria opera, dalle Bagatelles, insomma, parte tutta la seconda fase della sua scrittura, da Guignol’s band fino alla trilogia dell’esilio in un viaggio apocalittico attraverso la Germania distrutta… In questo senso è naturalmente da condividere un’indicazione dell’autore relativamente alle Bagatelles fondate su “un linguaggio sì di aggressiva polemica antisemita, ma anche di un’inquieta denuncia dell’imminente conflitto mondiale – del massacre – che sta per travolgere il mito di civiltà dell’Europa finita alla mercè dei dittatori. È un libro di epica sociale, Bagatelles […]” (Argotier, p. 41).

Appare alfine inutile sceverare nelle Bagatelles il grano dal loglio, l’efficacia narrativa dall’ideologia antisemita: poiché nel testo le due facce non sono separabili. Non si tratta di cercare una giustificazione storica al loro antisemitismo, ma di cogliere l’elemento letterariamente rivoluzionario di un testo che si celebra nell’invettiva così come nel pastiche formale, un pastiche tuttavia rigorosissimo e sostenuto da una lingua spesso inventata in cui Céline rende pienamente lo sfacelo della sua epoca.Tutta la grande tradizione francese ottocentesca del libello sembra alla fine compiersi in questo libro scandaloso che conduce al cuore del mondo céliniano… Forse un altro modo per leggere Bagatelles è di porlo accanto ai dipinti di Hieronymus Bosch autore delle Tentazioni di Sant’Antonio, del Giardino delle delizie o dei Sette peccati capitali, quadri ove l’allegoria si fa immagine senza perdere mai la sua oscura origine di incubo proiettato sul mondo. Come nel Trittico del fieno, ispirato dal proverbio fiammingo “Il mondo è un carro di fieno, ciascuno ne afferra quanto più può”, le figure che si muovono in Bagatelles sono quelle di un’umanità accecata dal possesso dei beni terreni, pervasa dalla follia e in viaggio verso la perdizione. Secondo le due apocalissi, Tentazioni di Sant’Antonio e Bagatelles, l’umanità non si può salvare; da cui anche il rifiuto di Céline d’ogni umanesimo.

Si è visto che Argotier giunge dopo altre opere dell’autore su Céline, e che quest’ultimo libro è un po’ una ‘sintesi narrata’ degli scritti precedenti e anche un percorso del critico-scrittore nel suo basilare tentativo di dimostrare la natura rivoluzionaria dell’autore del Voyage, e toglierlo così dal campo recintato in cui l’ha chiuso una critica ideologicamente orientata a destra. Accade insomma, come commenta Giovanni Tesio, italianista e studioso di Primo Levi, che Stefano Lanuzza giunga “a suggerire di Céline una lettura di paradossale, totale, ‘estremità’ […, e] pare che persino il ([…] riconosciuto) ‘antisemitismo’ di Céline non sia poi altro che l’ontologica necessità (come in Nietzsche del resto) di un’opposizione ‘rivoluzionaria’, radicalmente ‘rivoluzionaria’, non compromissoriamente rivoluzionaria, come dimostrano le umane (storiche) rivoluzioni. […] pare, insomma, che ci sia – come accade agli scrittori ‘estremi’ – una radicalità antiborghese, ma anche anti-popolare, che fa di certi testi non altro […] che il documento di un bisogno nichilistico (profondamente nichilistico), ossia […] definitivamente […] ‘rivoluzionario’” (17 ottobre 2018).

Sulla linea di un Céline visto ‘da sinistra’, sempre riferendosi al tema della collaborazismo filonazista, in Argotier viene poi declinato una specie di giudizio sul Novecento più prossimo allo scrittore: appaiono così gli spettri di Julius Evola, “teorico del razzismo spirituale”, e di Martin Heidegger “antisemita e complice effettuale del nazismo sorgente”; mentre più pertinente risulta l’inserimento di Céline nel contesto dei Klages, Benn, Bataille, Artaud, Klossowski, Jünger; e decisamente centrato appare, sul piano ideologico – nonostante le diversità di stile –, l’accostamento al Malaparte di Mamma marcia (1959) nella spietata prognosi del futuro dell’umanità: “Gli uomini diventeranno ‘sempre più malvagi e più vili a mano a mano […] che si allontaneranno dall’immenso, segreto, magico, misterioso regno animale’” (Argotier, pp. 51-53)… Lasciando da parte la copiosa letteratura sul Céline animalier con il suo gatto Bébert e con la sua casa abitata dal pappagallo Toto e da una schiera di altri gatti e uccelli, da cani e tartarughe, si ricordi un’avvertenza di Freud secondo cui gli uomini che amano molto gli animali sovente si dimenticano degli esseri umani dai quali finiscono per allontanarsi.

Il confronto Céline-Malaparte è uno dei topoi che l’autore di Argotier considera nei suoi libri su Céline, soprattutto riferendosi alle opere malapartiane di guerra (Viva Caporetto, 1921; La rivolta dei santi maledetti, 1923; Kaputt, 1944; La pelle, 1949), considerate in una comune diagnosi sulla fine dell’Europa. Soprattutto è degno d’attenzione il rapporto che l’autore stabilisce tra Mamma marcia (1959), libro malapartiano pubblicato postumo, e alcune pagine di Rigodon. Il suo giudizio è netto: “È Malaparte un corrispettivo minore di Céline per alcune affinità psicologico-letterarie e i disdegni relativamente alle tematiche di guerra” (Argotier, p. 53).

Quello che può mancare a tale scandaglio comparativo circa Céline e altri autori è forse un maggiore approfondimento del contrasto con scrittori collaborazionisti come Brasillach, che attaccò ferocemente Céline dalle pagine dell’“Action française”, o Drieu La Rochelle che, a un livello di scrittura superiore rispetto ad altri, scrisse come ex combattente uscito traumatizzato dalla Prima guerra mondiale La commedia di Charleroi (1934). Quantunque copioso di rilievi su altri scrittori, Lanuzza ricorda solo di passaggio Brasillach e La Rochelle; mentre fa bene ad insistere sul significato rivoluzionario di alcune dichiarazioni di Céline, tra cui quelle rese il 28 aprile 1944 al periodico “Germinal” nell’intervista Contre le communisme: “Contro il comunismo, io non vedo altro che la Rivoluzione […]. La vera! Supercomunista! L’Egualitarismo o la morte!”. Sono queste recise dichiarazioni di lotta sociale che, insieme a tante altre, come in Mea culpa – “I padroni, che schiattino! All’istante! Putridi rifiuti! Tutti insieme, o uno alla volta! Ma subito!” –, a far definire Céline “un utopista égalitaire” o, meglio ancora, un “anarchico-libertario” e, come afferma di sé lo stesso Céline presentando il Voyage all’editore Gallimard, un “comunista con un’anima”… Poi la verità del giudizio di Céline sulla società e il mondo non si può consumare nelle apodittiche o scandalose dichiarazioni politiche dello scrittore, bensì all’interno della sua stessa scrittura, aggressiva e deflagrante.

Secondo Philippe Alméras, Céline ha vissuto in modo contraddittorio il suo antisemitismo: in modo evidente e clamoroso, il merda agli ariani per la loro eccessiva “morbidezza”, già balenante in alcune affermazioni di Bagatelles, viene da Céline ripreso nel 1947 in diverse lettere al giovane professore americano ebreo Milton Hindus. Nella corrispondenza con Hindus che si occupa della riabilitazione letteraria di Céline, si assiste a un cambiamento di posizione che francamente potrebbe stupire un lettore impressionato dall’antisemitismo di Bagatelles; e lo stesso avviene nelle lettere di Céline ad alcuni amici: a Jeanne Rouland (“I miei amici ebrei d’America hanno fatto il necessario. Mi adorano! Non parlo degli ariani letamai e compagnia bella”), a Paul Bonny appena uscito da un carcere svizzero (“In URSS è un ebreo a togliermi d’impaccio – ci adoriamo – Milton Hindus – professore a Chicago – Mi ristampa in inglese presso un ebreo. Gli editori mi hanno scocciato! Merda agli ariani! In diciassette mesi di guerra non un solo dannato fottuto dei 500 milioni di ariani ha lanciato un solo gridolino in mio favore. Tutte le mie guardie erano ariane! me ne ricorderò!” (Ph. Alméras, Céline, 1994; Corbaccio, Milano, 1997, pp. 395-397).

Chi nello scorrere degli anni e quindi delle opere, cercasse una linea pur assurda di continuità esterna, politica, tra il Céline di Bagatelles e quello del secondo dopoguerra resterebbe deluso. Una linea di coerenza ideologico-politica di Céline non esiste: egli segue un percorso emotivo-espressivo interiore, che è poi la radice della sua stessa scrittura.

Alcuni hanno descritto la fase filosemita di Céline (come la definiva Alméras) fino al 1949 (“Questo periodo filosemita durerà due anni, concludendosi bruscamente alla fine del ’49”) come un tentativo strumentale dello scrittore per uscire dalla condizione di paria internazionale, di capro espiatorio, in cui si era e lo avevano cacciato. Ma non è così: analizzando la dialettica tra un corrivo antisemitismo e l’antisemitismo céliniano non si può trovare una linea di coerenza ideologica misurabile con il metodo dell’analisi politica: il diagramma dell’antisemitismo di Céline appare oggettivamente ‘schizofrenico’, ma tale ideologica ‘schizofrenia’ trascende e si sublima nel testo scritto, divenendone anzi un elemento di forte valenza stilistica. Tale paradosso per il quale da idee ideologicamente schizofreniche scaturiscono esiti letterari alti, e un caso paragonabile appare quello di Ezra Pound, è un paradosso che la critica non potrà mai spiegare se non abbandonando il metodo di analisi storico-politico e partendo, invece, dal carattere autonomo della scrittura rispetto all’ideologia.

Purtroppo, le opere di Céline, in Italia e in Francia, sono rimaste fino a ora confinate in una querelle assurda, come si è visto, sul rapporto tra la scrittura e l’antisemitismo dello scrittore: un approccio errato dal punto di vista della critica letteraria, ma strumentalmente utile alla cultura della destra politica sino alle frange estremistiche che rivendicano alla loro ideologia l’appartenenza dello scrittore. Lo stesso non è accaduto presso studiosi di area anglo-americana capaci di sfuggire a preconcette letture ideologiche, fondate appunto sull’antisemitismo, che hanno portato la destra a strumentalizzare Céline e la sinistra a esorcizzarlo, spesso ignorandolo e condannandone le idee politiche insieme alle opere.

Certo, la compromission di Céline con gli occupanti tedeschi, pur essendo scelta dallo scrittore, ma anche subita, non può essere negata e fa un certo effetto vedere le fotografie che Anne Sinclair, la nipote del mercante anglo-francese ebreo Paul Rosenberg, ha riprodotto nel suo libro autobiografico, dove si vede Céline il giorno dell’inaugurazione dell’Institut d’Étude des Questions Juives (maggio 1941), nei locali espropriati della galleria di rue La Boétie: lo scrittore è colto di profilo, con il volto teso in quella stanza dove, sopra un cartellone di genetica razziale, si legge la scritta “Nous combatons le juif, pour redonner à la France son vrai visage: un visage de chez nous” (21, rue la Boétie, Skira, Milano, 2002, tavv. 14, 15). Appare chiaro che tale compromissione non potrà eticamente essere mai cancellata da nessuna pagina nemmeno di grande letteratura, ma a volte l’arte, la grande arte, ha poco a che vedere con l’etica.

Il problema di Céline collaborazionista è stato ripreso anche in altre pagine di Argotier nelle quali l’autore assume François Mitterrand come controprova della persecuzione subita da Céline. A fronte di un Céline “capro espiatorio” al posto di altri soggetti ben più compromessi e tra questi in primis Mitterrand che prima di militare nella Resistenza ha svolto incarichi di alta responsabilità dirigenziale nel governo di Vichy guidato da Pétain al servizio dei nazisti.

Nei libri di Lanuzza dedicati a Céline, è ricorrente il tema del Mitterrand ‘vichysta’; e anche questa volta il critico non si perita di indicare articoli pieni di accuse contro ebrei, comunisti, massoni e gollisti pubblicati sui giornali di Vichy in appoggio agli occupanti tedeschi. Ovviamente, senza volere scagionare le idee antisemite di Céline con comparazioni di responsabilità più gravi di quelle dello scrittore, l’autore ricorda inoltre come Mitterrand, per il suo zelo di collabo, sia stato insignito dal generale Pétain, nell’aprile 1943, dell’“Ordre de la Françisque gallique”.

Anche la Sinclair nella sua biografia segnalava le responsabilità del Mitterrand pre-Resistenza e accentuava il carico di accuse indicando che le amicizie del futuro Presidente della Repubblica francese con alcuni esponenti dell’antiparlamentare e antidemocratica Action Française e addirittura il legame con uno dei cagoulard (gli assassini dei fratelli Carlo e Nello Rosselli) erano continuate anche dopo la guerra.

Ma al di là delle esigenze storico-comparatistiche, l’insistere della critica su questi argomenti in una sorta di processo a carico oppure a discarico di Céline non potrebbe anche distrarre dal concentrarsi sul valore della sua scrittura? Alla fine, contrapporre un Céline anarco-comunista a un Céline fascista e antisemita può utilmente servire a compiere il vero Voyage au bout de Céline?

Sulla questione, poi, del rapporto tra Céline e Ernst Jünger, Stefano Lanuzza fornisce nuovi ragguagli. La maggior parte della critica non ha approfondito la questione tra i due scrittori dominati da una specie di reciproco disprezzo, ma era stata sin qui concorde a individuare Céline in quel “Merline” (“grande, ossuto, forte, un po’ goffo”) dei diari parigini dal 1941 al 1945 dello scrittore tedesco; con qualche pagina dedicata anche agli occasionali incontri all’Istituto germanico e nel salotto letterario della miliardaria americana d’origine francese Florence Gould, amica dell’attrice Marie Bell e di Arletty, tutti habitués dei suoi Jeudis (H. Godard, Céline, Gallimard, Paris, 2001, pp. 312-313).

In Argotier (p. 48) viene ripresa una recente affermazione del germanista Claude Haenggli secondo il quale Jünger, dopo la traduzione in francese del suo Journal de guerre (1951), avrebbe negato che il Merline dei suoi diari fosse Céline. Questa tardiva correzione di Jünger appare tuttavia poco plausibile: intanto bisognerebbe chiedersi perché egli avesse appellato Céline con il nome di Merline e se l’associazione con la figura del mago Merlino potesse avere, al di là del fatto caricaturale, un significato letterario. Connotando Céline con il nome di Merline, probabilmente Jünger intendeva attribuirgli un senso ironico se non dispregiativo: insomma, lo scrittore tedesco rimanda alla figura del mago e profeta leggendario che assommerebbe in sé i caratteri della bontà e dell’intelligenza, ma anche il suo essere figlio del diavolo nemico della fede cristiana. Ora possiamo ragionevolmente congetturare che Jünger abbia indicato Céline con il nome di Merline proprio supponendone la natura diabolica; ma forse, epitetandolo come Merline quasi per farne una caricatura, finisce per tributargli una sorta di omaggio.

Nell’ultimo capitolo di Argotier, l’autore compendia tutti i punti del suo saggio: il rendu émotif, la scrittura fonetica, i neologismi e i gerghi che avvicinano Céline – oltre che ai francesi sperimentalisti dell’argot (Francis Carco, Poulaille, Audiberti, Breffort, Boris Vian, Giraud, Le Breton, Frédéric Dard), agli americani Henry Miller e Charles Bukowski o al cubano Pedro Juan Gutiérrez – a scrittori italiani a lui affini per il loro impegno linguistico-lessicale: Lorenzo Viani, Malaparte, Gadda, Fo, Camilleri e, in particolare, Stefano D’Arrigo autore del romanzo Horcynus Orca (1975): il quale, in accordo con un giudizio di Contini, l’autore considera vicino a Céline; concludendo che gli scrittori citati ben “si presterebbero allo studio comparatistico in un rapporto col pastiche di Céline” (pp. 71-74).

La parte finale del libro di Stefano Lanuzza sul tema della ricerca linguistica céliniana e intitolata Lessico dell’argotier, costituisce una vera novità relativamente agli studi sullo scrittore francese. A differenza di quanti hanno scritto genericamente circa l’uso dell’argot in Louis-Ferdinand Céline, qui il critico enuclea e traduce un’assai ampia serie dei termini argotici e dei neologismi adoperati dallo scrittore nella propria opera, indicando così un nuovo progetto per ulteriori ricerche.

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.