SNAKE

Il serpente che non può cambiar pelle muore.

Lo stesso accade agli spiriti

ai quali s’impedisce di cambiare opinione:

cessano di essere spiriti.

Friedrich Wilhelm Nietzsche, Aurora.

Sfregandosi insieme queste cose,

ossia nomi e definizioni,

visioni e sensazioni, le une con le altre,

e venendo messe a prova

in confutazioni benevole

e saggiate in discussioni fatte senza invidia,

risplende improvvisamente

la conoscenza di ciascuna cosa.

Platone, Dialoghi.

di Giuseppe Gentile

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INTRODUZIONE

Parlando del più e del meno in una serata senza tempo, una serata che potrebbe essere di ieri come di oggi, e perché no anche di domani, mi ritrovai dinanzi ad una questione che sembrò essere importante per chi mi stava di fronte, ma allo stesso tempo compresi che per me sarebbe stata vitale. Si disquisiva sul colore del tramonto. Vennero fuori tutta una serie di possibili colori: arancio, rosa, rosa tendente all’arancio, amaranto. Nessuno, tuttavia, riuscì a trovare un colore che minimante desse l’idea di quello che stava capitando sotto i nostri occhi: la fine di un giorno.

Non trovando un punto in comune, preferimmo, anzi preferirono, investire le nostre energie su argomenti più interessanti, o forse meno interessanti (chi lo sa). Fortunatamente il tramonto era là e non aveva bisogno, per vivere, che gli si attribuisse un colore. L’unico ad essere scontento forse fui io, poiché quello strascico di incertezza mi accompagna ancora adesso.

Provai in tutte le maniere a scovare quel colore, ma niente, tuttavia il tramonto è il tramonto, l’alba è l’alba, il mattino porta luce, la sera le tenebre.

Tutto molto semplice, ma se per assurdo, non esistesse il tempo, il passare delle ore e dei minuti, l’idea che noi abbiamo di giorno e di notte, come faremmo a distinguere l’alba dal tramonto, un giorno dall’altro, la mattina dalla sera?

La domanda forse non ha risposta e soprattutto potrebbe essere traslata a tutto quello che ci circonda. L’uomo naturalmente è sempre portato a scindere tutto quello che incontra, a fare di tutto una convenzione, a volte vi riesce egregiamente, a volte i tentativi di creare categorie diventano assolutamente inutili per capire la natura.

Detto questo, per una sorta di deformazione professionale, durante i miei studi letterari mi sono trovato a dover decidere se un romanzo fosse comico, tragico, tragicomico, un romanzo di formazione piuttosto che un romanzo storico, oppure di un’opera teatrale, se si trattasse di una tragedia o una commedia, e così via; evidentemente quello che ci insegnano a scuola, cioè che esistono caratteri distintivi di un genere (letterario, umano, animale ecc. ecc.) rispetto ad un altro, tanto distintivi non lo sono, altrimenti tutti saremmo stati in grado di riconoscere il colore di quel tramonto in quel luogo e tempo, anch’essi indefiniti nei miei ricordi.

Ma la storia è il terreno su cui scorre la vita, l’arte, e senza che noi ci facciamo caso, cambia pelle, adattandosi e mimetizzandosi in tutto quello che incontra. Fortunatamente la pelle vecchia e squamata, quella che ha fatto spazio a quella nuova, la possiamo trovare dietro di noi, o davanti a noi, dappertutto insomma, dobbiamo solo essere capaci di riconoscerla fra le pieghe di quell’humus abbandonato dal ricordo umano.

Tra universo e natura.

Perché il serpente come rappresentante della mia teoria sui generi?

Tutto parte da quello che i generi rappresentano ed hanno sempre rappresentato lungo l’arco della storia.

In primis c’è da dire che i generi sono sempre esistiti, perché come detto nell’introduzione, l’uomo ha sempre cercato di determinare una categoria, unendo in una tutti gli esemplari con caratteri comuni, distinguendola da altri elementi con caratteri diversi. Da questa spiegazione, forse un po’ troppo arzigogolata, nasce una definizione canonica di genere letterario, àmbito che ha le sue radici fin da Platone ed Aristotele:

‹‹Per genere si intende convenzionalmente una classe di testi che presentano proprietà stabili e distintive comuni››1.

Come tutte le definizioni, questa risulta essere troppo semplice per identificare un ambito letterario sempre in evoluzione, soprattutto perché la categorizzazione in generi (ma anche in razze per quanto riguarda il mondo umano ed animale) non è di così facile attuazione. Sia ben chiaro, questo non lo dico io, lo dimostra la storia della letteratura e di questa disciplina.

La prima cosa che salta agli occhi in questa definizione è sicuramente quella che vede nel ‹‹testo›› l’unità di misura per individuare un carattere comune che identifichi un genere, tuttavia Theodor W. Adorno rintraccia due questioni fondamentali, cioè il rapporto che deve intercorrere fra testo e genere, quindi fra generale (o universale, che non a caso per Platone è stabile nel tempo e uguale per tutti i soggetti2) e particolare, ed il problema degli individuatori di genere, che hanno avuto maggiore differenza di trattazione ed importanza negli studi tra Settecento, Ottocento e Novecento.

A questo punto bisogna capire quanto veramente il testo infici nell’individuazione di un genere, e per questo ci viene in aiuto Todorov, che in primo luogo pensa di sostituire il termine ‹‹testo››, con quello di ‹‹discorso››, per un semplice motivo, quello in base al quale il testo è sempre un atto linguistico che prima di diventare tale è discorso; poi sostiene di dover ‹‹definire generi solamente le classi di testi che sono state percepite come tali nella storia››.

Siamo in accordo con la tesi di Todorov, perché è vero che i generi sono da individuare nella storia e devono rappresentare un punto fermo nella loro stessa individuazione attraverso caratteri comuni ed invariabili, ma allo stesso tempo va detto che tale teoria lascia comunque poco spazio alla nascita o al rinnovamento di nuovi generi: il nuovo, pensandoci, deve sì partire dal vecchio, ma proprio in quanto nuovo sfuggente non può essere categorizzato in un semplice atto linguistico. In sostanza, il nuovo genere vive i suoi primi passi appena fuori dalla storia, poi strisciando silenziosamente senza nemmeno sibilare, si unisce al canone diventando anch’esso ‘genere’ all’interno dell’universo letterario, e solo in quel momento entra nella storia:

‹‹Più in generale, non riconoscere l’esistenza dei generi, equivale a sostenere che l’opera letteraria non mantiene le proprie relazioni con le opere già esistenti. I generi rappresentano appunto quel tramite, in virtù del quale l’opera si mette in rapporto con l’universo della letteratura››3.

Platone contro Stagira4.

‹‹La storia della teoria dei generi […] non è altro che la storia dell’aristotelismo nella storia della letteratura››5.

‹‹Soprattutto per la tragedia mi sento in grado di dimostrare incontrovertibilmente come non sia possibile allontanarsi di un sol passo dalla norma aristotelica, senza che quella si allontani altrettanto dalla sua perfezione››6.

Dove nasce la concezione di genere letterario? Sicuramente non si hanno dubbi nel rispondere. I primi ad affrontare l’argomento furono Platone ed Aristotele. Entrambi, inconsapevolmente, offrono i primi esempi di differenziazione di generi letterari, ovviamente riferendosi solamente a quelli che erano presenti e ben radicati nei loro tempi e nei loro luoghi.

Platone nel III libro del De Republica, discutendo delle forme di governo e della vita della polis, condanna fortemente i poeti (in generale), i quali con la loro interpretazione della realtà, restituiscono alla civiltà greca un’immagine molto falsata di divinità, eroi ed uomini, identificando come oggetto di questa cattiva trasmissione le favole ed i miti. Come se non bastasse, sempre nel De Republica, ma questa volta al X libro, Platone risulta ancora più crudele nel giustiziare il ruolo della poesia, questa volta riferendosi in particolare alla categoria degli autori tragici, colpevoli di utilizzare il principio di imitazione (diverso da interpretazione del III libro). Quest’ultimo è un simulacro, quindi non la realtà vera e propria, ergo ‹‹l’artefice del simulacro, l’imitatore, […] non conosce nulla della realtà, ma solo l’apparenza››.

Ora è facile notare come il punto di vista di Platone sia totalmente diverso da quello di Aristotele, perché lo Stagirita7 mette al centro della sua concezione e diversificazione di generi, proprio il principio di imitazione, screditato da Platone.

In sostanza, per Aristotele, tutti i generi conosciuti fino a quel momento e cioè epica, poesia tragica, commedia, ditirambi e citaristica ecc. sono tutte imitazioni che si differenziano per tre aspetti:

  1. Imitare con mezzi diversi.

  2. Imitare con oggetti diversi.

  3. Imitare diversamente e non nello stesso modo.

In realtà questo tipo di imitazione vale anche per la pittura, solo che nella poesia l’imitazione diventa racconto di un fatto, di un accadimento, o meglio ancora imitazione di un’azione, che a sua volta può essere: o realmente accaduta o soltanto possibile. Questo era il primo punto di discontinuità con Platone; il secondo riguarda il fine della poesia: solo docere in Platone (docere che comunque in Platone deve rispettare il parametro di medietas); delectare e docere in Aristotele, che poi va avanti definendo i criteri che consentono di definire e classificare i generi poetici:

  1. Mezzi: parola, musica, danza.

  2. Oggetti: persone che compiono un’azione che possono essere migliori o peggiori di noi.

  3. Modi: la maniera in cui si compie l’azione.

Si avrà quindi che epica, tragedia8 o commedia, avranno un carattere più prominente, rispetto ad un altro carattere che lo canalizzerà appunto in un genere.

Latinità.

Dopo aver descritto quello che più o meno accade nella Grecia antica, dove la tragedia, almeno a detta di Aristotele, prende il sopravvento su tutte le altre forme poetiche, è necessario andare avanti ed analizzare il primo cambiamento storico o se vogliamo richiamare il titolo. Possiamo vedere il tutto come il primo cambio di pelle del serpente, quindi della poesia, la quale a questo punto non solo si trasferisce idealmente e storicamente, ma anche geograficamente. Raggiungiamo infatti Roma, che ha preso in mano il destino del mondo dopo la civiltà greca, divenendo la madre della cultura europea (insieme ai greci è ovvio).

La questione generica, in seguito, viene affrontata da un intellettuale di punta della latinità, cioè Orazio. Prima di analizzare l’Ars Poetica di Orazio, però, è necessario inquadrare il posto che a Roma viene riservato alla poesia: in sostanza la Poetica di Aristotele perde sempre più importanza a favore di un’altra disciplina, la retorica che abbraccia tutte le arti della parola, compresa la poesia. Tuttavia una qualche traccia della retorica si può trovare anche nella Poetica di Aristotele la quale, ad onor del vero, asserisce che la poesia deve condividere il suo cammino con la retorica, dove quest’ultima si è poco a poco distaccata, dando origine ad una nuova disciplina9. Risulta, quindi ovvio, il fatto che qualcosa in comune poetica e retorica devono necessariamente averla, infatti proprio Aristotele sostiene che ‹‹la metafora è l’elemento caratteristico che più accomuna la poesia e la retorica››.

Nella latinità sarà proprio l’Ars poetica di Orazio a testimoniare questa presunta fusione (secondo noi fondatissima) fra poetica e retorica, in quanto entrambi derivanti dalla parola, dai signa. Ancora mutuando da Aristotele, Orazio ritiene che il poeta latino deve attuare una fedele riproduzione di realtà e di finzione attraverso l’ormai famoso principio aristotelico di verosimiglianza, il cui fine deve essere sia quello di delectare e docere, ma anche quello di movere, cioè commuovere (tramite la commistione di vetus e virtus), qualità che vengono riprese direttamente dal De Oratore di Cicerone.

Orazio nella sua opera dà conto anche della questione creativa, anch’essa soggetta ad alcune linee guida, che se rispettate farebbero della sua opera un’opera d’arte; non è strano che la creazione secondo Orazio passa dalla bipartizione retorica di inventio e dispositio: la prima è senz’altro la capacità di appropriarsi di un modello, senza che tuttavia diventi un puro e semplice atto di copiatura, insomma la capacità di ricordare un modello ed al tempo stesso rinnovarlo; il secondo caso invece riguarda semplicemente la capacità tecnica dell’autore, a metà fra variatio e facundia, che poi sono le maggiori responsabili dello stile. Tutto questo però deve avere un artefice, questo artefice è il poeta (o il retore), il quale deve dare libero spazio al suo ingenium, nutrito con l’esercizio ed il sapere accumulato nel tempo.

Anche Orazio ritiene la tragedia un gradino sopra gli altri generi, anche se per la verità nel momento in cui fa un confronto fra i greci ed i latini, con fermezza dice che sicuramente, al di là di tutto, Omero rappresenta il modello inimitabile e soprattutto il modello entro cui sono racchiusi tutti i generi nella loro forma embrionale.

Una notazione bisogna farla riguardo la satira, che è secondo Orazio l’espressione precipua della civiltà latina, assolvendo allo stesso ruolo di preminenza che era stato della tragedia nell’antica Grecia, famosissima, infatti, è la frase di Quintiliano che dice: ‹‹Satura […] tota nostra est›› .

Snake.

Abbiamo visto quali sono i caratteri peculiari che secondo Aristotele , distinguono la tragedia dagli altri generi poetici, e che rendono tale genere superiore all’epos che pure ha un famosissimo ed insuperabile progenitore: Omero.

Adesso sappiamo che la tragedia vive per tutto il periodo in cui vive la polis, anzi diventa espressione di essa, tanto che nel momento in cui questa inizia il suo periodo di crisi, anche la tragedia trova la sua parabola discendente, culminante secondo la storia della letteratura greca con Euripide, avendo come autori simbolo nel suo periodo migliore Eschilo prima, Sofocle dopo, raggiungendo con loro il punto di maggior splendore.

Ecco che notiamo un fattore molto importante che è quello dell’evoluzione; tale qualità è biologica in un essere umano in quanto lo rende soggetto ad una nascita, una crescita, infine alla morte. Qui ci troviamo dinanzi allo stesso caso, solo che il tutto riguarda un genere letterario, nella fattispecie la tragedia, ma questo accade, per esempio, anche per l’epica che conosce il momento di suo maggior splendore con Omero, poi decade, facendo spazio proprio alla tragedia, o al dramma in generale (in linea di massima tragedia e commedia).

Ammettiamo che la tesi positivistica (facendo volutamente un salto fino alla fine dell’ Ottocento con il positivismo), per esempio una parte dell’idea di Brunetière, sia veritiera, e cioè che bisogna adeguare critica e storiografia al metodo di ricerca delle scienze naturali, seguendo in un certo senso il metodo utilizzato da Darwin nell’Origine della specie (1859). Su questa base, Brunetière, intende i generi come individui, che rispondono alle leggi che governano, appunto, l’evoluzione di una specie animale, umana, e da quel momento anche letteraria. Quindi si fa coincidere ‹‹la costituzione biologica con l’esistenza storica››10.

Ammettiamo pure che un genere letterario sia come un essere vivente, quindi soggetto a nascita, crescita, vita e morte, e che dopo la morte abbiamo una nuova vita, sotto un’altra forma. Tuttavia ci si è chiesti se questo punto di vista potesse essere impreciso, dato il presupposto di nascita di un elemento nuovo.

Quindi in realtà il genere letterario è un grosso serpente, un essere vivente soggetto alla morte, ma allo stesso tempo mutevole di pelle, cioè muore solo l’idea che noi abbiamo di un determinato genere (almeno in letteratura), che però veicola sempre e solo la poesia, la quale cambia faccia ma rimane sempre lì, sotto i nostri occhi, strisciando sul terreno, cioè la storia, attraverso cui si fanno largo lo spazio, il tempo ed il ricordo, tutti e tre elementi da cui prendere informazioni riguardo i generi precedenti da cui ne nasceranno dei nuovi, attraverso il cambiamento di sembianze (di pelle) della poesia (del serpente). Ecco quindi che avremo questa stringa:

(mito) (mito) (cristianesimo-stato)

POESIA, Omero, poesia, teatro, prosa, romanzo.

Precisazione: con questa specie di schema lineare, il romanzo è in coda a tutte le sembianze che ha acquisito la poesia nella storia. Ma quando e dove nasce il romanzo?

Giovan Battista Pigna11 scrive che il termine ‹‹romanzi12›› deriva da quegli annali in cui erano raccontate le gesta dei cavalieri di Reims, i Remensi13. Questo secondo Pigna è il fattore che rivendica e distingue il genere romanzesco dall’epopea, adducendo ancora che la materia dell’epos sono la storia ed il mito, mentre quella del romanzo è il verisimile, che poi diventa meraviglioso, come del resto accade con Ariosto nel suo Orlando Furioso, innalzato ad esemplare archetipico del genere romanzesco non solo da Pigna, ma anche da altri studiosi come Giambattista Giraldi Cintio. Si nota subito come il principio che muove la scritture del romanzo è lo stesso che fomenta la poesia: la verosimiglianza attraverso l’imitazione della natura, solo che, non basandosi su una storia “reale” come l’epopea, il romanzo non tiene conto della verità, cosa che lo rende più simile ad una favola.

Ideas in the cave.

Abbiamo, ora, un quadro abbastanza chiaro su quello che era l’idea dei generei nell’antichità fino alla latinità, in realtà visioni aristoteliche trasportate ed ampliate da Orazio stesso. Da mettere in evidenza, però, è l’eccessivo tentativo di classificare di Aristotele, ovvero quello di tracciare il percorso che deve seguire l’ingenium, quello che in epoche più recenti diverrà genium.

Nonostante tutto si potrebbe essere fraintesi. Non si intende dire affatto che l’ingegno non deve sottostare a nessuna regola, ma al contrario che la creazione, la maggior parte delle volte, avviene inconsciamente senza che il creatore in sé pensi alla divisione categoriale descritta fino ad ora, anche perché è lo stesso Orazio a concepire la poesia come sintesi di talento naturale e di tecnica.

È meglio vedere la poesia e tutte le arti in generale con una personalissima Weltanschauung, pensiamo infatti a ciò che accade nella caverna14 delle idee di Platone: egli descrive una caverna profonda stretta ed in pendenza. Sul fondo ci sono gli uomini, nati e vissuti lì da sempre; essi sono seduti ed incatenati, rivolti verso la parete della caverna. Non possono liberarsi, uscire, vedere quel che succede all’esterno. Fuori dalla caverna vive il mondo normale: piante, alberi, laghi, il sole, le stelle, ma all’entrata della caverna c’è un muro dietro il quale ci sono persone che portano oggetti sulla testa; da dietro il muro si possono scorgere solo gli oggetti, non le persone che li trasportano, insomma un teatro di burattini, come afferma lo stesso Platone. Poi c’è un gran fuoco, che fornisce un’illuminazione differente rispetto a quella del sole.

Questa è l’immagine di cui si serve Platone per descrivere la nostra situazione: la caverna sta al mondo esterno, come, nella realtà, il mondo esterno sta al mondo delle idee. Nell’immagine il mondo esterno rappresenta però quello ideale tant’è che le cose riflesse nel lago rappresentano i numeri e non le immagini empiriche riflesse. Si vuole evidenziare la differenza di vita nel mondo sensibile rispetto a quella nel mondo intellegibile. Noi siamo come questi uomini nella caverna, costretti a fissare lo sguardo sul fondo, che svolge la funzioni di schermo, in quanto su di esso si proiettano le immagini degli oggetti portati dietro il muro. La luce del fuoco, meno potente di quella solare, illumina e proietta questo mondo semi-vero. Gli uomini della caverna scambieranno le ombre proiettate sul fondo per verità, così come le voci degli uomini dietro il muro. In realtà è solo l’eco delle voci reali.

Gli uomini della caverna avranno un sapere basato su immagini e passeranno il tempo a misurarsi su chi è più bravo nel cogliere le ombre riflesse, insomma nell’indovinare quale sarà la sequenza: è l’unica forma di sapere a loro disposizione ed il più bravo sarà colui il quale riuscirà a riconoscere tutte le ombre. Ma supponiamo, per assurdo, che uno degli uomini incatenati riesca a liberarsi: immediatamente comincerebbe a vedere fuori gli oggetti portati da dietro il muro non più riflessi sul fondo della caverna; in un secondo momento andrà fuori dalla caverna, ma sarà infastidito dalla luce del sole, alla quale non è abituato. Quindi quando uscirà dalla caverna si sentirà smarrito. Altro passo sarà quello di guardare indirettamente la luce solare, osservandola riflessa in uno specchio d’acqua situato appena fuori dalla caverna. Solo dopo essersi abituato a guardare ed osservare quel mondo nuovo riuscirà a riconoscere le forme degli oggetti veri e soprattutto del vero mondo. A questo punto l’uomo che è fuggito dalla caverna ed ha visto tutto è indeciso sul da farsi: da un lato vorrebbe rimanere all’aperto, dall’altro sente il bisogno di far uscire anche i suoi amici dalla caverna ancora incatenati. Alla fine decide di calarsi nella caverna e quando arriva in fondo e non vede più niente, dato che dalla luce fulgente del sole si ritrova nuovamente al buio, quindi anche in questo caso la vista dovrà riabituarsi all’ambiente, sostiene di essere tornato per condurre tutti in un’altra realtà, ma essi lo deridono anche perché l’uomo non è più in grado nemmeno di riconoscere le ombre proiettate sul muro. Lui però continua raccontare loro del mondo esterno senza alcun risultato.

Al di là di quello che significa tale mito per Platone, tutto ciò ci aiuta a capire come il concetto di idea e realtà siano molto relativi e vari in base a tempi e luoghi, mi spiego meglio: se fossimo rimasti all’idea di genere aristotelico, accontentandoci solo di scorgere quello che l’antica Grecia ha voluto farci scorgere, saremmo incappati in un errore madornale, dato che le idee, come anche i generi, crescono nella storia del mondo reale e se quel mondo reale non si vede e non si analizza, rischiamo di rimanere legati nella caverna, sempre aggrappati a vecchie teorie molto poco proficue in quanto superate. La grandezza della genialità sta nel fatto di poter ragionare sulle proiezioni delle ombre sul muro, come fanno tutti gli umani, quindi empiricamente, poi una volta usciti dalla caverna confrontare l’idea che ci si è fatti sulle ombre, con la realtà. L’uomo che però riesce a fuggire dalla caverna e guardare fuori può essere solamente l’artista; solo lui è un grado di unire quello che è ideale (cioè è proiettato in forma di ombre su un muro), al reale ed è solo con questa fusione geniale che si può giungere ad un atto di creazione. Quando poi l’atto di creazione è ben visibile, perché nasce solo grazie al mondo reale, diventa genere. Chi deve aiutare l’artista e gli uomini a distinguere un’opera da un’altra? La storia, o meglio ancora, il corso della storia che scorre fuori dalla caverna, indipendentemente da ciò che accade all’interno di essa.

Risulterà, quindi, praticamente inutile liberare l’opera letteraria da qualsiasi condizionamento storico, rendendola in modo puramente funzionale, a detta Jauss ‹‹la somma complessiva di tutti gli artifici stilistici in essa contenuti››.

Per farla breve, tra gli anni dieci e venti del Novecento si sviluppò, dopo quella del positivismo e dell’idealismo, un’altra forma di studio scientifica, evoluzione – crediamo – delle due correnti precedenti, che trae le sue energie dallo studio del linguaggio poetico di Pietroburgo prima, di Mosca poi: il formalismo russo. Non è un caso, infatti, che a partecipare a queste disquisizioni ci sono anche Roman Jakobson, esimio precursore dello strutturalismo linguistico, che analizza il rapporto che intercorre tra significante e significato, rapporto da cui poi una lingua estrapola il significato intrinseco di un termine. Si studierà quindi un’opera e conseguentemente un genere in base al rapporto che intercorre fra le parole (o atti linguistici) e ciò che quel rapporto rappresenta nella storia della letteratura in maniera diacronica. Il formalismo, però, all’inizio rinnegò la storicità letteraria, ma in un secondo momento Viktor Sklovskij si accorse che il principio di storicità, nella fattispecie quello di diacronia non poteva mancare, Jauss allora precisa:

‹‹[…] se l’opera d’arte viene percepita contro lo sfondo di altre opere d’arte ed in associazione con esse, secondo la formulazione di Viktor Sklovskij, la sua interpretazione deve considerare anche i suoi rapporti con altre forme, ad essa preesistenti››.

Quindi, non si può scindere lo studio dei generi dall’analisi storica.

Bene, se non comprendiamo lo scorrere dei secondi, dei muniti e delle ore non potremo mai capire che da Platone ed Aristotele la poesia non è scomparsa, lasciando spazio ad altri generi, ma semplicemente ha cambiato forma diventando prosa, poi romanzo. Non è un caso infatti che Shiller intervenga con il suo discorso Sulla poesia ingenua e sentimentale, apparso tra il 1795-1796. Il drammaturgo tedesco riprende alcune idee derivanti dalla critica del giudizio di Kant, contestando ad Aristotele di proporre una teoria dei generi senza unn fondamento filosofico della teoria dell’arte poetica. Il sunto della faccenda consiste semplicemente nel fatto che la storia contribuisce a suo modo, attraverso l’evoluzione, ad una scissione da cui trae origine il nuovo, ergo, la morte del vecchio genere lascia spazio al nuovo, poiché l’esistenza procede secondo regole proprie ed immutabili, con gli uomini non legati alle creature ed agli oggetti della natura, ma all’idea che essi rappresentano. La natura dei Greci, a cui loro si riferivano per far sopravvivere il mythos, non esiste più, ma gli unici in grado di poter cercare la natura perduta, sono i poeti.

Certamente Shiller diviene il precursore della teoria essenzialistica dei generi, poi ampliata e portata, secondo Szondi, da Höderlin, a diventare un vero e proprio sistema di generi, dato che egli stesso li divide in tre, in base a forme fenomeniche: epico, tragico e lirico. Tuttavia è fermamente convinto che un’opera di ingegno non può essere incasellata in nessun compartimento, o meglio, nel momento in cui viene imprigionata in una categoria reagisce e sarà proprio quella reazione a creare un nuovo genere. Oltretutto è noto che in tutte le opere, e guai se non fosse così, avremo una tragedia che conserva al suo interno un po’ di epico ed un po’ di lirico, oppure un poema epico con caratteri lirici e così via.

Apollo e Dioniso.

Tale disquisizione, forse potrebbe anche bastare a far comprendere quanto il mondo dei generi letterari sia una realtà sempre in continua evoluzione, o involuzione se teniamo conto del caso in cui molte delle teorie moderne non sono altro che ampliamenti della teoria aristotelica, come del resto sostengono un paio di esimi studiosi moderni, come Willems e Schaeffer, oppure Bachtin, molto più radicale, il quale sostiene che lo studio,

‹‹finora non ha potuto aggiungere quasi nulla di essenziale››.

Poi su Aristotele e la sua poetica aggiunge:

‹‹[…] resta il fondamento incrollabile della teoria dei generi (anche se a volte egli si trova a tale profondità che è difficile accorgersene)››

Tuttavia manca qualcosa, è necessario approfondire ancora di più il concetto di arte e per fare questo prendiamo in prestito la definizione che dell’arte dà Friedrich Nietzsche con La nascita della tragedia del 1871. Egli, sostiene che:

‹‹Lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco››.

Questa frase, evidentemente molto significativa va sicuramente argomentata. Andando per gradi, direi di partire dal significato di apollineo e dionisiaco15. Il primo, è l’aggettivo che indica Apollo ‹‹dio del sogno, della luce, della moderazione, della serenità, dell’armonia, dell’apparenza, del principium individuationis16››; il secondo, riguarda Dioniso, ‹‹il dio dell’ebrezza, delle tenebre dell’eccesso, della sofferenza, del caos, dell’unità indifferenziata con l’essere primigenio17››. Molto indicativo è il fatto che anche con Nietzsche si rintraccia la stessa antinomia che si ha anche in poetiche di altri studiosi, come per esempio il contrasto tra organico ed aorgico di Höderlin, ma anche di rappresentazione e volontà di Shopenouer. In realtà l’apollineo ed il dionisiaco non sono altro che le vecchie categorie idealistiche di soggettivo ed oggettivo, categorie rifiutate da colui che diede voce a Zaratustra, in quanto concetti superati dato che è cambiato proprio il modo di immedesimarsi nella natura, aggiungendo poi che sicuramente la facoltà artistica dionisiaca è superiore a quella apollinea, ma allo stesso tempo viene riconosciuto il fatto che, nonostante la sua superiorità, Dioniso avrà sempre bisogno del suo contrario per prevalere.

Se ci pensiamo tutto questo ha un senso, perché probabilmente una determinata qualità se non ha nessun confronto rimane tale, chiusa nel suo stesso “Io” infertile, senza stimoli. Al contrario se una qualità riceve impulsi dall’esterno, magari grazie all’azione del suo contrario, dà vita al nuovo, che diventa il fattore principale della crescita dell’umanità e quindi anche di chi la compone, cioè uomini e poeti.

Come già detto in precedenza con Shiller, quindi, alla base della creazione c’è sempre il contrasto, che fa da fertilizzante della terra, quindi della storia.

Poesia come armonia, romanzo come melodia.

Fin qui si è parlato esclusivamente di quello che rende la poesia tale, e di come si è sviluppata nel tempo secondo le varie teorie filosofiche. Adesso è tempo di romanzo e per iniziare a parlare di tale argomento, enormemente vasto, vorrei partire da una piccola definizione del tutto personale, che potrebbe ritrarre il concetto di poesia:

‹‹La poesia non è altro che un insieme di parole che si susseguono in maniera armonica in un verso, o su di un rigo››.

La poesia è uno strumento che l’artista utilizza per tentare di rendere al meglio le proprie idee attraverso la parola, quindi, rifacendosi direttamente all’etimo della parola poesia18, crediamo che essa sia l’unica maniera che l’uomo, o meglio il poeta (artista della parola), possiede per “fabbricare” un’idea, fabbricazione che in questo caso vale sia per la poesia (nell’accezione che intendiamo noi, come opera in versi), sia in prosa, poi in romanzo. Se ci pensiamo, infatti, come è possibile che un romanzo riesca a prendere l’animo di una persona come fa la poesia, o come hanno fatto tragedia, commedia, epica e satira nei tempi passati? Semplice: prosa e romanzo conservano ancora al loro interno quel grado di poesia mimetica della natura, che ora è solo celata dalle diverse parole e dal diverso modo di vivere moderno, a metà fra l’armonia di un verso poetico e la melodia che vien fuori dalle parole di un aedo, senza che però intervenga la musica. A questo proposito si devono fare esempi molto eterogenei, attingendo sia da testi teatrali moderni (non più in versi come era nell’antica Grecia o è stato fino, più o meno al Settecento), che da romanzi:

‹‹[…] si può essere anche sicuri che un pazzo nota, può notare benissimo un travestimento davanti a lui; e assumerlo come tale; e sissignori tuttavia, crederci; proprio come fanno i bambini, per cui è insieme giuoco e realtà››19.

‹‹Si è sempre detto che le costellazioni sono fissate a una volta di cristallo, in modo che non possano cadere. Ma adesso abbiamo preso coraggio e lasciamo che si librino nella vastità, senza aggancio; e son tutte impegnate in lunghi viaggi, come le nostre navi, disancorate e in viaggio.

E la terra allegramente ruota intorno al sole, e insieme a lei ruotano pescivendole, mercanti, principi e cardinali e perfino il Papa››20.

‹‹sei uno spirito ardente, Ubertino, nell’amore di Dio, come nell’odi contro il male. Quello che volevo dire è che c’è poca differenza tra l’ardore dei Serafini e l’ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un’accensione estrema della volontà››21.

‹‹In verità quella musica perfetta era una voce umana. La voce di una donna. Una donna che conoscevo meglio di me stesso. Una voce che conoscevo meglio della mia stessa voce. Ma quella voce, per mia sventura, l’avevo sentita soltanto in sogno››22.

‹‹Dai rumori della città si scendevano tre rampe di scale istoriate di virilia e vagine, per entrare in un mondo buio e silenzioso, al centro della terra››23.

Con questi esempi, (e sia ben chiaro, che ce ne sarebbero altri milioni da fare), si capisce quanto, anche in un testo in prosa come un romanzo o un testo teatrale, l’armonia delle parole, quindi l’atto poetico del “fabbricare” un’idea, sia ancora presente. La poesia di Omero (potremmo inserire anche Esiodo), in tutti questi millenni di storia si è semplicemente evoluta: ha cambiato pelle, come fa un serpente, acquisendo via via un altro aspetto. Lukács, infatti ha ragione quando nella sua Teoria del Romanzo scrive sostanzialmente che ‹‹i generi non sono definiti dal verso o dalla prosa, non ricavano le loro proprietà distintive dallo stile, né dagli artifici retorici e neppure dagli oggetti, ma dalla loro ‹‹essenza vera24››. Poi propone questa visione della poesia:

‹‹per la poesia, soltanto la sostanza ha un’effettiva esistenza e soltanto sostanze tra loro intimamente omogenee possono venire alle prese nella comunione perennemente dialettica dei rapporti compositivi››.

Astruso o Ozioso?

Studiando e documentandosi sempre più su questa materia, viene naturale pensare come in realtà in molti, durante la storia letteraria, abbiano tentato di rendere sempre più dinamico il mondo dei generi letterari. Alcuni si sono rifatti ad Aristotele, vedi Vico; altri hanno preferito confutare Aristotele asserendo che non aveva una solida base filosofica, come Shiller, che oltretutto diviene l’apripista della concezione essenzialistica dei generi, affermatasi in età romantica col fine di studiare la genesi e l’evoluzione della letteratura, dove la poesia è ‹‹una ed indivisibile››25; altri ancora, riconducendo tutto all’atto della parola si sono occupati di classificare i generi in base ai rapporti fra le parole e i rapporti fra i testi in maniera diacronica, cioè gli atti linguistici nella storia, cioè i formalisti; prima di loro gli idealisti26 fondano un nuovo sistema dei generi, che ha come base una definizione teoretica della poesia, la quale si riconosce anche attraverso la sua storicità27, infatti Hegel nella sua Estetica propone una classificazione della poesia come essenza intrinseca di vari generi artistici, lungo tutto l’arco della storia, quindi avremo:

  • Poesia

  1. Architettura – simbolica – civiltà antico oriente

  1. Scultura – classica – civiltà ellenica

  1. Pittura e musica – romantica – civiltà compresa fra medioevo cristiano ed età coeva.

Tesi molto differenti, è chiaro, ma alla fine tutti convengono sul fatto che è impossibile ricondurre la letteratura a generi ben distinti, cosa di cui è convinto anche Darwin quando parla di origini ed evoluzione della specie.

Al contrario di tanti letterati, proprio Darwin capisce che in alcuni casi è difficile, se non impossibile distinguere qualcosa da un’altra, infatti nella sua teoria, spesso si lascia andare ad un semplice ‹‹non so››. Cosa questa è mancata a molti studiosi dei generi, soprattutto i positivisti, ostinati più di tutti nei confronti della loro categorizzazione.

Molti, arrivati a questo punto potrebbero pensare che quella dei generi sia una materia oziosa, invece, quello dei generi è uno studio per niente ozioso, anzi al contrario rappresenta l’evoluzione della nostra storia letteraria e quindi anche la storia dell’intelletto umano, certo diventa oziosa ed inutile nel momento in cui si perde di vista il vero compito di tale disciplina, che sta nell’identificare quali siano quelle opere che portano con sé la poesia, cosa che non ha nulla a che fare col gusto a cui faceva riferimento Metastasio, dicendo che ‹‹il buon giudizio e il gusto del pubblico›› devono essere le uniche costanti di cui l’artista deve tener conto (idea dell’umanesimo e del rinascimento), addirittura Botteaux riteneva il gusto un fatto oggettivo, ma allo stesso tempo fallace, perché considerato un sentimento. Insomma, tutto quello che viene messo fuori dalla porta, entra dalla finestra, come per esempio accade fra i formalisti e Bachtin, il quale in un primo momento è costretto a dare importanza al metodo formale, ma subito gli contesta l’approccio troppo linguistico. In tale approccio secondo Bachtin (secondo noi a ragion veduta), i formalisti ricavavano da un modello di poetica elementi che avrebbero dovuto ricavare da un’analisi empirica, poiché la poetica, e qui Bachtin, ‹‹[…] deve partire proprio dal genere››.

La scelta della figura del serpente, è stata quasi obbligata, dato che nelle caratteristiche biologiche di questo rettile esistono i caratteri di quello che avevamo intenzione di dimostrare, e cioè che la poesia non ci ha mai abbandonati, ha solo cambiato pelle, e ancora che è una fortuna che questo cambiamento di pelle, o questa evoluzione, sia avvenuta, altrimenti non avremmo avuto una perla come il romanzo, o perché no il saggio, che non a caso è la forma adottata in questo caso, per rendere partecipe l’umanità di un’idea, forse non rivoluzionaria, ma quantomeno sensata.

In ultimo diciamo: ‹‹Ricerchiamo sempre la poesia, soprattutto dove non può sopravvivere››.

Il cavillo deleterio.

Molti degli studiosi che hanno affrontato la questione dei generi letterari, si sono soffermati sul carattere più evidente di ogni opera per affiancarla a questa o quell’altra categoria di testi, dando vita ad un corpus omogeneo di opere: il genere letterario. In linea di massima le opere sono state analizzate in base ad oggetti, mezzi e modi, come da codice aristotelico, o in base a questioni metriche, o ancora per il contesto storico, quello sociale, passando perché no, anche dal gusto, per il quale l’unico giudice, diventa il pubblico. Va tutto bene, ma gli studiosi, questa è la nostra sensazione, hanno perso il contatto con la realtà, tentando e perpetrando metodi di categorizzazione estremamente rigidi per analizzare una materia, quella letteraria, troppo soggetta al libero arbitrio, risultando addirittura e per molti versi coercitivi. Questo si deduce dal percorso che ha seguito il classicismo dei generi, che proprio a causa della sua cavillosità è caduto in disuso, nel momento in cui le avanguardie hanno iniziato a prendere piede, nel loro spasmodico bisogno di eliminare il passato, fattore che in qualsiasi caso hanno dovuto lo stesso prendere in considerazione.

Benedetto Croce, per esempio, riduce tutto il mondo dei generi letterari ad una maniera utile per “etichettare”, niente più, distinguendo poi fra poesia e non poesia, in base all’intento dell’artista e del messaggio che l’opera trasmette in quanto conseguenza della coscienza che si immedesima nella natura. Croce però, non si capisce se inconsapevolmente o meno, dividendo la letteratura fra poesia e non poesia, non fa altro che attivare una categorizzazione letteraria, striminzita, poiché composta di due soli generi, ma pur sempre di categorizzazione di genere si tratta; questa è una svista che non sfuggì a Giovanni Gentile, che glielo fece subito presente. In realtà è solo una delle tante pecche in cui Croce incorre. Tuttavia l’egemonia crociana vivrà sino quasi alla sua morte, comportando un appiattimento del dibattito sui generi in Italia, mentre in altre nazioni avremo idealismo (Germania) e formalismo (Russia)

C’è da dire che Croce rimase sin troppo ancorato alle sue idee, al punto da difenderle anche quando fu smentito per esempio dai formalisti russi. Insomma l’opera d’arte non può sottostare a ferree regole di oggettività, ma allo stesso tempo quell’oggettività serve all’opera d’arte così soggettiva ed onirica, a diventare più umana ed a misura d’uomo, altrimenti nessuno la capirebbe, vanificando così tutti gli sforzi che l’artista fa per renderla pubblica e portatrice di un messaggio, personale o universale che sia.

Con questo si vuole dire dire che non può essere solo il poeta ad uscire dalla caverna delle idee platoniche, al contrario egli deve farsi promotore della spinta conoscitiva, la quale deve dare a tutti la possibilità di seguire il poeta nel momento in cui egli esce dalla caverna e vede un mondo nuovo che nessuno conosce, nemmeno lui; a patto però che l’umanità sia pronta al cambiamento.

Croce non aveva il computer.

Poniamo il caso che si fosse andati così in avanti nel tempo, da poter fare con il computer quello che i critici letterari e gli studiosi dei generi facevano in ore ed ore di studio, aprendo, chiudendo e sfogliando libri.

Ebbene, questa disciplina esiste già da qualche anno – in una forma embrionale – e si occupa, appunto, di applicare allo studio letterario della critica e dei generi l’informatica e viceversa. La disciplina in questione è quella delle cosiddette digital humanities.

Liberando la mente da tutti i pregiudizi riguardanti la possibilità di affiancare la letteratura alla tecnologia, c’è da dire che al contrario di quello che può sembrare a primo impatto, si tratta solo di un altro modo di vedere la letteratura: se con la normale attività di studio noi siamo in grado di individuare caratteristiche intrinseche e psicologiche del testo, con questi studi informatici possiamo avere una visione d’insieme e magari individuare quali caratteristiche ha acquisito un testo narrativo, o perché no, una serie di testi narrativi nelle storia letteraria.

Per esempio un metodo utilizzato è quello delle most frequent words che consiste nell’individuazione delle parole più frequenti in un insieme di testi considerati dello stesso genere – un corpus, attraverso il quale sarà possibile risalire ad un canone che definisce un determinato genere; per esempio un romanzo gotico potrà avere come parole più frequenti sangue, oscurità, tempesta, insomma tutte parole che rendono un luogo macabro, quindi gotico. A loro volta, però, queste parole possono formare un campo linguistico di riferimento, quindi non saranno solo frequenti le parole come sangue, oscurità e tempesta, ma anche parole con la stessa radice, o sinonimi e quant’altro. Oppure ancora si analizza tutto dal punto di vista sintattico cercando di individuare nel testo l’utilizzo di un modo verbale piuttosto che un altro.

In definitiva, si tratta di una materia completamente nuova e innovativa che sicuramente ci aiuta a fare quello che per esempio critici classici non avrebbero potuto fare e che sicuramente nemmeno oggi riterrebbero opportuno di dover fare.

Tuttavia, la storia non è altro che un’anaciclosi, dove tutto è destinato a ripetersi, e se anche questi nuovi metodi possono aiutare ad identificare un particolare genere che ben venga, tutto sta a fermarsi laddove una ricerca troppo minuziosa risulti vana, snaturando così il principio stesso della letteratura (imbevuta di storia fino ad ubriacarsi) per sua natura lo spazio più onirico che gli umani possiedono e all’interno del quale racchiudono le loro gioie, le loro paure, i loro sogni, i loro incubi, i loro amori e chi più ne ha più ne metta, con il solo ed unico – ma vitale – vantaggio, che quello spazio, di ieri come di oggi, non potrà mai essere svelato del tutto.

Ecco come si “fregano” i critici.

Una luce “amarantola” illuminava la strada dissestata, una lieve pioggia mattutina aveva creato piccole pozzangare sparse qua e là per il deserto quartiere rurale, poche case a far da guardia ai campi di ciliegi ormai fecondati, l’umidità proteggeva come una trapunta quel creato. Se non avessi avuto null’altro da fare mi sarei goduto in silenzio quel meraviglioso panorama, ma – purtroppo per me – ero incorso in un piccolo incidente automobilistico. Uscito dall’auto indenne iniziai subito a cercare aiuto. Vagavo per le campagne di quella cittadina a sud dell’Italia, scorsi una lucina accesa in lontananza: proveniva da un casolare col comignolo fumante. ‹‹Bon segno, qualcuno ci vive in questo loàme dimenticato da Dio››.

Passo passo mi avvicinai a quell’ammasso di vecchi mattoni e non appena fui vicino alla porta, prima di bussare, fui attratto da un grande trambusto che veniva dall’interno. Decisi di affacciarmi alla finestra.

L’interno era in subbuglio, solo un tavolìn di legno al centro della stanza, due sedie intorno. Sul divano all’angolo della càmara erano sedute comodamente due persone. Dei due l’uno aveva capelli brizzolati, ben rasato, con un anellino alla récia e parlava da filosofo, complicato, da culatone, ma nonostante il modo di parlare sembrava terrone: veneggiava sul fatto che sud e nord fossero uguali e che al sud si lavora. L’altra era bionda, con la capigliatura ondulata, gli occhi chiari e la voce soave da convinta padana.

‹‹Sei un terun!››. Dopo questa frase il vorace padano si abbassò i pantaloni e disse al povero sudista indifeso: ‹‹Bìssa, voltati!››. L’altra opponendo una timida resistenza obbedì ed in quattro e quattro otto si trovò violata da quel silos di carne del sud, così spogliata dei panni di padana, prese a urlare in preda ad un piacere insormontabile: ‹‹angòra, sìììì, angòra…››

Non credevo ai miei occhi. Tornai subito alla mia auto e attesi l’arrivo della mattina. La mattina arrivo in fretta. Vedere con i propri occhi una scena di sesso anale fra un terun ed un pertugio padano, è raccapricciante, ma a tratti estremamente comico. Mentre arrivavo alla mia Seat incidentata, si accostò un’auto al ciglio della strada, mi avvicinai per spiegare cosa fosse accaduto. Mi accorsi che in quell’auto c’erano quei due.

All’improvviso la mia sveglia – Keith Richards al ritmo di “Cocaine blues” – mi ricordò che era tempo di tirarsi fuori dalle lenzuola, allora mi voltai, la baciai, l’ammirai ancora un po’ mentre dormiva, e abbandonai quella camera per non farci più ritorno.

Vi chiederete adesso cosa c’entri questa storiella con la teoria dei generi letterari. È presto detto. Sapete perché non si può etichettare questo breve racconto? È stato solo un sogno.

Adesso chiedo ai critici: ‹‹I sogni dove li mettete?››.


NOTE

1 Inserire rif. Biblio.

2 Cioffi Luppi O’Brien Vigorelli Zanette, Dialogos, vol. I, Ed. scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 2002.

3 Inserire rif. biblio.

4 Città della Calcide, attuale Macedonia, dove nacque nel 384 a.C. Aristotele.

5 Gottfried Willems.

6 Gothold Ephraïm Lessing, Laokoon, 1766

7 Aristotele.

8 Per Aristotele la tragedia è superiore all’epica per la presenza delle stesse qualità dell’epica, più altri caratteri distintivi, come per esempio la musica e la scena teatrale unite in un solo momento.

9 N.B. Anche questa è una distinzione di genere.

10 Ferdinando Pappalardo, Genericità. Il discorso sui generi letterari nella cultura europea, Progedit, Bari, 2013.

11 G.B. Pigna, I romanzi, 1554.

12 N.B. Non confondere il ‹‹romanzo›› in senso stretto con i ‹‹romance›› spagnolo: poesia (non romanzo) assonanzata, che fu riportata in auge dal poeta Federico Garcia Lorca con la raccolta El romancero gitano. Si tratta di poesie molto oniriche, a metà fra mito storia e fantasia.

13 Ibid. p. 71

14 Paltone, De republica, libro VII.

15 Ricordiamo che per Nietzsche la lirica è una forma poetica dionisiaca, temperata dall’apollineo, mentre l’epica appartiene completamente ad Apollo.

16 Ferdinando Pappalardo, Genericità. Il discorso sui generi letterari nella cultura europea, Progedit, Bari, 2013.

17 Id.

18 Poesia: s. f. dal lat. pŏēsis, che è dal gr. ποίησις, der. di ποιέω «fare, produrre».

19 Luigi Pirandello, Enrico IV, Bur, Milano, 2007.

20 Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, Torino, 2014.

21 Umberto Eco, il nome della rosa, Bompiani, Milano, 2012.

22 Maxence Fermine, Il violino nero, Bompiani, Milano, 2006.

23 Stefano Benni, Pantera, Ferltrinelli, Milano, 2014.

24 Ibid. pag. 126.

25 F. Shiller, epoche della poesia in dialogo sulla poesia, 1800

26 N.B Gli idealisti guardano l’opera nella storia, mentre i formalisti guardano la parole e gli atti linguistici nella storia.

27 Ferdinando Pappalardo, Genericità. Il discorso sui generi letterari nella cultura europea, Progedit, Bari, 2013

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.