QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.41: Buon giorno si spera. Giuseppe Iuliano, “Rosso a sera (versi contro-versi)”

Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)

_____________________________ 

di Giuseppe Panella

 

… Buon giorno si spera. Giuseppe Iuliano, Rosso a sera (versi contro-versi), Grottaminarda (AV), Delta 3 Edizioni, 2010

 Giuseppe Iuliano è un poeta meridiano. Così lo qualifica Paolo Saggese nella seconda di copertina del suo ultimo libro (il quindicesimo della serie). Il critico irpino così continua:

«Iuliano è un poeta meridiano che, attraverso la scrittura, traccia un percorso di idee, immagini, riflessioni: un mosaico di testimonianze che leggono, travestono ed interpretano in modo attento, critico, antagonista, appunto meridiano, i tempi moderni. Ed è proprio questa la linea di confine, questo lo spartiacque che fa di Giuseppe Iuliano un poeta vero, una voce fuori da taluni cori, sicuramente fuori dai cori della cultura salottiera contemporanea».

 

Ma perché Iuliano può essere considerato un poeta “meridiano”? Certamente per la sua appartenenza territoriale (egli stesso sovente non ha esitato a definirsi “poeta nuscano” marcando con nettezza e precisione la propria provenienza da una determinata cultura e da un luogo ben denotato in senso antropologico e storico) ma non solo. Se si va a leggere l’archetipo sociologico-letterario a cui attinge questa definizione, il libro ormai celebre di Franco Cassano che a questo termine si appiglia in chiave descrittiva e analitica, Il pensiero meridiano, troviamo scritto con nettezza e con piglio di secca rivendicazione teorica:

«Ecco perché è difficile intendere il Pensiero meridiano senza scorgere che in esso s’incrociano due dimensioni, quella della scissione e quella della mediazione. Da un lato il bisogno di un gesto di rottura e di rivendicazione dell’autonomia del sud, la lacerazione della falsa neutralità e universalità della rappresentazione dominante, dall’altro la difesa della molteplicità e della varietà culturale, la convinzione che la ragione del futuro o sarà plurale o non sarà. Ognuno di questi gesti ha da imparare qualcosa dall’altro: la rivendicazione di autonomia deve evitare la trappola del fondamentalismo identitario, la mediazione deve evitare di confondersi con la passiva registrazione dei rapporti di forza esistenti» (F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 20104, p. VII).

Se si vanno a verificare questi due nodi del pensiero meridiano secondo le intuizioni del sociologo barese, non sarà difficile ritrovarli nella poesia ultima di Iuliano. Una poesia contenuta nella parte finale del libro affronta in maniera ironica, svelta, giocosa (ma non certo leggera) il tema dell’”autenticità” del vivere a Sud e dell’abitarci con la necessaria responsabilità:

«Versi semiseri. Siamo sempre in fila. / Siamo quelli / dell’ultima fila, / quelli che la rispettano. / Ecco perché filiamo. / Ci sfiliamo e infiliamo. / Figliamo. E la storia vive» (G. IULIANO, Rosso a sera (versi contro-versi, Grottaminarda (AV), Delta 3 Edizioni, 2010, p. 74).

Si tratta di versi semiseri solo in apparenza. Danno l’idea della non-appartenenza, della rottura con il sentire dominante che vedono nel trionfo di chi sgomita e calpesta la strada obliqua da seguire, leggono nell’autonomia del sentire e nel trionfo della continuità quell’elemento di scissione che era stato evocato dalle parole di Cassano. Essere “in fila” significa fare da sé, non aspettarsi niente da nessuno e non volerlo neppure, non dipendere dall’assistenza altrui (lo Stato, la Politica, le forme più o meno legali di protezione e subordinazione imposta in cambio di qualcosa cui magari si ha perfettamente diritto). Essere in ultima fila e non in prima non implica inferiorità o emarginazione ma capacità di attesa, di mediazione, di pausa. E inoltre c’è quell’orgogliosa rivendicazione del continuare, riproducendosi e proliferando il corso della vita che è poi il flusso compatto e apparentemente inestinguibile della dinamica della Storia.

Essere in fila non significa sfilare. Tutt’altro – significa saper trovare il giusto momento, il kairós del Tempo che si concede soltanto a chi gli è fedele e lo accetta come il proprio contraltare.

In questo rifiuto dello spirito malsano (e malvagio) dei tempi è però presente una fedeltà e un amore per il Tempo continuo, per la prosecuzione dei riti (e dei miti) che consustanziano la struttura tissologica del presente, il tessuto cioè della vita così come si tramanda e si è tramandata.

Scrive allora Iuliano ispirato e commosso da una vicenda immediata del “suo” presente:

«Acqua di conversione (a Giuseppe Paolo Saggese). La nostra vita è una corsa a tratti / e tu che cominci quarto / l’ultimo nato / ricevi il testimone del nome avito / nel giugno dei ricordi. / Atteso come frutto dell’anima / giungi dono del cielo. Riprendi / riannodi un giorno d’eclissi e lo segni / con l’ultima luna di primavera / tenero fresco seme nel mese del grano. / Luce agli occhi sgranati: i tuoi alla scoperta del mondo / i nostri alla tua meraviglia. // Sgambetti con lena / e sorrisi d’innocenza / concedi alle nostre premure / che già ti vedono / inventore filosofo / signore di tesori nascosti / felicitare principesse. / Padrino assisto alla conferma / – unzione e segno di croce – / nel rito dei Padri che si rinnova. / Festa d’acqua a gocce a fili / smacchia d’origine la colpa / e a litania di santi ci consola. // A soffi di fede a lampi di sorriso / ti nominiamo Giuseppe Paolo / così vero così presente» (G. IULIANO, Rosso a sera (versi contro-versi) cit., p. 39).

C’è un’obbedienza in questi versi, una volontà di tracciare un segno che non si perda o disperda, una sorta di passaggio di testimone verso un oltre, un futuro di cui non si sa (e neppure si dice) ma che c’è. La meraviglia che sorge negli occhi del bambino di pochi mesi che viene salvato alla vita eterna dall’acqua lustrale del battesimo e dell’accoglienza nella comunità degli altri come lui nati in una fede antica come i luoghi in cui è nato è pari alla “maraviglia” del poeta che si lustra gli occhi alla vista del mondo e sorride e piange per la bellezza che non svanirà.

La poesia di Iuliano è tutta confitta in queste private epifanie di senso che si convertono in un grido pubblico di ripulsa (si leggano, ad esempio, i Versi per il Formicoso alle pp. 20-21) e in un sussurrare privato tra la preghiera e la nostalgia. Il ricordo del passato si congiunge con l’aspirazione a un nuovo Inizio, ad un presente migliore e meno esacerbato dal rimpianto per ciò che non è accaduto, che non è stato e che poteva pur essere diverso.

La meraviglia del tempo che ritorna (la primavera e l’estate che sanciscono il loro trionfo sul freddo assurdo dell’inverno e sulla naturale mestizia dell’autunno) si aggancia al ricordo di momenti trascorsi ma non per questo passati. La vita si scopre, così, quasi all’improvviso, innescata e resa necessaria non tanto dallo scarno fluire dei giorni quanto da momenti improvvisi, sognati, ricordati, messi a frutto perché a loro volta ritornino scarlatti come luci meravigliose sottratte all’oblio.

«Alla luce del vespro. Stanco di strade e di fretta / aspetto ansimante il tramonto / con piedi gonfi e suole sfondate. / Le palpebre / schiudono malinconie / alla fugacità delle ore / sospese in penombra / per procurarmi riposo. / Cupo il suo rosso / inietta silenzi, allerta pensieri / e scalda le ossa dolenti all’attesa. / Mi accaloro. // Semino il giorno che viene / di chimere e sudore. / Nella veglia stendo radici / e affido progetti / – alberi nani o svettanti / nervi di rami –. / le mie difese al vento e al sole / ombrello di foglie / a ogni grandine di cielo» (G. IULIANO, Rosso a sera (versi contro-versi) cit., p. 18).

Nell’attesa del nuovo giorno, anche il tramonto può essere appagante. Nel ritorno si stende la stessa malinconia dell’andata ma con la certezza riflessa della sua dolcezza, del suo ripiegarsi in momenti di riflessione che alludono ad altre possibilità a venire, a sogni forse impossibili ma egualmente dolci rispetto all’inedia e all’inanità della mancanza di scelta e di progetto.

La scissione con l’universo circostante fatto di rinunce e di ripieghi, di compromessi e di accettazioni forzate si nutre di una volontà di radicamento e di ri-progettazione del presente storico e umano. La poesia si riannoda così al destino e lo stringe con un nodo forte, fatto di utopia e di ricerca, di fatica e di vagheggiamento della bellezza.

Per il Iuliano di quest’ultima fatica poetica, il tramonto non è il tempo dell’attesa ma della meditazione e del ripensamento. Il sole del mattino sarà più caldo dopo che il tramonto avrà riscaldato il cuore e le ossa di chi lo ha accettato come momento non eludibile del futuro che non tarderà ad arrivare. Se il sole vespertino è rosso e stinge nell’oblio, quello dell’aurora sarà rilucente del fuoco della speranza.

___________________________

[Quel che resta del verso n.40] [Quel che resta del verso n.42]

[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0] 

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.