QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.1: Il dono del “logos”. Poesia e pensiero in “Profondo λογός” di Donatella De Vincentiis Fazzino

profondo logos1Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)…(G.P.)

 

 

di Giuseppe Panella

 

Il dono del logos. Poesia e pensiero in Profondo λογός di Donatella De Vincentiis Fazzino, Firenze, Polistampa, 2009

 

«Il samsara è in nulla differente dal nirvāna. Il nirvāna è in nulla differente dal samsara. I confini del nirvāna sono i confini del samsara»

(Nāgārjuna)

 

 0. Breve prologo

 

Profondo logos non è il primo libro di poesie di Donatella De Vincentiis Fazzino. Nel 2003, infatti, per i tipi dell’Editrice Ibiskos di Empoli (FI) viene pubblicata Vita umbratilis, la sua prima silloge poetica. Di essa il simpatetico prefatore Juri Camisasca, singolare figura di musicista e saggio religioso laico, nella sua breve ma pregnante Prefazione al volumetto) scriverà:

 

Vita umbratilis«Vita Umbratilis è una raccolta di canti dell’anima per l’anima che, oltre ad appagare le esigenze estetiche dell’intelletto, infondono quiete nei campi della percezione: “Niente da aggiungere a ciò che è già da sempre”, tutto è sotto i nostri occhi, tutto è dentro di noi, basta solo accorgersi, basta ricordare, basta entrare nel silenzio. Ci accorgeremo allora che “le nostre presenze sono un semplice trascorrere di foglia sullo specchio lucente del fiume”» (p. 8).

 

E così è, infatti, nelle scarne musicali note che scandiscono i diversi passaggi lirici della raccolta. Basti leggere Parole e silenzio, una delle prime prospezioni poetiche del libro dove la poetessa enuncia le sue sintomatiche preferenze esistenziali e, insieme, la sua prospettiva di poetica:

 

«Amo la parola / che evoca il silenzio. / Vivo come in trasparenza, / contemplando, / da vetrate immaginarie, / il profilarsi / di evanescenti immagini, / consuete movenze, / che come vento leggero / passano e scompaiono. // Entrerò nel silenzio che tu abiti, / parole ti darò / come cristalli / permeasti di luce pura» (p. 14).

 

falena e fiammaIl silenzio come forma espositiva della parola rovescia i canoni tradizionali dell’espressione lirica e permette alla poetessa di radicare il suo desiderio di parola in quel nulla fatto del sogno di immagini bellissime ma “evanescenti” e di momenti di ammirazione del mondo che costituisce la sua aspirazione alla purezza verbale. Gli stessi temi, sviluppati in maniera però più musicalmente atteggiati e compiuti, compaiono nel libro successivo della De Vincentiis (Falena e fiamma, con una Prefazione di Stefano Mecenate, Empoli (FI), Editrice Ibiskos, 2006). Coerente con il suo approccio mistico e propensa alla costruzione di un’atmosfera liricamente rarefatta, l’autrice dichiara fin dalle prime righe del suo nuovo testo di preferire la dimensione notturna della vita:

 

«Notte. Sono giunta al limitare della notte, / notte dolce e quieta, / fremito di grilli e di foglie. // Nelle profondità del buio mi inoltro, / dove la luna smarrisce la mia sagoma / e l’ombra sfuma nell’indistinto nulla. // Cerco, nello svanire della lucciola, / il segreto dell’immortalità, / la fine del desiderio e della paura. // E sono notte, sono la culla, / sono anch’io quell’abbraccio / che non sa smettere di amare» (p. 17).

 

La linea del giorno è stata oltrepassata perché solo nella notte è possibile protendersi verso l’immortalità. Da essa, dalla sua in-distinzione quasi perfetta, sarà possibile far emergere quella quiete dello spirito che con impegno totale viene ricercata e ambita come pure la capacità di eliminare quelle passioni negative e fredde che impediscono il suo adempimento effettivo.

In una poesia che si può trovare e leggere qualche pagina più avanti, la poetessa confida nella propria capacità di costruire la dimensione più autentica della propria lirica per raggiungere il proprio obiettivo esistenziale che consiste ancora nello spingersi oltre i possibili confini del senso e della materialità della vita

 

«Arte. C’è un’arte / di trasformare un vuoto / in poesia, // di scendere / nel profondo insondabile / dell’anima, // alla ricerca / del senso di un legame / indecifrabile, // alla deriva, / in un intimo Infinito / evanescente. // E nelle sere silenziose / essere carezza di pioggia / sulla tua soglia» (p. 31).

 

L’attraversamento del tempo si fa ricerca del senso forte della vita e consapevolezza della sua verità di momento insondabile e aperto di Qualcosa di più vasto.

 

 

 

 

1. Poesia filosofica o sentimento del mondo?

 

Fin dall’inizio, dunque, come si è potuto vedere sia pur brevemente prima, la poesia di Donatella De Vincentiis Fazzino è posta sotto il segno del verbo filosofico per eccellenza, il logos, il cui nume tutelare, Eraclito di Efeso, è citato in epigrafe con una delle sue dichiarazioni più oscure e più dense (precedentemente, soprattutto nel suo libro di inizio, era stato, invece, evocato il maestro orientale per eccellenza, Sri Aurobindo):

 

«Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos»

 

Ma il pensiero occidentale delle origini della cultura filosofica non è privilegiato affatto come il portatore assoluto (e unico) della Parola e della Sapienza del mondo. Insieme ad Eraclito, Donatella De Vincentiis cita Eihei Dōgen, il famoso maestro Zen giapponese del tredicesimo secolo, l’autore dello Shobogenzo (il Tesoro dell’occhio della vera Legge) e teorico del satori come forma di conoscenza assoluta e improvvisa. Di Dōgen viene citato un aforisma bellissimo:

 

«L’intera luna e l’intero cielo stanno nella rugiada sull’erba. Su una sola goccia d’acqua».

 

Se si insiste su queste filiazioni e parentele spirituali è perché costituiscono la premessa assolutamente necessaria alla lettura del testo.

Il libro della De Vincentiis non è, infatti, una raccolta di liriche d’occasione come se ne pubblicano in gran quantità oggi in Italia ma richiedono una solida capacità di lettura e un cospicuo bagaglio culturale per poterne attingere il senso profondo.

Non solo la qualità della sua scrittura è densa e compatta in maniera tale che di essa bisogna rompere la crosta di superficie per poterla penetrare nei precordi, ma il suo senso è stratificato in modo tale da rendere la sua ermeneutica tutt’affatto banale. Si prenda, ad esempio, un testo come L’Illimite di cui fin dal titolo si denuncia largamente la volontà di approdo tra cielo e terra e tra mente e corpo:

 

«Oltre l’opacità / ridisegni per me / orizzonti di luce, avamposti dell’Illimite, / scogliere sull’Inesplorato. // Corri le distese dell’anima, / leggero, veloce mi percorri.  / Sei vento dei crinali esposti / sul limite del nulla. / E su di me petali… // Oro fiamma solare, / quiete di notti / affondate in silenzi, / visioni di rotte cosmiche. // E distillare tutto / in essenza purissima, / da erbe rare, / introvabili. / Ascesa / nella percezione».

 

Il Tu cui si rivolge la richiesta poetica di illuminazione è indefinito ma saldamente radicato nell’animo e nella prospettiva di chi si interroga sui limiti e le possibilità del suo essere.

La richiesta di luce cancella il buio della materia in una fuga verso l’oltre dove i confini di ciò che è noto e giù conosciuto debbono essere scavalcati per procedere nella ricerca di infinito. Ciò che cancella le limitazioni dell’Io e della sua mancanza di verità assoluta in quanto affidata soltanto alle possibilità dei sensi e della mente è il segno che la capacità di andare oltre di esse è ancora possibile e praticabile nel momento dell’illuminazione (l’”oro rosso fiamma” del Sole che profila e candisce nella notte oscura del pensiero in attesa di esplodere come possesso pieno del proprio destino).

La conoscenza si spinge ai confini del Nulla per prodursi in esercizio di verità che sia in grado di andare oltre i sensi, oltre il dolore, oltre il piacere, oltre la percezione del mondo materiale basata sulla sua imperfetta accettazione di questa consapevolezza.

Le “rotte cosmiche”, l’”essenza purissima” del distillato di “erbe rare” non sono altro che metafore corporee di questa aspirazione dello spirito che non cessa di spingere verso un’”ascesa” e una purificazione nell’ambito della conoscenza della realtà delle cose.

Nel confronto con l’Infinito e con la sua im-possibilità descrittiva (forse configurato nell’ottica della De Vincentiis  come una sorta di apeiron anassimandreo), il rapporto tra la sinestesia corporea (gli odori e le sensazioni che caratterizzano il contatto con le ”essenze purissime”, appunto) e lo scatto lirico che ne deriva permette di raggiungere una dimensione di extra-territoralietà (come avveniva a una lunga schiera di mistici da Maria Maddalena de’ Pazzi a San Giovanni della Croce – anche se qui è l’effetto prodotto dalla poesia).

Lo stesso progetto filosofico-esistenziale (e la stessa prospettiva poetica) è esposto in Iniziazione, la poesia che apre la raccolta:

 

«Sospeso il tempo, / nella notte madre di ogni forma, / senza confini, / ho respirato in te / l’evanescente schiudersi di maree / in vertigine infinita. // Ho udito il canto d’angelo / da un Eden perduto, / suono primo di mondi alla deriva, / ma dietro il cuore / la comunione estatica dei silenzi. // E so i profumi delle notti di luna; e ho conosciuto per te / le bianche vie dell’impossibile / camminando la sera / nell’attimo che dilaga eterno. // Sulla porta di un sogno / che apre varchi indicibili / mi sono seduta immobile ai tuoi piedi. / E resterei per sempre / nel soffio di istanti, // scivolando in millenari oblii, / fantasmi di quarzo, / fino al Segreto Inaccessibile, / “cuore ghiacciato dell’acqua / che il sole non sa sciogliere” (Ildegarde von Bingen)».

 

Con la citazione finale dalla grande mistica tedesca del dodicesimo secolo, il discorso si chiarisce in parte. Il segreto della vita si conosce sciogliendo in esso la viriditas, quel rapporto tra uomo e natura tra mente e corpo, tra capacità razionale e slancio mistico che costituisce la sostanza dell’insegnamento filosofico (e morale) della grande pensatrice tedesca. Ma anche se esso, nonostante tutto, resta inaccessibile e lontano, non per questo, esso resta inconoscibile alle profondità insondate del cuore. L’iniziazione all’anima e al suo mistero si gioca nella notte oscura del destino di ognuno quando la capacità di capire si rovescia e si trasforma in capacità di sentire.

Il tempo (storico e individuale) è allora come sospeso e privo di continuità temporale e lo spazio si prospetta illimitato e libero dai confini del senso che lo stringono nella camicia di Nesso della materialità. La parola della poesia si rinnova nel tentativo di ritrovarsi in una sorta di Eden primigenio ormai perduto alla ragione ma capace di far sentire la propria verità nei cuori che tacciono assorti nella dimensione estatica che contraddistingue il silenzio assoluto.

Ancora qui il segno dell’estasi mistica è confermata dalla fragranza delle sensazioni provate – momenti che durano pochissimo dal punto di vista della temporalità ma che si susseguono eterni nel corso della storia naturale dell’anima. Il viaggio verso ciò che è inaccessibile dura quanto una vita e, come tutta una vita, basta soltanto per un attimo a cogliere la sua verità inesprimibile.

Il processo di iniziazione al sapere autentico dell’anima inizia nel sogno e prosegue con l’estasi raggiunta attraverso la sospensione del tempo umano. L’interlocutore con il quale confrontarsi è però tutto dall’altra parte dello specchio – oltre che nel sogno e dell’oblio del tempo, esso riposa nei limbi translucidi di una coscienza la cui sostanza è fatta di eterno e di vertigine, di trasalimenti improvvisi e di sussulti di accettazione del proprio finito (in relazione all’infinito che si cerca e che continuamente sfugge nel presente che si vive). Essere iniziati, dunque, nell’ottica della De Vincentiis, significa comprendere questa necessità e farne tesoro: accettare in sé l’impossibilità dell’Assoluto e costruirsene uno personale.

La poesia che scaturisce da questo bisogno di conoscenza (e dal limite di finitezza che lo circonda e lo perimetra nel suo sforzo di consapevolezza) è, quindi, per sua stessa ragion d’essere, pratica filosofica; eppure i suoi accenti più maturi e più sicuri sono quelli della lirica d’amore e del sogno che la attraversa di fusione (profonda e definitiva) con l’Altro. E’, infatti, questo – da sempre – il sogno e il tentativo ininterrotto della mistica nel momento in cui essa si pone il compito di divenire Logos, parola, manifestazione verbale della propria aspirazione vitale.

 

2. Gelassenheit

 

La poesia di Donatella De Vincentiis, dunque, sentimento del mondo. Nella sua poesia vive quella capacità di sentire in concreto l’evidenza della realtà pur non volendo lasciarsi catturare da essa.

Nella sua prospettiva bisogna aderire al mondo, infatti, senza che il mondo ci catturi e ci inchiodi alla sua ineluttabile necessarietà. Eppure, nonostante questo, da esso non ci si può separare né lo si può rifiutare in nome di un’idealità astratta non compatibile con esso.

La sua scrittura vuole rispondere a quella domanda che assedia la mente dello Heidegger maturo (e ossessionato dal pensiero della Tecnica) e a cui più volte egli cerca di rispondere filosoficamente:

 

«Perciò ora ci domandiamo: se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno, radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in modo nuovo, persino all’interno dell’era atomica? Quale potrebbe essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie radici? Forse ciò che cerchiamo con questa domanda si trova già vicino a noi, tanto vicino che neppure ce ne accorgiamo. Per noi uomini infatti la via che conduce a ciò che è vicino risulta sempre la più lunga e quindi la più difficile da percorrere. Questa via è una via del pensiero. Il pensiero meditante richiede da noi che non restiamo attaccati in maniera unilaterale ad un’unica rappresentazione, che non corriamo sempre più oltre su un unico binario, nell’unica direzione in cui ci costringe una rappresentazione. Il pensiero meditante richiede da noi che ci lasciamo ricondurre (sich einlassen) a ciò che in sé, a prima vista, appare inconciliabile»

(Martin Heidegger, L’abbandono, trad. it. di Adriano Fabris, Genova, Il Melangolo, 1983, p. 37).

 

Dunque, il sentimento del mondo appartiene all’esperienza dell’”abbandono”. Il che non vuole affatto dire passività o negazione o rifiuto della vita del mondo, tutt’altro. Significa, invece, la capacità di attraversarne in profondità la logica e di sostituire a quella materiale una dimensione di consapevolezza che vada più avanti di essa e che si collochi su un crinale più avanzato di conoscenza. Nella poesia di Donatella De Vincentiis, di conseguenza, il Logos si sposa al pensiero in un’ottica di assorbimento all’interno di una totalità che tiene conto di entrambi (l’esperienza mistica e l’esperienza di pensiero) pur ponendosi sempre al confine di essa in un’ottica di in-finitudine che trasforma la riflessione in aspirazione e in rappresentazione.

Questa sua aspirazione evidente è presente in gran parte delle liriche che compongono Profondo Logos ed è espressa in maniera molto chiara attraverso le metafore che sostengono e indirizzano il libro. Basterà leggere, ad esempio, una lirica come Da millenni per accorgersene:

 

«Esistiamo da millenni, / cercatori nel tempo / di tracce luminose di ricordi, / di sassi e conchiglie / sotto la risacca. // Come non trasalire / al passaggio del viandante / sconosciuto e noto, / all’ombra degli alberi / del tuo giardino? // E riconoscerlo, / ritrovato, mai dimenticato, / da un Eden che ci dava / parole leggere nelle sere / e crepuscoli dorati. // Ombra mobile, / gentile di salice, / fluire di versi / in lento divenire… // E avevamo sguardi / senza fondo e mani lievi, / dai cuori effervescenza / arcana, inesauribile / in silenziosi abbracci».

dove la chiave di volta della lirica riportata sopra è tutta in quel mai dimenticato che trasporta ogni passaggio e ogni luce in un viaggio verso un mondo immemoriale e pur tuttavia pulsante di umanità.

I “sassi” e le “conchiglie” dei nostri ricordi trapassati non sono forse quel che resta della nostra storia primeva (e, quindi, della nostra presenza al principio del mondo)?

E il Viandante (come pure la sua ombra necessaria – qui riportata al suo ricordo e alla sua forma profetica presente nell’Umano, troppo umano di Nietzsche dove fa per la prima volta la sua comparsa) non è forse un ospite della cui venuta continuamente ci rallegriamo anche se non ne comprendiamo sempre la necessità? Egli è “sconosciuto e noto”, personaggio appagante ed eccezionale, che arriva improvvisamente e altrettanto improvvisamente se ne va. Il suo ruolo è quello di ricordare che l’Eden è passato e che bisogna accettarne il decreto di estinzione senza rinunciare alla possibilità di evocarlo ancora e ancora, in modo definitivo e labile insieme.

Da sempre gli uomini raccolgono le conchiglie del ricordo e attendono il ritorno dell’Eden dei loro sogni passati (e giovanili) quando tutto sembrava gentile e amoroso come uno sguardo o un sospiro vitale. Da millenni (forse da sempre, da quando il Mondo diventa mondo – per dirla ancora con lo Heidegger dei Sentieri interrotti) questo compito di raccolta delle immagini del passato e delle anticipazioni del futuro spetta inevitabilmente alla poesia e alla sua scrittura.

Nell’evocare “sguardi senza fondo e mani lievi”, la poetessa si concede un breve indugio di tenerezza di fronte alle necessità del viaggio di ritorno verso Eden il cui arrivo è designato dalle capacità evocative della sua poesia. Quegli sguardi e quelle mani non possono che essere metafore della sua poesia così come lo erano state le “parole leggere” e i “crepuscoli dorati” di poco prima.

Infine (e non è certo il pregio minore dell’impresa di scrittura della De Vincentiis) il suo recupero della Lingua degli angeli di ascendenza rilkiana la porta a definire quei momenti inconsueti e decisi di liricità trascesa in evocazione onirica di altri luoghi, altri sogni, altri momenti che solo la parola poetica può riscattare e proporre:

 

«Tu sai come… / E nessun canto / dei poeti del mondo / lo sa dire. // Solo il vento / che batte gli oceani / rubando salsedine / agli scogli. // che sa tenui colori / di fiori nascosti / nell’erba alta / dei campi, // vento aspro / delle vie delle vertigini, / scia di cometa / da lontananze buio notte, // il vento del ricordo, / di quando, né qui né ora, / ma altrove e oltre il tempo, / parlavamo la lingua degli angeli. // Sei dolce presenza / nel cuore scolpita. / E tu sai».

 

Dovrebbero essere i poeti a parlare la “lingua degli angeli”, a scandirne il dettato, a definirne il passo e le vertigini, ad assaporarne il vento aspro e a osservare le comete che passano, fulminee e transeunti, nel cielo stellato della pace. Dovrebbero essere i poeti a comprenderne il significato e a trasformarle in parole. Dovrebbero essere i poeti a capirne il valore e a conservarne il destino e la passione per coloro che verranno. Eppure la poesia ha soltanto la funzione di tessere labirinti di espressioni verbali e di assonanze di ricordi e non ne rende il senso profondo come riesce a fare, invece, la ricerca dell’assoluta volontà di sperare in ciò che va “oltre il tempo”.

Parlare la lingua degli angeli, allora, significa porsi nell’orizzonte edenico della verità e cercare di sondarne i profili impossibili e autentici, sognanti e obnubilati dal destino.

“Non chiedo spazio, / né un tempo, / a chi mi schiude l’Immenso” – scrive Donatella De Vincentiis in un’altra breve lirica (Notte di marzo).

L’Immenso è ciò che nasce dalla consapevolezza dell’esistenza dei limiti e i limiti sono il risultato della presenza dell’Immenso – al di fuori del loro gioco dialettico non si dà alcuna possibilità di conoscenza (e neppure la presenza del tempo come pure la configurazione dello spazio). La sapienza che scaturisce dall’incontro tra il limite (la finitudine) e l’Immenso (l’infinito come dimensione in cui ciò che si intuisce non avere estensione si manifesta come intuizione) è fatta di sensazioni intime e non comunicabili se non per frammenti di intensità e per flash illuminanti e discontinui. Il satori che, in questo modo, la poesia è in grado di produrre accerta la capacità del nirvana di coincidere con il samsara pur rimanendo eguali e distinte come dimensioni dell’Essere (il Vuoto che ne costituisce la sostanza concreta e ineffabile).

Solo attraverso questa possibilità di congiunzione tra l’apparire e lo sprofondare nel naturale destino dell’esistere si dà la capacità di vivere il proprio soggiorno sulla Terra (secondo una significativa prospezione teorica del Buddismo Mayana). Nel congiungere Immenso e imponderabile, Illimite e singolarità linguistica (la “lingua degli angeli” per l’appunto), Donatella De Vincentiis  Fazzino si espone al gioco mistico del Mondo e delle sue permanenze nell’ ambito (transitorio e sempre illusorio) del suo essere realtà non-reale del vivere. In questa sfida alla parola per rendere sensibile e comunicabile ciò che per definizione non potrebbe esserlo, risiede la dimensione della sua liricità assoluta e del suo sogno indomabile.

 ***

[Quel che resta del verso n.2]

[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.