PER UN’ INTERPRETAZIONE LAICA DELL’ULISSE DANTESCO. Saggio di Bernardo Puleio

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di Bernardo Puleio 

 

Presso Malebolge,  nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco, si presenta una fiamma  biforcuta, che racchiude le anime di Ulisse e Diomede. Come spiega Virgilio(1):

[…] Là dentro si martira/ Ulisse e Diomede, e così insieme/ a la vendetta vanno come a l’ira;/ e dentro da la lor fiamma si geme/ l’agguato del caval che fè la porta/ onde uscì de’ Romani il gentil seme./ Piangevisi entro l’arte per che, morta,/ Deidamìa ancor si duol d’Achille,/ e del Palladio pena vi si porta.

L’incontro con Ulisse (2) « lo maggior corno de la fiamma antica » caratterizza, connotandolo di forti, eroiche e trasgressive suggestioni, il canto XXVI dell’Inferno.

L’eroe omerico espia la colpa dell’« agguato » del cavallo di Troia, che pure reca in sé, nell’ideologia dantesca, un elemento di provvidenzialità divina: la distruzione di Troia apre la porta, attraverso le pellegrinazioni di Enea, alla nascita del « gentil seme » dei Romani, il cui impero è voluto e prescelto da Dio (3).

L’arte di Ulisse appare colpa meritevole di dannazione ed emendazione eterna: forzare i segni della realtà (4) è un’opera di grave mistificazione, una specie di audacia sofistica, in grado di confondere ed occultare la ricerca della verità.

      In questo senso, l’eroismo della tradizione omerica viene rovesciato ed assume i contorni di una peccaminosa infamia, espiata col contrappasso della lingua di fuoco (5). Precisato che Dante non conosce i poemi omerici, neanche in traduzione latina (6), né tanto meno la ristrutturazione in senso negativo del personaggio Ulisse, diventato emblema di doppiezza demagogica e sofista, operata dalle tragedie euripidee (7), a partire dal 425 a. C., può essere utile osservare che, cristianamente, il poeta condanna l’uso della mechane, l’artificio, inteso come snaturamento e pericolosa deviazione dell’ uso della ragione.

L’eroe greco, anche in un’ottica pagana, è considerato colpevole: infatti, ad esempio, nel secondo libro dell’Eneide è definito « scelerum inventor », mentre nelle Troades di Seneca, è fatto oggetto di una violenta invettiva da parte di Andromaca (8):

«O macchinatore di frode e artefice di delitti per la cui virtù di guerra nessuno è mai morto, ma per l’inganno della malefica mente, molti sono morti. »

Anche nelle Metamorfosi di Ovidio, il re di Itaca è hortator scelerum ( XIII, 45 ), ed è pure accusato di vincere i nemici solo grazie alla facondia, ( facundus Ulixes, XIII, 92 ), secondo il giudizio di Aiace, al quale, il figlio di Laerte contrappone l’esperienza ( experiens, 159 ).

   La condanna morale della mistificazione dell’intelligenza non può essere letta, nel caso del canto dantesco, come anticipazione della condanna dell’intelligenza come forma, in sé, della mistificazione, sottolineata dalla scuola di Francoforte. Ad esempio, Horkheimer e Adorno (9), intravedono nella figura di Ulisse, nell’uso della tecnica sganciata dalla morale, l’avvio di un pericoloso processo di aporia, di un vicolo cieco in cui va a cacciarsi il pensiero laico. Infatti, si verifica la costruzione di un circolo vizioso in cui il progresso, divenuto obiettivo e meta ultima dell’umanità, misura il grado di laicità della società, ma al tempo stesso, viene reificato e diventa merce, in una realtà connotata, sempre più, dall’aumento dei servizi e delle prestazioni economiche. Ne viene fuori che il pensiero laico, nato come forma di illuministica liberazione dalla teoresi spirituale e dall’oscurità di ogni rappresentazione magica, si pone, esso stesso, come paradigma mitico, diventando, in definitiva, lo strumento per massificare il pensiero e asservirlo alle ragioni economiche.

In altri termini, la logica umana sarebbe uno strumento di potere che si attua, a partire da Omero, in una duplice direzione: aggiogare le forze della natura e ottenere vantaggi, in una gerarchica e asimmetrica struttura delle relazioni sociali.

     In quest’ottica, a giudizio dei due filosofi tedeschi, Odisseo, come Robinson Crusoe, rappresenta un principio individualistico ed economico, una epifania antropologica dell’uomo occidentale: attraverso la descrizione dei luoghi raggiunti dall’eroe, l’Odissea mira ad attuare un rassicurante controllo razionale dello spazio, descrivibile letterariamente e dunque conoscibile.

Diversa è l’operazione effettuata dal poeta fiorentino: la condanna dell’astuzia di Ulisse, si pone al crocevia, come abbiamo visto, al punto d’intersezione in cui etica pagana e virtù cristiana si intersecano.

Tuttavia, il XXVI° canto dell’Inferno fornisce, al lettore, altre sollecitazioni, per le quali, assodata l’iniziale condanna del « consigliere fraudolento », viene rovesciato lo statuto letterario del personaggio, presentato, come un eroe, un martire della libertà del pensiero laico.

Procediamo con ordine. Dante personaggio è particolarmente commosso alla vista della fiamma cornuta, prega insistentemente Virgilio di realizzare il desiderio di comunicare (63-8):

«S’ei posson dentro da quelle faville/ parlar » diss’io, « maestro, assai ten priego/ e ripriego, che ‘l priego vaglia mille,/ che non mi facci de l’attender niego/ fin che la fiamma cornuta qua vegna:/ vedi che del disio ver lei mi piego!»

L’accentuazione della preghiera di Dante indica la religiosità del desiderio del poeta: al lettore viene subito comunicata l’eccezionalità dell’incontro, acuita dall’incapacità del fiorentino di potere parlare, direttamente con i due eroi greci. Emerge subito la limitatezza della lingua di Dante (71) in contrasto con la lingua di Ulisse: anzi, si può dire che la rappresentazione plastica della fiamma come di una lingua (85-8) indica chiaramente che tutto il canto è imperniato sulla capacità retorica di Ulisse, ontologicamente metamorfizzato, in vita, come da morto, dalla lingua, dalla abilità di sedurre con discorsi.

Non stupisce che l’eroe greco parli a lungo (90-142), senza alcuna interruzione e che, con le sue parole, si concluda il canto: che ci si trovi di fronte ad un personaggio degno di molto rispetto, è testimoniato anche dal tono dell’intervento di Virgilio, che, avendo indovinato l’oggetto della curiosità di Dante, dopo una significativa captatio benevolentiae (79-83), chiede notizie sulla sua morte.

Da qui l’eroe inizia il racconto delle sue ultime vicissitudini, aspetto questo che può essere considerato come un’invenzione di Dante (10).

E’ certo che, anche se il poeta non conosceva i poemi omerici, attraverso numerose epitomi e i riferimenti ai testi latini conosciuti, era possibile ricostruire le principali vicissitudini dell’eroe.

In questo senso, il racconto del XXVI° canto dell’Inferno appare una brillante riscrittura del mito omerico, basata su una rilettura filosofica del personaggio, assurto a simbolo di inappagabile desiderio di sapere (11).

Rievocate alcune tappe dell’avventuroso viaggio di ritorno, Ulisse asserisce (94-102) che

Né dolcezza di figlio, né la piéta/ del vecchio padre, né ‘l debito amore/ lo qual dovea Penolopé far lieta,/ vincer potero dentro a me l’ardore/ ch’i’ ebbi a divenire del mondo esperto,/ e de li vizi umani e del valore;/ ma  misi me per l’alto mare aperto/ sol con un legno e con quella compagna/ picciola da la qual non fui diserto.

La ripresa del mare, il viaggio, dopo il ritorno nell’amata (12) Itaca, come forma di conoscenza, di esperienza del mondo, può essere considerato uno spunto originale di Dante. Ad esempio, nel X libro della Repubblica, le anime dei morti diventano oggetto di un sorteggio con cui vengono riciclate in nuove forme di vita, liberamente scelte, connaturate alle diverse tipologie di anime: Ulisse sceglie una vita tranquilla, ignorato da tutti, mentre Tersite si trasforma in scimmia (620 c).

Occorre precisare che già a partire da Cicerone, l’itacese è considerato come prototipo di saggio.

Infatti, diventa esempio di pazienza virtuosa (13) e resistendo alle Sirene, che eccitavano la smania di conoscenza dei viaggiatori fino a farli rimanere aggrappati ai loro scogli, mostra di essere un vero seguace dell’ardor studii, per cui l’Arpinate (14), nel nome di Ulisse, conclude che «essere condotti dalla contemplazione delle cose più grandi all’ambizione della scienza è privilegio degli uomini superiori.»

Anche per Seneca morale, nelle Lettere a Lucilio, Ulisse (15) è, allegoricamente, un modello di virtù, di resistenza al fascino ammaliatore delle Sirene.

Nel Medioevo, le Sirene allegorizzano peccati capitali (16). In una lettera, Paolino da Nola (17) le considera come simbolo di tutta l’attività culturale profana e dei beni temporali. A giudizio di Ambrogio (18), per combattere le incantatrici «non è necessario farsi legare, come Ulisse, all’albero della nave con nodi materiali, ma farsi stringere l’animo con vincoli spirituali all’albero della Croce, per non lasciarsi ammaliare dalle lusinghe della dissolutezza.»

L’accostamento navigazione- Croce pone necessariamente un confronto Cristo- Ulisse (19).

Appare chiaro, alla luce delle considerazioni fin qui effettuate che Ulisse, nel Medioevo, rappresenta la figura del filosofo paziente e tollerante stoicamente e cristianamente in grado di resistere alle tentazioni di un falso e piacevole bene.

Se queste sono le premesse, occorrerà chiarire, ora la rifunzionalizzazione dell’eroe nel XXVI° canto dell’Inferno.

Il punto centrale dell’ideologia del personaggio, il cui ardore non è stato trattenuto, né dalla dolcezza del figlio né dalla pièta verso il vecchio padre, né dall’amore dovuto a Penelope, si trova espresso dall’orazion picciola, rivolta ai vecchi compagni, ormai giunti all’estremo limite del mondo conosciuto (108-9):

«dov’Ercule segnò li suoi riguardi,/ acciò che l’uomo più oltre non si metta/»

     Il personaggio ha piena coscienza del fatto che procedere oltre lo stretto di Gibilterra significa effettuare un’infrazione, trasgredire il limite posto alla conoscenza umana: ciò nondimeno, l’eroe greco, divenuto, nel canto dantesco, prototipo e martire di un sapere libero e assoluto, laicamente ostile a ogni principio di autorità (soprattutto ostile all’autoreferenzialità del dogmatismo teologico cristiano), facendo ricorso alla lingua, alla capacità di fascinazione intellettuale e psicologica della retorica, invoglierà, con l’orazion picciola (112-19), i compagni a compiere il folle volo:

“O frati”, dissi “che per cento milia/ perigli siete giunti a l’occidente,/ a questa tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi ch’è del rimanente,/ non vogliate negare l’esperienza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente./ Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguire virtute e canoscenza”.

Gli elementi essenziali del discorso di Ulisse appaiono i seguenti: I) lo spirito di fratellanza quasi religiosa che unisce nella fede del sapere l’eroe e i suoi commilitoni, II) la rappresentazione della vita umana come terrenità legata ai sensi, III) l’esperienza come forma di conoscenza dell’ignoto, IV) la semenza dell’uomo come sintagma antropologico contrapposto alla brutalità, V) l’indicazione che virtù e sapere costituiscono il fine ultimo dell’esistenza umana.

Da queste brevi indicazioni schematiche, si arguisce la struttura simmetrica del discorso di Ulisse, che mira a superare due elementi negativi, due perniciosi ostacoli (115, non vogliate negar l’esperienza; 118, fatti non foste a viver come bruti) cui si contrappongono due connotazioni positive (117, considerate la vostra semenza; 119, ma per seguir virtute e canoscenza ).

Viene fuori che i parametri negativi spingono l’uomo ad una condizione bestiale, mentre solo la virtù insita nel sapere, nobilita la semenza umana.

      La trasgressione prospettata dall’eroe, la facile ed entusiastica adesione dei compagni, testimoniano, per dirla con Le Bon (20), dell’impulsività della massa, dominata dall’inconscio.

Senza controllo, la massa può agire per il bene o per il male, essere eroica o crudele, necessita comunque, come ricorda Freud (21), di forti sollecitazioni, oltre l’inverosimile.

L’azzardo di Ulisse consiste nel mettersi in gioco, nell’essere disposto a sacrificare la picciola vigilia d’i nostri sensi alla fede dell’esperienza: la trasgressione dei limiti dell’uomo si ammanta di eroico disprezzo della vita ed assume i connotati della virtù.

L’illimitato desiderio di sapere si contrappone alla rigida ortodossia teologica: non a caso, la curiosità di sapere è la sfida, il peccato per eccellenza, che, da Adamo a Prometeo, caratterizza il contrastato rapporto umano-divino (22).

L’infrazione di Ulisse viene punita, infatti, dopo cinque mesi di viaggio, attraverso il mondo sanza gente, allorquando si profila il monte del Paradiso terrestre (136-42):

«Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;/ ché de la nova terra un turbo nacque,/ e percosse del legno il primo canto./ Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:/ a la quarta levar la poppa in suso/ e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/ infin che’l mar fu sovra noi richiuso ».

La punizione divina non tarda a far naufragare il disegno peccaminoso di Ulisse e dei suoi compagni, facendo pagare con la morte il prezzo dell’empia audacia.

Il canto ha posto e pone alcuni seri problemi esegetici: chi ha esaltato l’indubbio eroismo (23) di Ulisse, ha, in genere, sottolineato che non vi è consequenzialità tra la punizione espiata (il consiglio fraudolento del cavallo di Troia) e il naufragio (24).

In quest’ottica, la sete di desiderio di Ulisse non sarebbe un’infrazione all’ortodossia teologica e il naufragio non porrebbe un sigillo di condanna da parte di Dio sull’impresa dell’eroe greco.

Ma appare evidente dai già menzionati vv. 108-9 che Ulisse ha chiara coscienza della trasgressione implicita nell’andare oltre i d’Ercule riguardi, mentre, d’altronde il naufragio indica nettamente la volontà divina di sanzionare il peccato, consistente nel tentativo di cogliere il frutto proibito, di approdare al Paradiso terrestre, come si evince al v. 141, a proposito della massa d’acqua che, com’altrui piacque, ricopre la picciola compagna.

Ma d’altro canto appaiono anche insufficienti le argomentazioni, un po’ troppo sbrigative, di quanti (25) sostengono, che il fraudolento Ulisse (fraudolento, pure nello spacciare per virtù, la colpa dell’insubordinazione a Dio), compia un viaggio empio, ben diverso da quello di Dante, perché non illuminato dalla Grazia.

Vi è poi, chi, come Imbach, autorevole ed appassionato cultore di Dante, propone una via intermedia, sostenendo l’eroismo di Ulisse ma insistendo anche sull’incapacità della ragione sufficiente, non illuminata dalla Grazia, di potere bastare a se stessa.

Nel tentativo di sanare l’evidente contraddittorietà dei dettati presenti nel canto, non è mancato chi ha proposto di distinguere un Dante poeta ed uomo, commosso di fronte alla magnanimità di Ulisse e del suo inane tentativo di sapiente filosofia pagana, da un Dante teologo, strenuo difensore della superiorità dell’ordine divino. Ma è legittimo in un poema teologico scritto ad esaltazione di Dio, come la Commedia, distinguere la teologia dalla poesia, correndo il rischio di operare facili scorciatoie e comode giustificazioni di fronte a situazioni di difficile e complessa ermeneutica, senza avere chiarito bene cosa s’intenda per poesia?

La poesia è irriducibilmente avversa alla teologia e come tale, nel medio evo è disprezzata e guardata con sospetto (26): scegliendo la strada del poema sacro, Dante si pone già per una via potenzialmente eretica. Infatti la sua Musa è sensibile a cantare quei valori eroici della terrenità che, anche in contrasto con l’ortodossia teologica, appaiono nobili ed in grado di dare un senso alla dignità dell’uomo: la poesia, che nel fiorentino è strettamente congiunta all’amore per la gentile donna (la filosofia), costituisce il rovescio e la negazione di una rassicurante e cattolicamente corretta visione teocentrica, in un contesto di perenne ed irrisolta dialetticità.

      Un’attenta studiosa delle opere dantesche come Maria Corti (27), sottolinea che il viaggio di Ulisse indica un’alterità radicale al percorso oltremondano del fiorentino, per cui il canto XXVI° dell’Inferno andrebbe letto come una critica alle teorie eretiche dell’aristotelismo radicale, professate da Sigieri di Brabante e da Boezio di Dacia, filosofi molto cari a Dante.

Ma siamo proprio sicuri che il viaggio dell’eroe greco sia altro e diverso? O non costituisce piuttosto un pericoloso ed eretico prototipo a cui, inconsciamente, Dante guarda come ad un nobile modello? Ma se, in qualche modo, Ulisse diventasse, ed è quel che si cercherà di dimostrare, modello epistemologico di Dante, quale concezione di Dio, quale visione religiosa scaturirebbe fuori dalla Commedia?

Per affrontare questi interrogativi appare indispensabile mettere a fuoco l’orizzonte culturale di Dante, per rintracciarne un’idea di sapere e di laicità, in qualche misura conforme al dettato razionalista dell’Ulisse del XXVI° canto, quindi occorrerà cercare di capire e di riscontrare come e se all’interno della Commedia, virtù laiche e principî cristiani coesistano, ciò stabilito si proverà a dare un’interpretazione laica dell’Ulisse dantesco.

      Il termine laicus nel medioevo diventa spesso sinonimo di illitteratus (28): sovente, i chierici, arrogantemente, lo connotano di una luce negativa (29).

Il Decreto di Graziano (30) sancisce la superiorità del clero (gli eletti da Dio) dai laici (la massa):

«Esistono due specie di cristiani. La prima è votata all’ufficio divino; si consacra alla contemplazione e alla preghiera e conviene che viva lontano dai rumori del mondo. Si tratta dei chierici che sono votati a Dio. In greco, infatti kléros significa “sorte”; questi uomini sono chiamati chierici perché sono eletti dalla sorte. Dio li ha scelti. Sono dei re perché dominano e regnano sugli altri con le virtù. Il loro regno è in Dio. Sono contraddistinti dalla tonsura. La Chiesa di Roma dona loro questa “corona” in segno del Regno […]. Altra specie di cristiani sono i laici. Laòs significa infatti “popolo”. A costoro è concesso possedere beni temporali, ma soltanto per i bisogni necessari. Non vi è nulla di più miserevole, infatti, che spregiare Dio per il denaro. Sono autorizzati a contrarre matrimonio, coltivare la terra, dirimere controversie con giudizio, arringare, deporre offerte sull’altare, pagare le decime: possono così essere salvati, purché evitino i vizi nel fare il bene.»

Umberto (31) da Romans usa una scala di valori per esprimere la differenza tra laici e chierici:

«come nel mondo esiste una parte superiore, il cielo, e una parte inferiore, la terra; come nell’uomo esiste una parte più comprensiva, l’anima e una parte meno comprensiva, il corpo […] così tra i cristiani esistono due generi di uomini: i chierici che sono superiori in dignità e più intelligenti per la scienza […] e i laici.»

A giudizio di Egidio Romano (32), i chierici sono riconducibili a Maria, che, nell’esegesi tradizionale rappresenta la vita contemplativa, i laici a Marta: per Egidio Romano (33), il dominium terreno spetta alla Chiesa, della quale  i laici devono riconoscersi servi.

Laico è sinonimo di mondano e si contrappone alla « cittadella monastica », percepita a partire dalla tradizione carolingia, come la migliore realizzazione dell’uomo (34). Non stupisce che l’ambiente monastico (35) effettui delle discriminazioni nei confronti dei laici:

«Tra i cristiani dei due sessi sappiamo bene che esistono tre ordini e, per così dire, tre livelli. Il primo è quello dei laici, il secondo quello dei chierici, il terzo quello dei monaci. Benché nessuno dei tre sia esente dal peccato, il primo è buono, il secondo è migliore, il terzo è ottimo.»

Abbone di Fleury (36), abate di Saint- Benoît – sur- Loire, alla fine del X secolo, teorizza, sulla base dell’appartenenza agli ordini e alle classi sociali le ricompense che attendono i cristiani nell’al di là: 100 sarà dato ai monaci, 60 ai chierici, 30 ai laici.

Nel Milleduecento, Giacomo da Viterbo (37) insiste sull’intercambiabilità di chierici e letterati:

«impropriamente a volte, qualsiasi letterato viene chiamato chierico, per il fatto che i chierici  devono essere letterati.»

    Se queste sono le premesse non stupisce che, a parere di Corrado di Megenburg (38), il laico debba essere diretto dal chierico, luce della religione cristiana:

«i chierici sono la luce della religione cristiana. Ed è a loro, nella persona degli apostoli, che il Salvatore si è rivolto dicendo « voi siete la luce del mondo». I laici sono il popolo ignorante, che deve essere istruito piuttosto che istruire, guidato piuttosto che guidare […] questo genere di uomini non deve dirigere il clero ma essere da lui diretto, poiché spetta al saggio dirigere e non essere diretto, come sostiene Aristotele nel prologo della Metafisica. Dunque, sono i chierici che possiedono la sapienza delle Scritture, mentre i laici si perpetuano nell’ignoranza.»

Queste sono le basi su cui poggia il clericalismo politico (39) della bolla papale Unam sanctam, in cui si postula la superiorità del potere spirituale sul temporale.

Parallelamente, si sviluppa un clericalismo scientifico che mira a sottomettere la filosofia alla teologia, come sostiene Gregorio IX (40), nella lettera indirizzata alla Facoltà di teologia di Parigi:

«La fanciulla sottratta al nemico, tagliati i capelli e le unghie, e congiunta all’uomo israelita, non deve dominarlo ma al contrario obbedirgli come sua suddita. Così l’intelligenza teologica, come un uomo, deve imperare su ogni facoltà [universitaria]; come lo spirito deve esercitare il potere sulla carne e indicarle la retta via, affinché essa non devii.»

Significativamente, in Dante, chierici e letterati sono negativamente associati al vizio della sodomia (41):

In somma sappi che  tutti fur cherci/ e  litterati grandi e di gran fama,/ d’un peccato medesimo al mondo lerci./

    Ma dalla prima metà del XIII secolo nasce anche una visione laica antagonista. Ad esempio, Guglielmo di Ockham (42) così si esprime:

«La Sacra Scrittura, parlando della “Chiesa” comprende uomini, donne e  laici. Ecco perché, secondo il loro dettato, la causa di Dio e della fede concerne anche i laici. Come Dio è il Dio dei chierici, così è il Dio dei laici.»

Tuttavia, la battaglia è feroce: attraverso la filosofia e, in genere, la cultura, la Chiesa cerca di esercitare e legittimare il proprio potere. La battaglia per l’egemonia culturale risulterà decisiva, circa la possibilità di creare una società laicamente libera: più aumenta il peso degli intellettuali laici, più forte diventa la resistenza conservatrice clericale.

Ugo di San Vittore (43), nel Didascalicon, associa la sapienza all’integrità persa a causa del peccato originale:

«il vero scopo cui devono essere rivolti tutti gli sforzi delle azioni umane, guidate sempre dalla sapienza, è duplice: restaurare la perfezione originaria del nostro essere spirituale e provvedere alle necessità e alle carenze della nostra vita terrena.»

    Ma la filosofia non ha la capacità di conoscere la verità nella quale risiede la salvezza dell’anima (44):

«I libri dei filosofi, come una parete di argilla imbiancata, splendono estremamente per la bellezza dell’eloquio, tuttavia, sebbene talvolta offrano la parvenza della verità, poiché contengono anche affermazioni false, in realtà mascherano l’argilla degli errori con il bel colore che li ricopre.»

Bonaventura di Bagnoregio (45) è un fiero avversario dell’autonomia della filosofia, considerata, di per sé, senza l’illuminazione della teologia, una prostituta:

«la cosa più abominevole è che mentre ci viene offerta la più bella figlia del re come sposa, noi preferiamo unirci alla più laida delle serve per fornicare. Vogliamo ritornare ai più vili nutrimenti dell’Egitto, e non vogliamo essere ristorati dal nutrimento celeste.»

Diversamente, l’anonimo autore (46) del commentario all’Isagoge, probabilmente scritto prima del 1246-7 e conservato in un manoscritto monachese ( Clm 14460 ) insiste sul carattere onnicomprensivo della filosofia: « quando qualcuno conosce tutto l’essere e tutte le cose del mondo, è filosofo e raggiunge la dignità suprema. » Poi ancora: « si dice filosofo, chi per conoscenza innata, ama la sapienza e conosce ogni cosa. »

Tra il 1263 e il 1266, Brunetto Latini fu esule a Parigi, dove, già da una diecina d’anni, venivano impartite le teorie del cosiddetto aristotelismo radicale, i cui maggiori esponenti, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, rifacendosi alle dottrine di Averroè, postulavano alcune tesi eretiche (47), effettuando una ricerca libera dalle incrostazioni teologiche ortodosse.

Subendo il fascino delle tesi più radicali, il Latini considera la filosofia (48) domina, l’unico strumento in grado di elevare l’uomo dalla condizione di bestia (49):

«La filosofia è la vera ricerca delle cose naturali, delle cose umane e delle cose divine, così come l’uomo le può intendere. Avvenne che coloro che s’impegnarono a cercare e a conoscere la verità di queste tre cose di cui si occupa la filosofia (e cioè la divinità, le cose naturali e le cose umane), furono di diritto figli della filosofia e furono perciò chiamati filosofi. Fu così che, all’inizio della storia, quando gli uomini abituati a vivere secondo le leggi delle bestie scoprirono per la prima volta la dignità della ragione e della conoscenza, che Dio aveva dato loro, e vollero conoscere la verità delle cose che sono nella filosofia, si trovarono di fronte a tre questioni: la prima era sapere la natura di tutte le cose celesti e terrene, la seconda e la terza le cose umane. Dunque, la prima di queste è sapere quali cose si devono fare e quali no. E dopo che queste tre questioni furono trattate e discusse a lungo tra gli altri dotti chierici e i filosofi, essi riconobbero nella filosofia, la propria madre, tre principali membra, ovvero tre tipi di scienza per insegnare e provare la vera ragione delle tre questioni di cui ho appena parlato.»

Non va trascurata la funzione svolta da Federico II di Svevia nella diffusione di un pensiero filosofico laico. Michele Amari (50) ha sottolineato il ruolo decisivo esercitato sull’illuminato imperatore siciliano dai filosofi arabi:

«Né egli ( Federico II ) coltivò la filosofia sol per utile e diletto proprio, ma sì la promosse ne’ suoi dominii e in tutta Cristianità. Accenneremo appena alla Università fondata in Napoli; a’ sussidii assegnati per gli studenti poveri; ai

« dottori chiamati da ogni parte del mondo, come dice il Jamsilla, con liberali premi e provvisioni. » Raccolti nella sua biblioteca moltissimi codici arabi e greci, Federigo li facea tradurre in latino, per comodo pubblico. Ci rimane la nobile epistola con la quale ei mandava in dono ai professori e agli studenti di Bologna la versione di « certi scritti di Aristotile e d’altri filosofi su la dialettica e la cosmologia », affinché giovassero a propagare la scienza, « senza la quale, ei dicea, la vita dei mortali non si conduce liberalmente ». Impossibile e’ sembra che Federigo non abbia arricchita, di quelli e d’altri trattati, la sua cara Università di Napoli; e si ritrae che Manfredi, imitando l’esempio del padre, inviò all’Università di Parigi, forse le stesse opere e di certo la stessa epistola, ricopiata e mutatovi il nome. Pensano gli eruditi che coteste versioni siano state tutte o parte, opera di Michele Scoto. Non guari dopo, Bartolomeo da Messina, per commissione di Manfredi, tradusse dal greco in latino l’Etica d’Aristotile; e un tedesco per nome Hermann voltò in latino per volere dello stesso principe, le parafrasi arabiche, o compendii del medesimo e d’altri libri d’Aristotile. Aggiungasi le altre versioni d’opere di matematica, di medicina, di storia naturale, d’astronomia o astrologia, dovute al patrocinio di Federigo o del figliuolo, delle quali abbiamo già fatta menzione. Come poi i Giudei furono in Occidente, per tutto il medio evo, gli interpreti più assidui della dottrina araba, così Federigo favorì, insieme con le latine le traduzioni o compilazioni ebraiche degli scritti arabi di scienza. »

 Michele Scoto è una figura centrale per la diffusione presso la corte federiciana dell’averroismo, infatti, a partire dal 1220 il filosofo è chiamato dall’imperatore a tradurre i commentari di Averroè sulle opere di Aristotele

E’ importante sottolineare che lo Scoto svolse un significativo ruolo di diffusione delle idee radicali: è ipotizzabile (51) che durante un suo viaggio a Bologna del 1231, mentre la corte sveva era a Ferrara, il filosofo abbia portato con sé alcune traduzioni da testi arabi.

Tutta l’azione di Federico e della sua corte mira alla costituzione di un sapere laico in cui la filosofia è scissa, autonomamente dalla teologia. Ad esempio, nella lettera Magisterio et scholaribus Bononiensibus  (1232) l’imperatore (52) chiarisce che la scienza è la base del vivere liberale, solo se poggia su una cultura popolarizzata e diffusa:

«il generoso possesso delle scienze diviso tra più soggetti non deperisce, e distribuito per parti non percepisce il danno di un diminuzione, invecchia se ristagna troppo a lungo, si diffonde tanto più fecondamente se viene reso pubblico: non vogliamo nascondere i vantaggi di questa fatica, né abbiamo pensato come cosa piacevole il possederli, senza rendere partecipi altri, insieme a noi di un bene così grande.»

L’imperatore distingue, come farà Dante (53), tra una Chiesa madre, degna di attenzione, e un padre indegno, il papa:

«dalla conoscenza della fede cattolica sappiamo di avere trovato nella Chiesa la vera nostra madre, ma abbiamo sempre trovato falso il padre […]. Finora, tuttavia, l’integrità della nostra coscienza di fede e la pura devozione, che nutrivamo per la nostra madre Chiesa, non consentivano al figlio di riconoscere i deliri del padre, ostili come una matrigna» (54).

Federico è un laico che recepisce le lezioni dei grandi filosofi con autonomia (55): un chiaro segnale è costituito da un passaggio del De arte venandi cum avibus:

«Nel redigere [ questo testo ] abbiamo infatti seguito Aristotele laddove conveniva; in molti casi  e soprattutto per quanto concerne la natura degli uccelli, egli pare infatti allontanarsi dalla verità che noi abbiamo appreso attraverso l’esperienza. Ecco perché non abbiamo sempre seguito il principe dei filosofi: raramente, o forse mai, egli ha cacciato con gli uccelli. Noi, invece, abbiamo sempre amato e praticato questo tipo di caccia. Tra le molte cose che egli racconta nel Libro sugli animali dice che alcuni ne parlano, ma ciò che egli riferisce non l’ha constatato di persona, come probabilmente non l’hanno fatto coloro che l’affermano. La fede certa infatti non proviene dall’ascolto» (56).

Presso la biblioteca Bodleiana di Londra, si trova un manoscritto arabo (57) in cui  l’autore, il dotto arabo  Ibn Sab’īn, risponde alle Questioni siciliane, cioè alle domande poste dall’imperatore che concernono quattro argomenti scottanti: I) eternità del mondo, II) il fine della teologia e i suoi presupposti, III) il numero delle categorie, IV) l’immortalità dell’anima (Federico, sulle orme di Averroè, riteneva che l’anima morisse col corpo e per questo è collocato nel X canto dell’Inferno).

       Pure Manfredi segue le tracce del padre (58):

«Anche se il gran numero dei nostri impegni spesso ci turba e la ragione di stato esige tutta la nostra sollecitudine, noi non vogliamo passare nell’ozio, dopo avere assunto il compito di regnare, il poco tempo che riusciamo a strappare alle nostre occupazioni ordinarie; ma consacriamo volentieri tutto questo tempo alla libera attività della lettura e, affinché lo strumento dell’intelligenza si fortifichi con più vigore, ci prodighiamo generosamente nell’acquisizione della scienza, senza la quale la vita degli uomini non ha senso.»

Lo sfortunato principe, nella biblioteca paterna trova un manoscritto ebraico, il Liber de pomo sive de morte Aristotilis, che provvederà personalmente a tradurre. Nel Prolugus si trova un caposaldo di tutta la politica culturale sveva (59):

«Essendo l’uomo la più degna di tutte le creature, nato ad immagine di Dio, essendo creato attraverso un procedimento oscuro per un fine nobile, così si ritiene che nulla in lui possa essere più nobile che conoscere se stesso e il suo Creatore» (60).

Appare chiaro che ogni idea di trascendenza viene rifiutata e che è l’uomo, con la sua cultura, ad elevarsi a Dio:

«e i più sapienti sono coloro i quali  si sono dedicati a più scienze e hanno conosciuto il loro Creatore […] L’uomo non può comprendere le scienze se non attraverso i gradi dell’anima […] L’utilità dell’uomo nella vita consiste nell’ascender ai più alti gradi e nell’apprendere le scienze e nell’indirizzarsi alle strade della filosofia, poiché per mezzo di essa conosce il suo Creatore» (61).

In quest’ottica, alla rottura culturale, faceva seguito un disegno politico laico in contrasto con la Chiesa, frutto di un’evoluta borghesia siciliana, a parere di Antonio Gramsci (62).

Appare importante sottolineare come Dante, in più circostanze, esalti l’opera di Federico e del figlio Manfredi.

Ad esempio, in Purg. III, 133-35, Manfredi viene salvato contro l’opinione della Chiesa, mentre, il poeta, facendo ricorso ad un atteggiamento chiaramente anticlericale, come sottolinea il Vallone (63):

«vede grandi e amici gl’Imperatori ostili al Papa, come Federico II e Enrico VII. Osteggia i re e i principi amici del Papa, come Filippo il Bello e Carlo d’Angiò.»

D’altronde alla stima per Federico corrisponde la disistima per Bonifacio VIII, l’anti Federico:

E’ condannato all’infame simonia prima di morire ( Inf.  XIX, 52-55 e Par. XXX, 148). Prostituisce la  Chiesa (Inf. XIX, 57 ). Simula adulando ( tal è il «piaggiare », Inf. VI, 69 ). E’ ipocrita quanto un principe di farisei ( Inf. XXVIII, 85 ) […]. Ha atteggiamenti di « puttana sciolta » (Purg. XXXIII, 149 ) e di immondo mercante ( Par.XVIII, 51 ). Usurpa e degrada a cloaca i luoghi sacri ( Par. XXVII, 22-25). Se v’è compianto non è per l’uomo ma per « il vicario di Cristo », « catto » « deriso » e « inciso » ( Purg. XX, 85-90 ). L’assenza di qualsiasi accenno alla cultura, alla scienza, al sapere crea per altro un abisso più profondo e stacca ancor più come estremi Federico II e Bonifazio VIII (64).

Non a caso, in un celebre passo del De vulgari eloquentia, Federico e Manfredi vengono esaltati, perché hanno vissuto da uomini, sdegnando di vivere come bruti:

Humana secuti sunt, brutalia dedignantes (65).

L’elogio della cultura della corte siciliana (oh tempi beati e ineguagliati, mai più riproposti!) determina la produzione e l’attribuzione al siciliano di tutto ciò che veniva prodotto in volgare:

«poiché la Sicilia era sede degna di un re, accadde che, qualsiasi cosa i nostri predecessori, producessero in volgare, venisse chiamato siciliano» (66).

Analizzando l’opera del fiorentino, più volte è affermata, con determinazione, una visione culturale laica e in alcuni casi, prende corpo una concezione nettamente ostile alla Chiesa.

E’ merito degli attenti e rigorosi studi di Bruno Nardi avere dimostrato l’eclettismo filosofico di Dante, liberandolo dalle incrostazioni tomiste (67).

Maria Corti (68) ha giustamente sottolineato che l’orizzonte culturale del Duecento è fortemente scosso dall’ingresso di tematiche filosofiche greche e arabe, tradotte in Spagna, Germania e Sicilia: si verifica una contrapposizione paganità/ cristianità che minaccia l’unitarietà dei modelli culturali, egemonicamente gestiti e prodotti dalla Chiesa, soprattutto nel momento in cui si sprigiona il fascino della filosofia peripatetica (69).

Non stupisce pertanto che nel Convivio, Aristotele «maestro e duca de la ragione umana » sia esaltato come esempio di «’ngegno [singolare e quasi divino] (70)», mentre i peripatetici, i seguaci dello Stagirita, diventano emblema della dottrina cattolica:

 «e tiene questa gente [ I Peripatetici ] lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica opinione» (71).

Naturalmente, il problema centrale verte sull’interpretazione di Aristotele, su quanto della dottrina del filosofo pagano poteva essere costretto o ridotto ad una esegesi in qualche modo riconducibile al pensiero cattolico e quanto invece, appariva pericolosamente (in pericolo è, ovviamente, l’ortodossia) trasgressivo.

     Un punto nevralgico è costituito dalla dottrina dell’intelletto possibile: per Averroè (72) e poi per Sigieri (73) e Boezio di Dacia il concetto cardine è l’atemporalità, l’immaterialità e l’universalità della conoscenza, per Tommaso (74), invece, la conoscenza perfetta si può attuare solo dopo la morte, quando la visio beatifica, attraverso la contemplazione dell’essenza divina che è causa dell’essere universale (ens universale) consentirà all’anima una perfetta conoscenza: solo la conoscenza dell’essenza divina soddisfa l’intelletto umano ( Ulisse, nel canto dantesco, va contro questa tesi, postulando l’autonomia del saper come forma di perfezione in sé ). Dice Tommaso (75):

«Dunque, se l’intelletto umano, conoscendo l’essenza di un effetto creato, non conosce nient’altro di Dio se non la sua esistenza, non è abbastanza perfetto per raggiungere veramente la causa prima, ma conserva il desiderio naturale di scoprire tale causa. Perciò non è ancora perfettamente felice. Per la perfetta beatitudine è necessario che l’intelletto colga l’essenza stessa della causa prima.»

Il problema attiene alla qualità dell’intelletto possibile: per il filosofo arabo forma e perfezione del corpo umano è da attribuirsi solo all’anima sensitiva, da cui l’intelletto è separato, tranne che nell’atto dell’intendere, per Tommaso, invece, l’intelletto è una facoltà dell’anima umana che, nella sua interezza, è forma del corpo, entra nell’uomo dal di fuori, viene creata da Dio, al termine del processo embrionale. Dante, come sottolinea il Nardi (76), si pone a metà strada tra i due filosofi, in quanto l’anima vegetativo-sensitiva dipende da una virtù attiva proveniente dal generante, sotto l’influsso del cielo su cui si innesta l’intelletto possibile, sicché,

«l’umano e il divino si uniscono in un connubio indissolubile e intimo, per formare quella che si dice l’anima umana, sensitiva ed intellettiva insieme, la quale è tutt’intera forma del corpo.»

     Nel De Monarchia (I, III, 8), Dante socializza, in senso politico, la funzione dell’intelletto, non più visto come dottrina dell’intelletto separato, alla maniera degli Arabi, né come intelletto individuale, alla maniera di Tommaso, bensì come strumento per una conoscenza collettiva: solo l’umanità, nel suo insieme, è in grado di conoscere tutto quanto è possibile, infatti, gli intelletti formano una certa unità, una società.

La naturalezza del vivere in società, la politicità dell’uomo hanno senso in quanto, consentono una vita teoretica (77), ovvero il raggiungimento della felicità attraverso la sapienza: la filosofia riguarda tutti gli uomini ed il filosofo non è più l’isolato, né vive come dissidio la sua funzione di cittadino e la sua aspirazione al bios theoretikos.

    Tra paganesimo e ortodossia cristiana, Dante sceglie, liberamente ed ecletticamente, ma, trattandosi di materia di fede, ereticamente, le dottrine più suggestive a cui suggere.

Se per Aristotele, la filosofia basata sulla ragione appaga il desiderio naturale di sapere e quindi consente una perfetta beatitudine (78), se per Averroè la stirpe umana è eterna e si dedica alla speculazione, per cui tutto il sapere, è sempre presente attraverso la convivenza umana, per Dante, il desiderio di conoscere è limitato a ciò che è dato conoscere:

«Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere» (79).

Nel banchetto del Convivio, il desiderio della scienza distingue, proprio come dirà Ulisse, gli uomini dai bruti:

«Oh beati quelli pochi che seggono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! E miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! Ma però che ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati, non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e son quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nomata» (80).

La ragione è la parte più nobile dell’uomo:

«onde, quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto della sua più nobile parte. E però chi da ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo ma vive bestia; sì come dice quell’eccellentissimo Boezio: « Asino vive » ( de consolatione philosophiae, I, 4, 3 ). Dirittamente dico, però che lo pensiero è proprio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l’hanno: e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d’altra bestia abominevole» (81).

     Dante tesse l’elogio per la filosofia morale, donna gentilissima (82), da cui dipendono tutte le altre branche della filosofia: attraverso la ragione, l’uomo diventa divino animale:

«( l’anima umana) con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, partecipa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e denudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale da li filosofi chiamato» (83).

La divina semenza dell’uomo consente di pervenire all’intelligenza angelica:

«E però che ne l’ordine intellettuale de l’universo si sale e discende per gradi quasi continui da l’infima forma a l’altissima [ e da l’altissima ] a l’infima, sì come vedemo nell’ordine sensibile; e tra l’angelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno e l’altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l’anima umana e l’anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì bassa condizione, che quasi non pare essere altro che angelo: altrimenti non si continuerebbe l’umana spezie da ogni parte, che essere non può. E questi cotali, chiama Aristotile, nel settimo de l’Etica (84).

Nei primi tre libri del Convivio l’amore per la filosofia, sembra instradato sulla scia dell’aristotelismo radicale: per Boezio di Dacia (85), infatti, l’attività contemplativa è dimensione erotica (voluptas speculandi), mentre l’oggetto finale della filosofia, forma di perfetto sapere è l’Ens Primum, il Deus Benedictus.

Nel IV trattato, a giudizio della Corti (86), si verificherebbe un radicale mutamento, un parziale abbandono delle teorie averroistiche a favore di una visione teologica più ortodossa. Tuttavia, proprio nel IV trattato, sono presenti alcune dottrine averroistiche ( IV, XIII, 7-9): infatti, sul modello di Aristotele, viene esaltata la ragione come desiderio naturale di perfezione dell’uomo, per cui Nardi (87) annota

«Dottrina schiettamente averroistica e certamente antitomistica, pare a me l’affermazione che la filosofia umana, cioè la filosofia aristotelica, è sufficiente a saziare il naturale desiderio dell’uomo. Tale è la tesi del compagno di Sigieri, Boezio di Dacia, nell’opuscolo De summo bono sive de vita philosophi. Per Boezio il dace, chi ha vissuto da filosofo

 « secundum rectum ordinem naturae », praticando le virtù morali e intellettuali, « acquisivit optimum et finem ultimum vitae humanae » poiché il « summum bonum quodo possibile est homini » la « beatitutdo humana », sono costituiti dalla conoscenza del vero, dalla pratica del bene e dal godimento che recano l’una e l’altra.»

La ragione, la ricerca filosofica (ragione usare) misurano la differenza tra l’uomo e i bruti:

«Sì come dice Aristotele nel secondo de l’anima, « vivere è l’essere dei viventi »; e perciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire – animali, dico bruti – vivere  ne l’uomo è ragione usare. Dunque se’l vivere, è l’essere [ dei viventi e vivere ne l’uomo è ragione usare, ragione usare  è l’essere ] de l’uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte da l’uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? E non si parte da l’uso de la ragione chi non ragiona il camino de che fare dee? Certo si parte.

[…] Dunque, come levando l’ultimo canto del pentangulo rimane quadrangolo e non più pentangulo, così levando l’ultima potenza de l’anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto» (88).

Per cui emerge chiaramente che, sulla scorta del IV trattato, la parte più « teologica » del Convivio, il folle volo (ma, paradossalmente e dialetticamente, si farebbe meglio a parlare di un razionale volo) di Ulisse è frutto di un desiderio naturale, perfettamente nobile e legittimo nell’uomo.

Anzi, sulla scorta di Aristotele (89), vengono distinti gli uomini « vilissimi e bestiali » dagli uomini « nobilissimi e divini (90) », mentre, se, all’atto della creazione il seme dell’anima non attecchisce bene, può essere innestato e perfezionato « per molta correzione e cultura (91) ».

Ma accanto a queste evidenti professioni eretiche (Dante asserisce anche che l’anima che possiede tutte le facoltà al sommo grado assommerebbe in sé tanto « de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato [92] »), nel IV trattato, sono però presenti riflessioni più in linea con l’ortodossia cattolica. Ad esempio, si specifica che l’uomo non può avere la presunzione di conoscere i disegni di Dio (93), ma va sottolineato che questa riflessione è inserita in uno dei capisaldi dell’ideologia politica dantesca: l’elogio di Roma e della sua storia, che reca in sé qualcosa di divino. Di dubbia interpretazione è invece l’annotazione (94) secondo cui le tre Marie del Vangelo rappresenterebbero le tre scuole filosofiche (Peripatetici, Stoici, Epicurei): si tratta della fine della filosofia umana (95) o piuttosto, come forse sarebbe meglio intendere, di una libera e addirittura blasfema contaminazione di cristianità e paganità?

E’ certamente vero che il sommo bene è indicato nel conoscere le opere di Dio, ma come ha messo in luce il Nardi (96), nel Convivio, filosofia e teologia sono confuse, la filosofia è, alla maniera di Aristotele, scienza divina, anche se, ciononostante, la Sapienza delle Sacre scritture viene onorata.

     Nel De monarchia, opera laicissima, prende corpo un disegno razionalista assolutamente rivoluzionario: la separazione della Chiesa e dell’Impero presuppone necessariamente, la separazione della teologia e della filosofia, per cui la sapienza cristiana viene spaccata a metà, ferendo a morte la dottrina di Tommaso d’Aquino, come osserva il Nardi (97).

Assai significativo, perché innovativo sul piano epistemologico è il seguente passo:

«Bisogna ora vedere in che cosa consista il fine ultimo di tutta l’umana società: stabilito questo, avremo concluso più della metà  della nostra fatica, come dice il Filosofo nell’Etica Nicomachea. E per chiarire meglio ciò su cui si indaga, bisogna prima di tutto osservare che, come la natura destina ad un determinato fine il pollice, ad un altro tutta la mano, ad un altro ancora tutto il braccio e, finalmente, ad un fine diverso da tutti gli altri tutto l’uomo, così altro è il fine al quale essa ordina l’uomo singolo, altro quello al quale ordina la comunità familiare, altro il fine del borgo, altro quello della città, altro quello del regno, e altro è, finalmente, quel fine migliore di tutti gli altri, per il quale l’eterno Dio dà l’esistenza a tutto il genere umano, servendosi della sua arte che è la natura. Ed è appunto questo fine ultimo che si cerca qui di determinare come principio direttivo della nostra ricerca» (98).

La diversità dei compiti dell’individuo, il suo limitato finis, complessivamente inferiore alla società nel suo insieme è lezione direttamente riconducibile al dettato aristotelico (99) e alla lettura di Averroè (100).

Per Agostino (101), invece, la beata civitas non è altro che concors hominum multitudo.

L’elemento rilevante della dottrina dantesca è la concezione di una vera e propria antropologia del sociale, intesa come fine ultimo, felicità terrena, frutto di un mettere insieme le cognizioni: viene fuori una laica social catena, sulla stessa linea dell’epistemologia federiciana.

Per Agostino, la civitas terrena è conseguenza del peccato originale ed è dominata dal peccato, perché nasce dalla cupidigia umana e dalla libido dominandi, per Tommaso (102), lo Stato sana le lacune individuali, mentre la disuguaglianza tra gli uomini è provvidenziale:

«Ma la vita sociale non potrebbe appartenere a molti, se non vi fosse un capo che mirasse al bene comune.»

     Ma nella Monarchia si realizza anche una significativa deminutio della Chiesa, non solo per quanto attiene alla inammissibilità del potere temporale, ma anche sotto l’aspetto morale e gnoseologico: l’autorità dell’istituzione è fortemente contestata ed è limitata, contro ogni debordante autoreferenzialità, all’aderenza, alla corretta interpretazione delle Sacre scritture (III, III).

L’attacco contro i figli della Chiesa che, nella loro empietà prostituiscono la madre, diventa l’oggetto di una vera e propria lotta in nome della pietas.

Ai malevoli, Dante aggiunge gli ignoranti e quanti, per eccesso di zelo verso l’insegna, le chiavi, preferiscono l’autorità ecclesiastica, a cui si contrappone la ragione umana dei filosofi che mira alle attività pratiche. All’imperatore (103), toccherà secundum documenta philosophica, guidare ad temporalem felicitatem, tesi questa che appare già di per sé proibita e contraria all’ortodossia ecclesiastica (104).

      Nell’Epistola ai cardinali italiani, le critiche all’operato della gerarchia ecclesiastica sono violentissime: la Chiesa è corrotta e la colpa viene attribuita ai cardinali che hanno fatto cattivo uso del libero arbitrio, staccandosi da Dio.

I cardinali conducono a precipizio il carro della Chiesa, in quanto, abbandonando la strada segnata dal Crocifisso, hanno sposato la cupidigia (105), per cui dovrebbero vergognarsi e pentirsi (106).

L’ideale cristiano di Dante è imperniato su una ecclesia spiritualis (107), che però, di fatto, viene negata o tradita, nella prassi storica del suo tempo: il fiorentino, che si prende a cuore le sorti della istituzione religiosa, si trova costretto a pronunciare dure verità, per salvarla (108).

Pertanto non stupisce di trovare anche nella Commedia, violente invettive nei confronti dei religiosi (109) e, conformemente, al dettato di un intellettuale libero e laico, è possibile riscontrare la presenza di elementi eretici, chiaramente polemici contro l’ortodossia della teologia cattolica. Tuttavia, è rinvenibile anche, sulla scorta di un tracciato epistemologico eclettico e variamente composito, intriso dell’irrisolta dialettica paganità/cristianità una sorta di duplicità della struttura narrativo -poetica: un testo in luce, che mira, a tracciare un Iter in Deum, che è in qualche misura assimilabile alla religiosità cattolica, su cui si innesta una specie di sottotesto, un testo ombra, ricco di elementi trasgressivi, antiteticamente e irriducibilmente ostili alla trascendenza.

Ad esempio, nell’Inferno, alla sanzione dell’infrazione, si contrappone, in alcuni casi (Paolo e Francesca, Farinata, Brunetto Latini e Ulisse) l’esaltazione della virtù civica, l’elogio dell’operato terreno, prospettato come azione nobile ed eroica o come martirio, oggetto della pietà del poeta.

Sotto le ceneri del rassicurante viaggio verso Dio – padre, cova il fuoco di una contrapposizione Ragione/Fede, che come, si è visto, caratterizza tutto il percorso di Dante.

Asserire che il poeta prova pietà mentre il teologo condanna è un’ermeneutica insufficiente, in quanto la pietà è elemento corrosivo di per sé: si prova pietà per una condizione infelice che appare eccessiva rispetto alle azioni compiute (110).

      La pietà trasforma, in compartecipazione al dolore, il distacco o il disprezzo verso la colpa: è da osservare che il poeta coltiva pietà non diffusamente, come condizione innata nell’uomo, ma solo in presenza di alcuni particolari casi e di limitate colpe.

Ma oltre la pietà emerge anche un’esaltazione eroica dei personaggi, per cui, ambiguamente, alla colpa teologica si contrappone la speculare eroicizzazione del trasgressore e dell’infrazione.

Anzi, è possibile scorgere come nei canti V, X, XV, XXVI, la funzione esercitata dalla poesia assolva al compito di superare la colpa, di rimuoverla, andando oltre la prospettiva teologica (111).

Si viene così a creare un sistema binario, costituito da un apparato teologico, le cui norme possono essere assimilate alla sfera della coscienza ed una rappresentazione poetica onnipotente e libera, basata sulla trasgressiva libido, in grado  di rovesciare la colpa in virtù.

La poesia di Dante, come la filosofia e la trattatistica politica, racchiude in sé i germi di una contraddittoria rappresentazione della realtà: terrenità e trascendenza confliggono, inesorabilmente.

Tanto più la poesia può rappresentare (falsamente, come falso obiettivo è [112] ) un oggetto sacro, tanto più evidenzia una forza centrifuga e autonoma: tanto più il poeta rassicura che il suo viaggio provvidenziale mira all’esaltazione di Dio, tanto più è possibile scorgere una scelta al limite del sacrilegio, caratterizzata da un notevole superegotismo, dalla sovrapposizione dei ruoli di Dante, personaggio e poeta, filosofo e teologo, prescelto da Dio, circondato della superinfusa gratia (113), in grado di trasumanar, di vedere da vivo, in contrapposizione al divieto teologico, la divinità, infrangendo il divieto della corporeità, della forza gravitazionale e dell’ineffabilità di Dio.

La finzione poetica è lo strumento che consente all’autore, in una specie di dimensione onirica (114), di vedere Dio, in contrasto con l’ ortodossia cattolica, ed è anche il mezzo che permette, nei canti prima citati dell’Inferno, di trasformare empaticamente la colpa, squadernando agli occhi del lettore, la positività insita nella trasgressione compiuta.

Gli appelli lanciati da Dante, volti a tenere sotto freno gli eccessi o i desideri appaiono come un sottile discrimine tra la coscienza e gli impulsi inconsci che continuamente mettono in discussione, in tutto il poema, il senso del limite.

Si prenda ad esempio l’autocensura contenuta nel XXVI canto dell’Inferno:

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,/ e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,/ perché non corra che virtù nol guidi;/ sì che, se stella bona o miglior cosa/ m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’

invidi./ (115)

Inoltre, se il lettore presta un minimo di compiacenza al poeta, aderendo alla sua finzione creativa, l’appello al freno appare un puro escamatage, una graziosa trovata, all’interno di un’opera incentrata, sull’uso pagano della letteratura come raffinata mistificazione artistica (116).

La artisticità del poema, la sua struttura metaletteraria, infarcita di citazioni, fanno della Commedia un testo assolutamente in linea con la paganità (117), falsando irreparabilmente, la prospettiva religiosa, comunque inserita in un macrotesto, contraddistinto dal piacere estetico di una creazione ricca di stratificazioni e implicazioni polivalenti e spesso contraddittorie.

     La contraddittorietà dantesca non consiste in una possibile evoluzione da un sapere razionale – filosofico (i primi tre trattati del Convivio e la Monarchia) verso un approdo religioso (118), quanto piuttosto dalla diversità dei modelli antropologici e religiosi presi in esame.

Solo così si spiega, contro ogni principio cristiano, l’elogio di Catone (119), fonte di irradiazione delle virtù cardinali, o la decisione di inserire Sigieri (120), lo scomunicato Sigieri, il filosofo perseguitato e morto martire, vittima di quella prassi illiberale e criminale che fu l’ Inquisizione cattolica (121), nel Paradiso. Suona anche empio, definire l’imperatore come il Messia (122), ma Dante rilegge la storia in una prospettiva sovente antagonista della ufficialità della Chiesa, prendendosi gioco dei diktat, dei divieti e delle censure della ortodossia. In definitiva, la libertà del poema dantesco, sancisce la fine dell’unità cristiana, l’impossibilità di una teologia univoca, gettando le premesse per una concezione pluralistica e antidogmatica della religiosità, colpendo a morte la Chiesa, nella sua prerogativa, di dettare legge in materia di fede.

Alla luce delle considerazioni fin qui effettuate, è possibile leggere l’episodio di Ulisse, come il frutto di una visione e di una riscrittura laica ed autobiografica dell’eroe omerico.

Come Ulisse, anche il poeta è chiuso da una montagna, da un ostacolo, che solo la dimensione poetica gli consente di scalare, come l’Ulisse del mito, anche Dante, novello eroe (123) delle peripezie, ritornerà (a vedere le stelle) carico di gloria. L’onnipotenza del desiderio di conoscenza, debitamente purgata degli eccessi autoreferenziali del mondo pagano, nella condizione onirica del viaggio di Dante, trova nella dimensione del viaggio l’anello di congiunzione con l’eroe del mito.

La peccaminosità inclusa in questa concezione, trova nella morte del pagano, una salutare espiazione: la morte come finzione letteraria rimuove l’idea della morte (quella cristiana, dell’anima) dell’autore (124).

Il sacrificio (125), il non ritorno di Ulisse, consente il ritorno di Dante, salvandone anche l’ortodossia: il poeta, senza dolore, vede nella morte del re di Itaca, finire, fittiziamente il suo trasgressivo modello epistemologico.

Si può in buona sostanza concludere che, come in una tragedia greca, Ulisse racchiude in sé, dinamicamente, una duplicità di funzioni, che denotano la dialetticità dello statuto letterario: è eroe e trasgressore, anzi è eroe in quanto è trasgressore, oscillando dalla perfida astuzia della tradizione classica al disinteressato, antieconomico sacrificio di sé ( il folle volo ), impersonando un valore universale del sapere, alla cui attualizzazione e socializzazione, gli antesignani della cultura laica del Duecento, a partire da Federico II, fino alla filosofia della Facoltà delle Arti di Parigi e a Dante stesso, hanno dedicato le migliori energie, finendo spesso con l’essere perseguitati, nel loro slancio generoso, proprio come il protagonista del XXVI° canto dell’Inferno.

Scegliendo il greco Ulisse, Dante ha designato un prototipo ideale di cultura e di desiderio di sapere, di matrice laica e classica, ponendo le basi, anche se non mancano elementi di contraddittorietà, per la rinascita del pensiero razionale: l’Umanesimo è dietro la porta.

NOTE

 

 (1)          Inf. , XXVI, 55-63.

 (2)          Ivi, 85.

 (3)          Ad esempio, in, De monarchia, II, IV, viene esplicitamente chiarito che l’impero di Roma è frutto dei miracula voluti da Dio: « […] Romanum Imperium ad sui perfectionem miraculorum suffragio est adiutum; ergo a Deo volitum; et per consequens de iure fuit et est. » ( « L’impero romano nel realizzare la sua perfezione è stato soccorso dai miracoli; quindi fu voluto da Dio e, per conseguenza, fu ed è di diritto. ») I miracula indicati sono  tratti da fonti pagane: la discesa dal cielo di un ancile, all’epoca del regno di Numa, la leggenda dell’oca del Campidoglio che salva l’urbe dalla sicura vittoria dei Galli, la provvidenziale grandine che, durante le Guerre Puniche, impedì ad Annibale di avanzare sulla città sguarnita di difese, la miracolosa traversata a nuoto del  Tevere, compiuta da Clelia, sfuggita a Porsenna. Ma soprattutto, risulta decisivo che Cristo abbia voluto nascere cittadino romano, all’epoca in cui Erode, per ordine di Augusto censiva la popolazione (Mon. II, 10): « Sed Christus, ut scriba eius Lucas testatur, sub edicto romane auctoritatis nasci voluit de Virgine Matre, ut in illa singulari generis umani descriptione filius Dei, homo creatus, homo conscriberetur: quod fuit  illud prosequi. Et forte sanctius est arbitrari divinitus illud exivisse per Cesarem, ut qui tanta tempora fuerat expectatus in sotietate mortalium, cum mortalibus ipse se consignaret. Ergo Christus Augusti Romanorum auctoritate fungentis, edictum fore iustum opere persuasit. » ( « Ma Cristo, come testimonia il suo biografo Luca, volle nascere dalla Vergine Madre sotto un editto promulgato dall’autorità romana, per essere, Egli, figlio di Dio, fatto uomo, censito come uomo in quello straordinario censimento del genere umano: il che significò riconoscere  la validità dell’editto. E forse sarebbe più conveniente pensare che quell’editto fu emanato da Cesare per volontà divina, affinché Colui che per tanto tempo era stato atteso nella società degli uomini si censisse personalmente con gli uomini. Dunque Cristo dimostrò con i fatti che l’editto di Augusto, investito dell’autorità del popolo romano era giusto. » ) Naturalmente non occorre ricordare che nel VI del Paradiso, l’insegna dell’Impero romano, l’aquila, definita (4)  « l’uccel di Dio », appare come una diretta emanazione della volontà divina, insieme alla quale opera grandi imprese, già a partire dal viaggio di Enea.

 (4)          J. M. LOTMAN, Il viaggio di Ulisse nella Divina Commedia di Dante, in , Testo e contesto, semiotica dell’arte  e della cultura, Bari 1982, pp. 96-7.

 (5)          Cfr. A. PAGLIARO, Ulisse. Ricerche semantiche sulla divina commedia, Firenze – Messina 1966, pp. 374 sgg. A giudizio del Buti: « le pene che si convengono a sì fatto peccato sono di scorrimento, fiamme di fuoco, appiattimento nelle fiamme; e queste pene convenientemente, secondo la lettera, finge l’autore essere all’infernali: imperò che degna cosa è che chi è stato turbatore della pace e riposo altrui, non abbia riposo e che sempre discorra; e chi è stato privato della carità del prossimo et à avuto lo ingegno ardente a nuocere, sostenga incendio ed arsione; e chi ha operato tale inganno in occulto,sia occulto nel fuoco. Et allegoricamente si trovano queste cose in quelli del mondo, che sempre lo ingegno sta occupato nelli inganni e rei pensieri, e sempre ardono li loro animi di  mal desiderio,che lo inganno venga fatto, e mai no si posano perché sempre pensano tale inganno ». A giudizio del Landino:

                « Finge il poeta, non senza somma prudentia, che i fraudolenti siano puniti nel fuoco, et se intendiamo del fuoco, che è nell’Inferno essenziale, sarà conveniente pena, che chi ha con fraude acceso altri, egli similmente arda, ma allegoricamente diremo, che tal fraude sia fuoco, perché ha forza di accendere dissensioni, discordie et guerre… Oltra di ciò, è fuoco, perché nasce da acuto ingegno, et l’acuto ingegno nasce di coloro di sangue, onde per l’opposito, il sangue freddo produce tardità d’ingegno…Vedesi la fiamma, et non il peccatore, perché il parlare del fraudolente è manifesto, ma la fraude sua è nascosa, et celata. »

                Il Benvenuto pone una relazione tra calidus e callidus  (p. 380):

                « Ingenium provenit a caliditate; unde homines calidi sunt magis ingeniosi…; unde caliditas idem est quod astutia.

                Nei glossari medievali p. 380 c’è sostanziale equivalenza di calidus e callidus» . CGL V, 13, 3 (Placidus libri

                 glossarum ): «calidus homo interdum fervens interdum fortis intelligitur »

                Nell’Eneide,  è rappresentata come colpa l’asportazione del Palladio  (Aen. II, 163 sgg.), impresa nella quale sono accostati Diomede ed Ulisse.

 

 (6)          Il Medioevo, almeno in Occidente, non conosce i poemi omerici: Boccaccio si vanta, nel 1362, di essere il primo dei Latini ad avere letto, nella traduzione di Leonzio Pilato, i due testi epici. Cfr. A. PETRUSI, Leonzio Pilato fra Petrarca e Boccaccio, Venezia- Roma 1964.

 (7)          A partire dall’Ecuba ( 425 a. C. ), Odisseo diventa personaggio spregevole, un simulatore e dissimulatore, perfetto emblema del demagogo. Cfr. V. DI BENEDETTO, Euripide: teatro e società, Torino, II ed. , 1992, pp. 141 sgg. Occorre ricordare che Euripide, dopo la morte di Pericle, di fronte all’affermarsi di quel fenomeno impropriamente definitio democrazia radicale ( la democrazia ateniese è radicale di per sé, per lo meno  a partire dall’ epoca delle riforme di Efialte e dello stesso Pericle ) assume un atteggiamento sempre più ostile alla democrazia e sempre più filooligarchico, in perfetta corrispondenza con le posizioni di Socrate: prende piede il disegno anticonformista del teatro euripideo di rappresentare una società senza eroi. Anche Gorgia, nella Difesa di Palamede, dipinge negativamente l’eroe omerico, mentre Sofocle, che ancora nell’Aiace aveva rappresentato Odisseo come emblema di filantropica pietà, sotto l’influsso euripideo, nel Filottete, tratteggia il ritratto di un eroe cinico e senza scrupoli, un imbroglione incallito, disposto a tutto pur di raggiungere il potere.

 (8)          Troades, 750-2: « O  machinator fraudis et scelerum  artifex, virtute cuius bellica  nemo occidit. » Nella tragedia senecana, Ulisse svolge l’odioso e spietato ruolo dell’implacabile giustiziere che, ricorrendo ad una ferrea astuzia, intende costringere Andromaca a rivelare il nascondiglio del figliolo Astianatte, che sarà cinicamente ucciso, gettato da una rupe. Quanto alla virtù bellica di Ulisse, va ricordato che l’eroe anche se è rappresentato, nell’Iliade, spesso come polymechanos, cioè ingegnoso ( ma il termine indica anche una sfumatura negativa, tessitore di astuzie, inganni ), almeno nel X libro, insieme a Diomede, compie un’azione eroica, infiltrandosi nell’accampamento troiano.

 (9)          M. HORKHEIMER, TH. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. ,  Torino 1966.   In particolare, p. 54 e pp. 70-1,  in cui si parla di Odisseo.

 (10)        Cfr. R. IMBACH, Dante, la philosophie et les laics, Fribourg 1996, trad. It. , Dante, la filosofia e i laici, Genova- Milano, 2003, p. 199. Invece, M. CORTI, La « favola » di Ulisse: invenzione dantesca?, in, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino 2003, pp. 255-83, ritiene, sulla base di un passo di Seneca (Ep. , XIII, 88, 7), dove si allude alla possibilità di uno sconfinamento dell’eroe oltre le colonne d’Ercole, e tenuto conto dell’opinione di Strabone (Geographica, III, 4, 4), autore comunque non letto da Dante, sulla fondazione in Spagna, superato lo stretto di Gibilterra, della città di Odissea, dubbia l’originalità del viaggio oltre confine dell’Ulisse dantesco. Naturalmente l’originalità dell’episodio consiste nell’avere immaginato la ripresa del mare dopo il ritorno ad Itaca, andando al di là di ogni limite, coscientemente, in conformità ad un principio etico- filosofico.

 (11)        Cfr. A. PAGLIARO, op. cit. , p. 403. Ulisse è il « simbolo della mente umana tesa alla ricognizione dell’universo […] è come una vetta, che emerge nella catena di un alto pensiero poetico. Lo ha elevato a tale culmine, attraverso la « orazion picciola », la fede del poeta nella scienza, sì che l’eroe omerico « dalle molte risorse » diventa il simbolo dell’intelligenza pura, che tende al conoscere con tutto il suo potere. L’Ulisse dantesco è l’immagine, a livello epico, dell’amore per il sapere ».

 (12)        In  Seneca (Ep. VII,  66, 26), l’eroe è associato ad Agamennone come esempio di fervido amore di patria: «Ulisse si affretta verso le rupi  della sua Itaca come Agamennone alle famose mura di Micene; nessuno ama la patria perché è grande ma perché è sua. »

 (13)        De officiis, I, XXXI, 113.

 (14)        De finibus bonorum et malorum, V, 49.

 (15)        Ep. IV, 31, 2, l’invito è rivolto a Lucilio: «Insomma, sarai saggio se ti tapperai le orecchie; ma chiuderle con la cera è poco: occorre un mezzo di chiusura più robusto di quello che, come si racconta, Ulisse adoperò per i suoi compagni. La voce che essi temevano era seducente, ma isolata: quella che noi dobbiamo temere, invece, risuona non da un solo scoglio, ma da ogni parte della terra.»

 (16)        A giudizio di Onorio di Autun, Speculum Ecllesiae, (PL 172, 85) le Sirene rappresentano superbia, avarizia, lussuria. M. CORTI, La « favola » di Ulisse: invenzione dantesca?, in, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino 2003, p. 276, sulla scorta della allegoria proposta da Onorio, ritiene che anche Dante, all’inizio del suo viaggio, incontra le sue Sirene.

 (17)        Epistola XVI, 7, Sancti Pontii Meropii Pauli Volani Epistulae, recensuit G. DE HARTEL, Wien 1894.

 (18)        In Lucam, IV, 2.

 (19)        Cfr. R. IMBACH, Dante, la philosofia …, cit. , pp. 195-6.

 (20)        G. LE BON, Psychologie des foules ( Paris 1895), trad. It., a cura di G. VILLA, La psicologia delle folle, (Milano 1970 ), p. 57 parla di suggestione delle masse e p. 59 sostiene: « Annullamento della personalità cosciente, predominio della personalità inconscia, orientamento, dalla suggestione e dal contagio, dei sentimenti e delle idee in unico senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite, tali sono i principali caratteri dell’individuo in massa. Egli non è più se stesso ma un automa, incapace di essere guidato dalla propria volontà ».

 

 (21)        S. FREUD, La psicologia delle masse e analisi dell’Io ( 1921 ), trad. It. , Torino 1971, p. 73: « la massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile. Pensa per immagini, che si richiamano vicendevolmente per associazione come, nel singolo, si adeguano le une alle altre negli stati di libera fantasticheria, e che non vengono valutate da alcuna istanza ragionevole circa il loro accordo con la realtà. I sentimenti della massa sono sempre semplicissimi ed esagerati. La massa non conosce quindi né dubbi né incertezze ».

 (22)        Cfr. B. NARDI, La tragedia d’Ulisse, in, Dante e la cultura medievale, Bari 1985, I ed. , 1942, pp. 131-2. Ulisse è preso dallo stesso orgoglio che spinse Adamo ed Eva a gustare il frutto della scienza del bene e del male: il folle volo, ripropone il peccato originale. Lo studioso aggiunge che, come il Prometeo di Eschilo, anche l’Ulisse dantesco è condannato per la sua infrazione. Due precisazioni: I), il Prometeo di Eschilo secondo l’opinione di K. MARX, Democrito ed Epicuro, Firenze 1979, pp. 9-10, è paradigma del materialismo filosofico, è un martire che lotta

                 « contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana […] Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico ». Inoltre, il filantropico dio greco non è punito nella tragedia di Eschilo, dato che, nell’ultimo anello della trilogia, nel Prometeo portatore del fuoco, lo sfortunato protagonista riusciva a liberarsi del tirannico giogo imposto da Zeus. II), se è vero, come sostiene, K KERÉNYI, Miti e misteri, trad. It. , 1979, che Prometeo è il mitologema dell’umanità, simbolo della debolezza dell’uomo, costretto a rubare il fuoco alla divinità invidiosa, allora, forse, si può asserire, che il peccato originale deve alludere ad un parricidio. Cfr. S. FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), in, Il disagio della civiltà e altri saggi, trad. It. , Torino 1971, p. 54: « Se il figlio di Dio ha dovuto offrire in sacrificio la propria vita per liberare l’umanità dal peccato originale, questo peccato, secondo la legge del taglione, e cioè dell’espiazione mediante una pena uguale alla colpa, deve essere stato un’uccisione, un delitto di morte. E se il peccato originale fu una colpa contro Dio padre, il più antico delitto dell’umanità deve essere stato un parricidio, l’uccisione di quel padre primigenio della primitiva orda umana la cui immagine mistica è stata successivamente trasfigurata in Divinità ».

 (23)        M. FUBINI, Il canto XXVI dell’Inferno, in, G. GETTO, [ a cura di ] Letture dantesche, Firenze 1962, pp. 494-513. Il Fubini nota il segno della grandezza, ma anche il senso del limite, nell’impresa di Ulisse, che, pur non avendo in sé nulla di peccaminoso, dimostra l’insufficienza e i limiti della ragione umana. Dante riesce nel suo viaggio, perché è guidato ed assistito dalla Grazia. Anche per M. PORENA, Inferno XXVI, in, La mia lettura Dantis, Napoli 1932, pp. 108-112, il folle volo connota, post factum, un evento eroico ma sfortunato nel suo esito. Ulisse non è pazzo colpevole, anzi, tutto il racconto trabocca della simpatia del poeta per l’eroe. Anche F. DE SANCTIS, La «Commedia», in, Storia della letteratura italiana, Milano- Napoli, 1961,  pp. 191-2, aveva ritenuto che Dante simpatizzi per Ulisse:

                « Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di Dio, « come a lui piacque ». Pure un po’ dell’audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell’ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Se la logica ghibellina pone  in inferno l’autore dell’agguato contro Troia, radice dell’impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi. […] Ulisse è il grande uomo solitario di Malebolge. »

 (24)        M. CORTI, Tre versioni dell’aristotelismo radicale nella Commedia, in, Scritti su cavalcanti e Dante, cit. , p. 340, fa osservare che il naufragio è una metafora letteraria frequente nella cultura medievale, per indicare l’allontanamento dalla fede.

 (25)        Su Ulisse personaggio negativo, emblema di una distorta e viziosa sete di sapere si sono espressi: R. MONTANO, I modi della narrazione in Dante, in, « Convivium » 1956; U. BOSCO, Né dolcezza di figlio …. , in, «Studi medievali e volgari », 1957; E. SANGUINETI, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961.

 (26)        Cfr. F. DE SANCTIS, op. cit. , p. 146-7 : « Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl’idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne,  e poeta e mentitore, come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi eran chiamati come dice san Girolamo, cibo del diavolo. La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l’allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale potè apparire fra gli uomini […]. Dante definisce la poesia « banditrice del vero », sotto « il velame della favola ascoso », di modo che il lettore «sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti ». La poesia è in sé « una bella menzogna », che non ha alcun valore, se non come figura del vero. »

 (27)        Partendo dal  già citato saggio di J. M. LOTMAN, Il viaggio di Ulisse … ,  M. CORTI, La « favola » … , cit. , pp. 277-8, sottolinea la diversità di Ulisse, doppio di Dante: il cristiano effettua un viaggio dall’inferno  in su, il pagano significativamente naufraga. Per la studiosa, i riferimenti ad analogie tra le due esperienze mirano ad indicare al lettore l’estraneità di Dante al progetto di Ulisse, che incarnerebbe l’aristotelismo radicale.

 (28)        Cfr. Y. CONGAR O. P. , , Clercs et laϊcs au point de vue de la culture au Moyen Ầge: ‘Laϊcus’ = sans lettres, in Studia mediaevalia et mariologica P. C. Balić dicata, Roma 1971, pp. 309-332. 

 (29)        Cfr. R. IMBACH, op. cit. , p. 131: « Il chierico del Medioevo è colui che sa, insegna o semplicemente detiene il sapere. Nell’universo medievale, è frequente, se non naturale, identificare il clericus con il litteratus, ossia l’uomo colto e dotto. Il “laico incolto”, laϊcus illitteratus, è contrapposto al chierico letterato. Nonostante le trasformazioni semantiche subite nei secoli dai termini, non è fuori luogo sostenere che, rispetto al sapere la società medievale era sotto monopolio clericale. Non sorprende, quindi, che tale posizione egemonica abbia incoraggiato la  presunzione dei chierici nel ritenersi depositari del sapere. »

 (30)        Decreto di Graziano ( causa XIII, Q. 1, C. 7, ed. Friedberg I, 678 ).

 (31)        De eruditione praedicatorum, II, tr. 1, c. 71, in, Max. Bibl. Patrum, vol. XXV, Lyon 1677, 491.

 (32)        De ecclesiastica potestate, II, c. 2, ed. R. SCHOLZ, Weimar 1929, p. 44.

 (33)        Cfr. R. IMBACH, op. cit. , p. 25. Interessanti le annotazioni puntuali dell’Imbach su chierici e laici ( pp. 16 sgg.).

 (34)        Cfr. G. MICCOLI, I monaci, pp. 41- 80, in J LE GOFF, ( a cura di ), L’uomo medievale, X ed.  Roma- Bari 1997, p. 59.

 (35)        PL, 139, c. 463.

 (36)        Cfr. G. MICCOLI, op. cit. , p. 60.

 (37)        Cfr. M. FUMAGALLI BEONIO  BROCCHIERI, L’intellettuale, in, L’uomo medievale, cit. , p. 205. La studiosa sottolinea che, nonostante il tentativo di laicizzazione della figura dell’intellettuale « i chierici emergono come un gruppo ben individuabile e una forza che nella società di quei secoli guidava sia la organizzazione sia  il dissenso. »

 (38)        Contra Occam, ed. R. SCHOLZ, Roma 1914, vol. II, 367.

 (39)        Cfr. R. IMBACH, op. cit. , p. 25.

 (40)        Cfr. M. GRABAMANN, I divieti ecclesiastici di Aristotele sotto Innocenzo III e Gregorio IX, Roma 1941, p. 72.

 (41)        Inf. , XV, 106-8.

 (42)        Dialogus Ia, 1 VI, C. 100, in GOLDAST, Monarchia S. Romani Imperii, Frankfurt a. M 1614, p. 502.

 

 (43)        Didascalicon, (I, c. 5).

 (44)        Ivi, ( IV, c. 1).

 (45)        Collationes in Hexaёmeron, II, n° 7.

 (46)        Le due citazioni sono tratte da R. IMBACH, op. cit. , p. 37.

 (47)        Averroè propone la massima libertà di pensiero, postulando una ricerca filosofica libera. Il punto essenziale è, come si vedrà, la teoria dell’intelletto possibile, che per gli averroisti ( Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia ), di fatto, è sganciato dall’anima sensitiva. Ne deriva che l’intelletto assume le forme di una vera e propria divinità, in quanto è immortale, collettivo e non individuale e si arricchisce del positivo accumularsi, generazione dopo generazione, dei saperi che l’umanità mette in comune e socializza. Gli averroisti arrivano a postulare il concetto della doppia verità: la ricerca filosofica può arrivare a conclusioni opposte a quelle religiose, accettate comunque come dottrine di fede. Prende corpo un processo di laicizzazione del sapere, basato sul dubbio che, nella sostanza, scredita le verità di fede. Le teorie espresse da Sigieri nel De anima (opera perduta) furono subito ribattute da Tommaso nel De  unitate intellectus: da questo momento, inizia la persecuzione di Sigieri, che, pur avendo abiurato, viene sospeso dalla cattedra universitaria della Facoltà delle Arti di Parigi (una facoltà ostile e indipendente dalla Facoltà di teologia) e poi, viene preso di mira nel 1277 dal vescovo Tempier ( Cfr. R. HISSETTE, En quête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, in, Philosophes Médiévaux, XXII, 1977 ) che condanna soprattutto la teoria dell’intelletto possibile, considerato dal filosofo come una sostanza separata dal corpo, come il nocchiero è separato dalla nave. Recita l’articolo 7 condannato: « quod intellectus non est forma corporis, nisi sicut nauta navis, nec est perfectio hominis».

                Sull’astinenza, anche Tommaso viene condannato: Aristotele, Eth. Nicom. ,  1104 a 15-26, aveva sostenuto il giusto mezzo a proposito dei piaceri naturali e tra essi di quelli sessuali: è intemperante chi non ne sa fare a meno e vive la sua vita nel piacere, ma è anche  villico chi da tutti rifugge. Anche Tommaso si accoda ad Aristotele condannando la perpetua verginità ( Summa Theol. , IIª secundae, q. 152, a. 2, arg. 2 ):

                «omne  id quod recedit a medio virtutis, videtur esse vitiosum. Sed verginitas recedit a medio virtutis, ab omnibus  delectationibus  venereis abstinens: dicit enim Philosophus, in II Ethicorum, quod ‘qui omni voluptate potitur, neque ab una recedit, intemperatus est; qui autem omnes fugit, agrestis est insensibilis’»

                Questa tesi fu condannata ( Cfr. Chartularium Universiitatis Parisiensis, t. I, p. 553.):

                « quod continentia non est essentialiter virtus ( 168). Quod perfecta abstinentia ab actu carnis corrumpit virtutem et speciem ( 169 ). Quod castitas non est maius bonum, quam perfecta abstinentia ( 181 ). Quod simplex fornicatio, utpote soluti cum soluta, non est peccatum ( 183 ) ». Sigieri sarà perseguitato, arrestato, tenuto sotto stretta osservanza ed infine sarà ucciso ad Orvieto nel 1283, in circostanze sospette.

 

 (48)        Tresor, I, 1, 6.

 (49)        Ivi, I, 2.

 (50)        M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, I ed. 1854-72, vol. III, parte seconda, Firenze 2003, 463-4.

 

 (51)        Cfr. M. CORTI, Parigi e Bologna: novità filosofiche e linguistiche, in Scritti su Cavalcanti e Dante, cit. , p. 323. Gli influssi arabi a Bologna sono chiaramente rintracciabili a partire dalla metà del Duecento: si glossano Aristotele, testi greci e arabi, si costituisce una Facoltà di Medicina e arti dove si insegnano filosofia naturale e logica. La studiosa sostiene che, per il tramite di Guido Cavalcanti, molto legato all’ambiente bolognese, Dante viene a conoscenza delle tesi dell’aristotelismo radicale.

 (52)        Cfr. J. L. A. HUILLARD- BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secondi, Parisii 1852, IV ( 1 ) pp. 384-5:

                « Scientiarum generosa possessio in plures dispersa non deperit, et distribuita per partes minorationis detrimenta non sentit, sede o diuturnius perpetuata senescit, quo pubblicata  fecundius se diffundit: huiusmodi celare laboris emolumenta nolumus, nec estimavimus nos eadem retinere iucundum, nisi tanti boni  nobiscum alios participes faceremus. »

 

 (53)        Cfr. A. VALLONE, La componente federiciana della cultura dantesca, in AA. VV., Dante e Roma, atti del convegno di studi svoltosi a Roma, nell’aprile del 1965, Firenze 1965, pp.  347- 69, in particolare p. 354.

 (54)        Cfr.  M. G. H. , Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, Hannoverae 1896, II, pp. 292-3: « veram matrem nostram ecclesiam ex agnitione catholice fidei reperisse cognoscimus, set patrem semper invenimus simulatum […] Adhuc tamen conscientie nostre fidelis integritas et pura devocio, quam ad matrem nostram ecclesiam habebamus, novercalia deliramenta patris agnoscere filium non sinebant »

 

 (55)        Cfr. R. IMBACH,  op. cit. , p. 113: Federico non è un filosofo, ma un laico che si interessa di filosofia: «Tuttavia, ed è questo il punto fondamentale, egli non si è accontentato di raccogliere un sapere, ma ha recepito le lezioni dei saggi con grande autonomia intellettuale, ponendo a sua volta questioni alla maniera dei filosofi. Inoltre egli ha elaborato criticamente il modo d’interrogare, sottoponendo il sapere tramandato ad un contro-esame e mettendolo così alla prova dell’esperienza.»

 

 (56)        Cfr. CH. H. HASKINS, The De arte venandi cum avibus of Frederick II, in, Studies  in the History of Medieval Science, New York 1960, pp. 300-60 ( il testo si trova alle pagine pp. 312-3 ) p. 313.

 

 (57)        Il manoscritto è segnato con la dicitura  Hunt. 534.

 (58)        La lettera di Manfredi si trova in, . R. A. GAUTHIER, Notes sur  les débuts (1225-40) du primier

                ” averroϊsme”, in, Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques, 66 ( 1982) pp. 321-74; p. 323.

 

 (59)        Cfr. A. VALLONE, La componente federiciana … , cit. , p. 360.

 (60)        Cfr. B. NARDI- P. MAZZANTINI, Il canto di Manfredi e il Liber de pomo sive de morte Aristotilis, Torino 1964, p.  37: « Cum homo creaturarum degnissima sit omnium ad imaginem Dei natus, et nobile propter ignobile sit creatum, sicut nichil in eo fieri nobilius estimatur quam se suuumque creatorem cognoscere. »

 

 

 (61)        ibidem, « et plures sapientes sunt qui moltiplicati sunt in scientiis et intelligentiis et didicerunt doctrinas et cognoverunt creatorem suum […] Homo non potest comprehendere scientias nobiles nisi per gradus  anime […] Utilitas hominis in vita  est ut  ascendat in altissimos  gradus et apprehendat scientias et intendat viis philosophie, quia per ipsam cognoscet creatorem suum. »

 

 (62)        Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, quaderno V, IX, Torino 1975, p. 650: « In Sicilia la borghesia mercantile si sviluppò sotto l’involucro monarchico e con Federico II si trovò coinvolta nella questione del Sacro romano impero della Nazione germanica: Federico era un monarca assoluto in Sicilia e nel Mezzogiorno, ma era anche l’Imperatore medievale. Paradossi della storia. »  Poi, ancora, in , Quaderno VI, VIII, p. 729: « Fu Federico II ancora legato al Medio Evo? Certamente, ma è anche vero che se ne staccava: la sua lotta contro la Chiesa, la sua tolleranza religiosa, l’essersi servito di tre civiltà: ebraica, latina, araba, e aver cercato di amalgamarle lo pone fuori dal Medio Evo. Era un uomo del suo tempo, ma egli davvero poteva fondare una società laica e nazionale e fu più italiano che tedesco, ecc. »

 (63)        A. VALLONE, art. cit. , p. 348.

 (64)        Ivi, p. 351.

 (65)        De vulgari eloquentia, I, XII, 4.

 (66)        Ibidem.

 (67)        Si veda ad esempio, il saggio Il tomismo di Dante e il p. Busnelli, in,  B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, I ed. 1930, pp. 341- 80. Il Nardi ha condotto una battaglia incessante contro l’interpretazione tomista del fiorentino formulata dal gesuita padre Busnelli, che si è spesso occupato di Dante, sia attraverso le pagine della Civiltà Cattolica sia attraverso saggi e commenti (in particolare, il Nardi censura il Commento al Convivio). Merito del Nardi è quello di avere riscontrato la presenza dell’averroismo, cioè un’ « esegesi non curante di concordismi teologici, autonoma anche rispetto agli insegnamenti della fede, appunto perché commento di un filosofo pagano, anzi del

                « filosofo » per eccellenza come insegnava Averroè. » ( Cfr. T. GREGORY, Introduzione a, B. NARDI, Dante e la cultura medievale, Bari 1985, I ed. 1942, p. XII). A giudizio di R. IMBACH, op. cit. p. 142: « […] i cento canti della Commedia sono una summa filosofica e teologica, scritta da un laico e per i laici, per il bene di un mondo che vive male, nella speranza che gli uomini, la Chiesa e la società stessa ne possano trarre giovamento. Nel ruolo che tradizionalmente ricopriva, il laico si limitava all’ascolto. Con la Commedia, ecco un laico che non soltanto prende la parola, ma arriva a pretendere una riforma radicale della Chiesa e della società, avventurandosi così, secondo le sue parole, in un « oceano nel quale già mai non si corse » . Anche A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, quaderno V, IX, Torino 1975, pp. 614-15, intravede in Dante un sostenitore del laicismo, un anticipatore del Machiavelli, in contrapposizione alla corrente filo cattolica: « L’altra corrente ha il coronamento in Machiavelli e nell’impostazione del  problema della Chiesa come problema nazionale negativo. A questa corrente appartiene Dante, che è avversario dell’anarchia comunale e feudale ma ne cerca una soluzione semimedievale; in ogni caso pone il problema della Chiesa come problema internazionale e rileva la necessità di limitarne il potere e l’attività. Questa corrente è ghibellina in senso largo. Dante è veramente una transizione: c’è affermazione di laicismo ma ancora col linguaggio medievale. » Le affermazioni sul laicismo di Dante, sono tanto più rimarchevoli, se si considera che Gramsci, prigioniero nelle carceri fasciste, mostra di avere letto i saggi di padre Busnelli apparsi sulla Civiltà cattolica, senza conoscere gli studi di Bruno Nardi. Nel Quaderno XXIX, XXI, p. 2350, Gramsci valuta positivamente il De vulgari eloquentia, opera che apre la strada, innovativamente, ad una lingua nazional-popolare. Le annotazioni più interessanti su Dante si trovano nel Quaderno IV, XIII, pp. 516- 26, dove l’intellettuale sardo dimostra, a proposito del canto di Farinata, l’arbitrarietà della distinzione crociana tra poesia e struttura.

 

 (68)        Cfr. M. CORTI, « Campi di tensioni » e « campi semantici mobili » nella cultura del Duecento, in, Scritti su Cavalcanti e Dante, cit. , pp. 61-82.

 (69)        I. VAN STEENBERGHEN, La  philosophie au XIII siécle, in, Philosophes Médiévaux, IX ( 1966), p. 287.

 (70)        Conv. IV, VI, 15.

 (71)        Ivi, IV, VI, 16.

 (72)        Nel De anima ( III, comm. 6), il filosofo arabo sostiene che l’intelletto possibile è ingenerabile ed incorruttibile e quindi è separato dal corpo. Questa tesi sconfina nell’epicureismo, cioè nella dottrina che postulava la morte dell’anima assieme al corpo, in quanto l’anima sensitiva, inferiore e materiale, morirebbe col corpo, mentre l’anima possibile, l’intelletto non muore e resta eterno

                (Cfr. B. NARDI, L’averroismo del « primo amico » di Dante, in, Id. , Dante e la cultura medievale, cit. , pp. 106-7). Il Nardi (p. 86), così definisce la teoria di Averroè: « l’intelletto possibile è per Averroè una sostanza separata ed immortale, unica per tutta la specie umana, la quale si unisce ai singoli individui per mezzo delle immagini sensibili o fantasmi dai quali l’intelletto agente  astrae la pura idea intelligibile. »

 

 (73)        Sigieri, in, Quaestiones super III de anima, ritiene che l’intelletto abbia una sua propria essentia, infinita, indipendente dal corpo, estranea alla caducità della vita organica.

 (74)        Contra gentiles (III, 25, 37-9, 48-50).

 (75)        Summa teologica, I- II, 3, 8.

 (76)        B. NARDI, Filosofia dell’amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante, in, Id. , Dante e la cultura medievale, cit. , p. 55.

 (77)        Cfr. R. IMBACH, op, cit. , pp. 165-6.

 (78)        Per il filosofo greco, l’uomo assomiglia alla mente divina, alla quale  strettamente congiunto, ( Eth. Nicom. , 1177 a 12-27; 1177 b, 30; 1178 b 25-32;). Nella  Metafisica, la filosofia è la scienza più « divina e veneranda» e il filosofo è un dio ( 983 a 5 sgg.).

 (79)        Conv. III, XV, 8-10.

 (80)        Ivi, I, I , 7-9.

 (81)        Ivi, II, VII, 3-5.

 (82)        Ivi, II, XIV, 18- sgg.

 (83)        Ivi,III, II, 14-15.

 (84)        Ivi, III, VII, 5-7.

 (85)        De summo bono ( 376, 184-5; 377, 212-15).

 (86)        Cfr. M. CORTI, « Campi di tensioni» … , cit. , pp. 81-2. Nel IV trattato, ad Aristotele si aggiunge l’autorità del Vangelo (IV, XVII, 9), per cui Dante separa la felicità terrena da quella ultraterrena, facendo più ricorso a citazioni tratte dalle Sacre scritture (ma il filosofo pagano resta sempre l’autore più menzionato). Nel saggio, Distanza testuale e cronologica del trattato IV, op. cit. , pp. 145-66, si mette in rilievo uno spostamento coassiale, radicale sul piano tematico, ideologico e formale: sembra essere messo in discussione l’amore per la filosofia. Ma, proprio all’inizio del IV trattato Dante sostiene il contrario, specificando che la donna amata, luce virtuosissima è la Filosofia ( IV, I , 11).

 (87)        B. NARDI, Nel mondo di Dante, Roma 1944, p. 237.

 (88)        Conv. IV, VII, 11-12; IV, VII, 15. il riferimento ad Aristotele è tratto dal De anima ( I, II, 4, 7).

 (89)        Eth. Nicom. , I, 7,1.

 (90)        Conv. IV, XX, 4.

 (91)        Ivi, IV, XXII, 12.

 (92)        Ivi, IV, XXI, 10.

 (93)        Ivi, IV, V 9.

 (94)        Ivi, IV, XXII, 14-15).

 (95)        A giudizio di M. CORTI, Distanza testuale … , cit. p. 150, Dante prende le distanze dalla filosofia per ricoverarsi sotto l’ombrello della teologia.

 (96)        B. NARDI, La conoscenza umana, in, Dante e la cultura medievale, cit. , pp. 135-72, particolarmente, pp. 163-4. Lo studioso ha anche osservato che in Conv. IV, XXII, 10- 18, Dante contraddicendosi dichiara che la vita contemplativa consente una « quasi perfezione », laddove il quasi sminuisce il senso della perfezione: resta comunque il fatto che il pensiero del fiorentino liberamente e laicamente oscilla tra razionalismo pagano, averroismo, aristotelismo radicale ed in misura minore, tomismo.

 (97)        B. NARDI, Nel mondo di Dante, cit. , p. 230: « Quello che più importa, nell’atteggiamento di Dante, è d’altra parte il fatto d’aver capito, con una profondità di pensiero della quale bisogna lodarlo, che non è possibile sottrarre totalmente il temporale alla giurisdizione dello spirituale, a meno di sottrarre totalmente la filosofia alla giurisdizione della teologia. E’ per aver visto ciò in modo chiaro e per averlo espresso in modo netto, che Dante occupa un posto cardinale nella storia della filosofia politica del medio evo. Poiché insomma, se la ragione filosofica sulla quale si regola l’imperatore restasse anche minimamente soggetta all’autorità dei teologi, il papa riprenderebbe per mezzo di questi quell’autorità sull’imperatore che si voleva togliergli. Comandando alla ragione comanderebbe  per ciò stesso alla volontà che dalla ragione è guidata. Così, la separazione della Chiesa e dell’Impero presuppone necessariamente la separazione della teologia e della filosofia, e questa è la ragione perché Dante, come aveva rotto in due pezzi l’unità del cristianesimo medievale, così spacca per metà la sapienza cristiana, principio unificatore e vincolo del cristianesimo. Sull’uno e sull’altro di questi punti vitali, questo preteso tomista ha ferito a morte la dottrina di S. Tommaso

                d’Aquino. » ( Il corsivo è del Nardi ).

 (98)        Mon. I, III, 1-2.

 (99)        Eth. Nicom. 1094 b 7-10.

 (100)      Cfr. B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, cit. , p. 232. Meno convincente è la sottile distinzione operata dallo studioso circa la superiorità, da considerarsi quantitativa e non qualitativa, della società sull’individuo: ma, una volta stabilito che il finis sociale è quantitativamente più rilevante di quello individuale, non deriva forse che il fine della società è di per sé preferibile e migliore di quello individuale? Una volta acclarato questo principio, ne deriva, come espressamente dichiara Dante, una subordinazione, come dato ontologico, del singolo alla collettività.

 (101)      De civ. Dei, I, 15.

 (102)      Summa. I, q. 96, a a. 3,4.

 (103)      Mon. III, XV, 8.

 (104)      Tra le 219 proposizioni condannate il 7 marzo 1277 dal vescovo di Parigi, Tempier, la 172 è la seguente: « Quod felicitas habetur in ista vita et non in alia  ». Cfr. M. CORTI, «Campi di tensioni» …, cit. p.  79. le tesi degli averroisti sono considerate epicuree, in quanto postulano la felicità terrena e separano l’anima sensitiva dall’anima dell’intelletto possibile ( Cfr. M. CORTI, Tre versioni dell’aristotelismo radicale nella Commedia, in, Scritti su Cavalcanti e Dante, cit. , p. 331).

 (105)      Epistole, XI, 7.

 (106)      Ivi, XI, 9.

 (107)      Cfr. R. MANSELLI, Dante e l’«ecclesia spiritualis», in, Dante e Roma, cit. , pp. 115-35.

 (108)      P. BREZZI, Dante e la Chiesa del suo tempo, in, Dante e Roma, cit. , pp. 97-113.

 (109)      La Chiesa è definita usurpatrice dall’apostolo Pietro ( Paradiso, XXVII, 22-26), mentre i suoi successori sono definiti ( XXVII, 55) « in vesta di pastor lupi rapaci ». Anche in Purg. XVI ( 96-105) non mancano le invettive contro la Chiesa: Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?/ Nullo, però che ‘l pastore che procede,/ rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;/ per che la gente, che sua guida vede/ pur a quel ben fedire ond’ella  è ghiotta,/ di quel si  pasce e più oltre non chiede./  Ben puoi veder che la mal condotta/ è la cagion che ‘l mondo ha fatto reo,/ e non natura che ‘n voi sia corrotta./  Oltre ai papi simoniaci vi sono anche i papi avari ma collocati nel Purgatorio ( Adriano V), inoltre nel Paradiso IX, 139-42, Falchetto di Marsiglia accusa l’avidità della Chiesa:

                l’Evangelio e i Dottor magni/ son derelitti, e solo ai Decretali/ si studia, sì che par ai loro vivagni.

                In Par. XIII,  88-96, si accusa l’abitudine di rivolgersi al papa per ottenere privilegi e benefici, dimenticando che le decime « sunt pauperum Dei». Alcuni simboli riprovevoli tratti all’Apocalisse descrivono la Chiesa come una meretrice pp. 116-7: ad esempio in Inferno XIX, 106- 111: [] il Vangelista,/ quando colei che siede sovra l’acque/ puttaneggiar co’ regi a lui fu vista;/ quella che con le sette teste nacque,/ e dalle diece corna ebbe argomento/ finché virtude al suo marito piacque./

                Nel XXVIII dell’Inferno, Dante  rievoca la triste impresa di Bonifacio che, per odio ai Colonnesi, non esitò a distruggere Palestrina in una guerra , vv.  87-8:

                non con Saraceni né con Giudei,/ ché ciascuno suo nimico era Cristiano./ Infine, in Par. XVII, 51, la casa di Dio è il luogo dove Cristo tutto dì si merca.

 

 

 (110)      Ad esempio, Aristotele, precisato che la tragedia greca si basa su due elementi fondamentali, phobos ed eleos, timore e compassione, specifica quale tipo di errore può indurre lo spettatore alla pietà ( Poetica,1453a  6 sgg. ):

                « Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a causa della sua malvagità e scelleratezza bensì soltanto a causa di qualche errore (amartia): sul tipo insomma di coloro che, come Edipo, Tieste e altri ben noti personaggi nati da simili famiglie [finiscono sventuratissimi, mentre dapprima] erano in grande reputazione e

                prosperità. »

 (111)      Ad esempio, in Inf. V, 116, il poeta, indotto dai martiri di Francesca a lagrimar, diventa tristo e pio (pietade, v. 140 è termine centrale), per cui con grande sollecitudine si rivolge alle anime offense (109). Di questa inquietudine del poeta è chiara testimonianza il riferimento ai vv. 69-72, laddove si parla di donne e cavalieri lussuriosi: la poesia è il rovescio del freno teologico, invita al peccato, ne deriva una netta contrapposizione tra la finzione letteraria, peccaminosa e libera e la sfera religiosa. Da questa irriducibile diversità il poeta è schiacciato, mostrando di subire il fascino della religione delle Muse. Nel X canto, Farinata, l’eretico indomito, che sembra sfidare Dio e le sue punizioni, è definito, assieme a Cavalcante Cavalcanti, magnanimo (73). Si tratta di una importante annotazione, soprattutto se si tiene conto che la colpa espiata consiste nel riproporre le dottrine degli aristotelici radicali circa l’anima separata dal corpo. M. CORTI, « Campi di tensioni »…, cit. , pp. 72-3, ha messo in luce la storia e l’utilizzo dell’aggettivo magnanimo nel Medio Evo. Il termine, a partire da Brunetto Latini ( Tresor, II, 23, 1-2) ha sia una valenza pagana, aristotelica, nel senso della greca megalopsychia, ma anche un significato di cristiana fortezza ( Tresor, II, 82, 1 ). Dante utilizza il termine in senso aristotelico ( Inf. II, 44) riferendosi a Virgilio; inoltre magnanimi sono anche gli spiriti magni del IV canto. E’ da notare che il magnanimo Farinata appare un eroe guardato con ammirazione anche se è un esempio di superbia, mentre i superbi del X canto del Purgatorio appaiono esseri mediocri, schiacciati sotto il peso di enormi massi. A giudizio di Sigieri di Brabante (Quaestiones morales, Qu. I ), la magnanimità si contrappone all’umiltà, considerata una virtù meno perfetta. Al contrario, per Tommaso (Commentari all’Etica, lectio 10 ) la modestia è la vera virtù da privilegiare. Nel XV canto dell’Inferno, il poeta si mostra riverente verso il maestro Brunetto Latinin ( v. 45 ): è come se ci fossero due distinte realtà, quella umana psicologica e quella teologica, che non scalfisce in nulla l’ammirazione del discepolo per il maestro.

 (112)      Un malevolo critico di Dante, il religioso Guido Vernani, nel Trecento, scrive un’opera ostile al poeta, accusandolo di essere un vate del diavolo, un seduttore di false verità, un poeta in grado di fantasticare e creare grandi finzioni. Rovesciando positivamente le accuse del Vernani, senza pregiudizi, se ne ricava una lettura laica dell’opera del fiorentino. Cfr. De reprobatione Monarchie, in N. MATTEINI, Il più antico oppositore politico di Dante: Guido Vernani da Rimini, Padova 1958, p. 94 :

                « inter alia vero talia sua  [ scil. Diabuli ] vas  quidam fuit multa fantastice  poetizans et sophista verbosus, verbis exterioribus in eloquentia multis gratis, qui suis poeticis fantasmatibus et figmentis … non solum egros  animos, sed etiam studiosos dulcibus sirenarum cantibus conducit fraudolenter ad interitum salutifere veritatis. » ( In vero tra le altre azioni sue di tal genere fu anche un vate del diavolo, componendo versi molto fantasiosamente e fu un sofista parolaio, con parole all’apparenza molto gradevoli nell’eloquio, lui che con i suoi fantasmi poetici e finzioni, con dolo, ha condotto alla  morte della salutifera verità, non solo gli animi malati ma anche gli studiosi a causa dei dolci canti delle sirene ).

 (113)      Par. XV, 28-30.

 (114)      La dimensione onirica è stata interpretata come una forma di misticismo, come il segno di una missione profetica. Già U. FOSCOLO, Discorso sul testo della Commedia di Dante, in, Edizione Naz. delle opere di Ugo Foscolo, vol. IX, Studi su Dante, parte prima, a cura di G. da Pozzo, XL, pp. 237-8, parla di missione profetica della Commedia:

                « Il poema sacro fu dettato per quella missione [ profetica ]; la quale se fu veduta non lo so; ma non fu rivelata da nessuno mai degli interpreti. Nondimeno, a chiunque considera nell’autore il poeta anziché il legislatore di religione, Dante e quel secolo, temo, si rimarranno mal conosciuti ». A giudizio di B. NARDI, Dante profeta, in, Dante e la cultura medievale, cit. , p. 295: « non artificio letterario, ma vera visione profetica ritenne Dante quella concessa a lui da Dio, per una grazia singolare, allo scopo preciso che egli, conosciuta la verità sulla cagione che il mondo aveva fatto reo, la denunziasse agli uomini, manifestando ad essi tutto quello che aveva veduto ed udito ». A giudizio di M. CORTI, Metafisica della luce come poesia, in, Scritti su Cavalcanti e su Dante, cit. , p. 284,  Dante prova nel Paradiso l’estasi, l’excessus mentis. Anche G. PADOAN, La «  mirabile visione  » di Dante, in, Dante e Roma, cit. , pp. 283-314 si allinea sulle posizioni del Nardi: Dante dichiara più volte ( 286) di essere stato investito dal Cielo di una particolare missione: ha ricevuto la superinfusa gratia Dei, ( Paradiso, XV, 28-30) considera suo antesignano Paolo rapito da vivo nel Paradiso per costruire la Chiesa ed Enea disceso negli Inferi.

                Dio consente a Dante la visione, come espressamente indicato in Par. XXX, 97-99 ( 287):

                o isplendor di Dio, per cu’ io vidi/ l’alto trionfo del regno verace/, dammi virtù a dir com’io vidi!/

                e poi ancora in Par. XXXIIII, 67-75, l’invito alla somma luce a lasciar risplendere qualcosa di quel che pareva ai suoi occhi.

                Qua, a giudizio dello studioso, si va oltre la finzione poetica, soprattutto se si considera che, nel Medioevo, queste parole potevano apparire come vere al lettore. Nella suggestione collettiva agisce la grande lettura dell’Apocalissi, testo molto studiato ed anche la vita mistica di alcuni santi, raffigurati come illuminati da Dio, pp. 288-9:

                « senza andare molto lontano, basta scorrere la produzione mistica o le biografie di santi e di sante scritte nei secoli XII- XIV o gli stessi Actus beati Francisci et sociorum eius per trovarne esempi a piene mani: da frate Egidio che fu rapito al terzo cielo come S. Paolo, a frate Bernardo da Quintavalle che fu rapito in Dio « frequentissime», a frate Giovanni d’Alvernia [….]. Altri esempi soccorrono innumerevoli, già in quello stesso testo, ed è qui inutile elencarli. Il fatto è che in quei tempi di esaltata ed esaltante religiosità, quando la letteratura agiografica e mistica era presente ed attiva in misura oggi assolutamente impensabile, quando l’Apocalissi era libro letto, studiato, amato, commentato come non mai, il grande esempio dei profeti biblici continuava ad agire, suggerendo parole e scritti. » Tuttavia è possibile scorgere nel misticismo dantesco una forma di dubbia religiosità, se non di assoluta eresia. Per Tommaso, ( Quade. , VII, a. 16), alle opere umane non può essere concesso un significato allegorico: i sensi mistici di cui parlano i teologi possono essere stabiliti solo da Dio. Nell’Epistola a Cangrande ( XIII, VIII, 20-22), Dante stabilisce un nesso tra la Commedia e l’Esodo da Israele: ( « All’uscita d’Israele dall’Egitto, della casa di Giacobbe da un popolo barbaro, la Giudea diventò il suo santuario, Israele il suo dominio ». Infatti se guardiamo alla sola lettera, ci è significato l’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; se all’allegoria, ci è significata la nostra redenzione operata per mezzo del Cristo; se al senso morale, ci è significata la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se a quello anagogico, è significata l’uscita dell’anima santa dal servaggio di questa corruzione alla libertà della gloria eterna. E benché questi sensi mistici si appellino con vari nomi, si possono generalmente, dir tutti allegorici, in quanto sono diversi da quello letterale o storico»).Anche se alcuni dubbi sono nutriti sulla paternità dantesca di questa parte dell’epistola, perfino B. NARDI, Nel mondo di Dante, Roma 1944, p. 60, osserva che Dante, usando dal primo all’ultimo canto l’io, confonde la dimensione individuale del suo viaggio con lo status animarum, che è frutto della volontà divina: in altre parole, il poeta, da raffinato artista, mente quando dichiara che il soggetto della sua opera è la descrizione dello status animarum.

 

 (115)      Inf. XXVI, 19-24.

 (116)      Cfr. F. DE  SANCTIS, op. cit. , pp. 144-5 annota la commistione di paganità e cristianità nel poema dantesco : il poeta riesce a liberarsi dai vincoli liturgici. « perché l’altro mondo è allegorico, figura dell’anima nella sua storia, il poeta è sciolto da’ vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell’immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt’i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e S. Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo universale della coltura tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato in vano, cristiano nel suo spirito e nella sua lettera, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo antico. »

 (117)      E. PARATORE, L’eredità classica in Dante, in Dante e Roma, cit. , pp. 4-50;  alle pagine 15-6, ricorda il celebre passo in cui Stazio ( Purg. , XXII, 64-73) si rivolge a Virgilio:

                Tu prima m’inviasti/ verso Parnaso a ber nelle sue grotte,/ e prima  appresso Dio m’alluminasti./ Facesti come quei che va di notte,/ che porta il lume dietro e sé non giova,/ ma dopo sé fa le persone dotte,/ quando dicesti: « Secol si rinova;/ torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova »./ Per te poeta fui, per te cristiano./

                Il discorso di Stazio adombra la stessa esperienza di Dante. Si delinea una linea di continuità tra sapienza greca e storia di Roma, p. 31:« La grande sapienza greca si configura per lui come preparazione teorica a quel senso di valori morali di cui la storia e la cultura di Roma rappresentano successivamente la ben più importante realizzazione pratica, nel diretto contatto con le ansie e i palpiti della condizione umana nella vita associata ».

 (118)      R. IMBACH, op. cit. ,  pp. 145 sgg. , smentisce, autorevolmente le tesi postulate da B. NARDI, La conoscenza umana, in, Id. , Dante e la cultura medievale, cit. , pp. 135-72, per cui il pensiero di Dante sarebbe contraddistinto da tre passaggi contraddittori: una certa confusione di filosofia e teologia nel Convivio, un audace sbalzo in senso laico nella Monarchia, mentre, nella Commedia, si verificherebbe la subordinazione della filosofia alla teologia. Imbach, citando un passo della Monarchia ( I, XII, 6), opera che, a giudizio del Nardi, sarebbe stata scritta tra il 1306  e il 1307, nota un preciso riferimento al canto V del Paradiso, per cui ipotizza che la composizione dell’opera più laica va spostata  intorno agli anni 1316- 7, contestualmente alla composizione del poema religioso: sicché non ha senso parlare di una frattura tra un  Dante averroista e un Dante ortodosso ( tesi, ad esempio sostenuta sulla scia del Nardi anche da M. CORTI, Dante Ad un nuovo crocevia, Firenze 1982 ). D’altronde, anche in Par. XXIX, 79-80, il poeta riprende una tesi di Sigieri, condannata da Tempier, l’articolo 76: le intelligenze non acquisiscono alcuna conoscenza e non  vi è alcuna successione nella loro conoscenza. Conclude Imbach ( p. 149): « Si può abbandonare l’idea di un’evoluzione intellettuale che avrebbe condotto Dante da una prima fase di filosofismo radicale a una seconda contraddistinta da un pensiero religioso e ortodosso, nonché l’ipotesi di un Dante che avrebbe ricusato l’ideale filosofico ereditato dall’aristotelismo. Egli non ha mai negato l’apporto essenziale dell’aristotelismo parigino e in particolare la «distinzione rigorosa tra ordine filosofico e ordine  teologico », distinzione che a sua volta decreta la separazione tra ordine temporale e ordine spirituale. Per questa ragione nel X canto del Paradiso, Tommaso d’Aquino conclude la presentazione dei dotti che lo circondano con l’elogio della luce eterna di Sigieri. Le profonde convinzioni religiose di Dante – delle quali è intrisa ogni pagina della Commedia – non sono affatto inconciliabili con l’idea di una filosofia che si mantiene nei limiti della pura ragione ».

 (119)      Come è noto il filosofo stoico Catone l’uticense, avversario di Cesare, morto suicida per non ridiventare servo del generale romano, è personaggio principale del I canto del Purgatorio, di cui è anche il custode. Dante, elogiando Catone, si pone dalla parte della paganità, contro la tradizione cristiana. Ad esempio, Agostino (De civ. Dei, I, XXVI) si allinea alla posizione di quanti ritenevano che il suicidio di Catone fosse la risultanza « imbecillioris quam fortioris animi […] quo demonstaretur non honestas turpia prevalicans, sed infirmitas adversa non sustinens. » anche Tommaso, Summa, III, II q. 125 a. 2, ricorda che chi come Catone si uccide per non cadere in servitù è un timoroso:

                «se periculis mortis exponit ut  fugiat servitutem vel aliquid laboriosum, a timore vincitur quod est fortitudini contrarium». Dante prende a modello i pagani Cicerone (De officiis), Seneca e Lucano che avevano esaltato il gesto del filosofo, che, nel De constantia sapientis, è rappresentato come un deus, un esempio di martirio. In Convivio ( IV, XXXVIII, 15) viene asserito: « E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo. » Ma è anche significativo un passo del De constantia sapientis, in cui Seneca paragona due esempi positivi di sapientes, Ulisse e Catone (II, 2-3): « Ma per la persona di Catone, ti dissi di non darti pensiero, perché nessun saggio può ricevere né ingiurie né offese e gli dei ci avevano dato Catone come un modello di uomo saggio, meglio definito che non l’Ulisse e l’Ercole che sono stati dati alle età primitive. Questi ultimi vennero dichiarati saggi dagli stoici, nostri predecessori, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure. Catone non combatté con le belve, che lasciamo inseguire ai cacciatori ed ai contadini, non diede la caccia ai mostri con il fuoco ed il ferro, e non capitò a vivere in tempi in cui si poteva credere che il cielo  posasse sulle spalle di un gigante , ma quando era già stata bandita la creduloneria degli antichi e il mondo era perfettamente scaltrito. Dichiarata guerra all’ambizione, il male dai mille aspetti, ed a quella smisurata brama di potere, che neppure la spartizione del mondo fra triumviri poteva saziare si eresse lui solo, contro i vizi di una città degenerata, che stava affondando per il suo stesso peso, e ritardò la caduta della repubblica, per quanto era possibile farlo con una sola mano, fino al momento in cui, travolto dal crollo, volle essere partecipe del disastro che aveva cercato d’impedire. Così morirono insieme le due realtà che sarebbe stato nefando separare: né infatti Catone sopravvisse alla libertà né la libertà a Catone. » ( trad. G. REALE).

 

 

 (120)      A giudizio di ET. GILSON, Dante et la philosophie, Paris 1939, pp. 263-4, Sigieri è inserito nel X canto del Paradiso perché rappresenta la filosofia staccata dalla teologia: significativo è il fatto che l’averroista  eretico, condannato dalla Chiesa sia elogiato da Tommaso, in vita, suo avversario. Dante, in  opposizione alla teologia ortodossa, ereticamente, converge verso il martire Sigieri (132-37): Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,/ è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri/ gravi a morir li parve venir tardo:/ essa è la luce etterna di Sigieri,/ che, leggendo nel vico de li strami,/ sillogizzò invidiosi veri »./

 (121)      Cfr. N. BENAZZI, M. D’AMICO, Il libro nero dell’Inquisizione, Casale Monferrato ( Al ), 1998, pp. 8-10:

                « L’Inquisizione nasce fra il 1180 e il 1231, quando assume una sua prima forma definita, nell’ambito della lotta contro l’eresia catara. Dopo secoli di sostanziale compattezza della cristianità, si sviluppa, in particolare nel sud della Francia, ma anche in altre regioni confinanti, un’eresia che mostra subito di avere un’eccezionale capacità di penetrazione e proselitismo all’interno delle nuove classi sociali, sorte grazie alla rinascita dell’urbanesimo e dell’economia dopo l’anno mille. Per la Chiesa si tratta di un evento sconvolgente: per la prima volta dopo innumerevoli secoli, compare una forma organizzata di religione alternativa a quella ufficiale; i catari danno vita a tutti gli effetti ad una vera e propria Chiesa, con sacerdoti, rituali, preghiere, libri contenenti i principî fondamentali della dottrina. In tale modo sofferto si giunge alla decisione di usare la forza per reprimere l’eresia: pena di morte, confisca dei beni dell’accusato, infine il ricorso alla tortura diventano progressivamente strumenti usuali. L’impulso decisivo all’affermazione del ruolo dell’Inquisizione è dato però dalla vittoriosa crociata contro i catari ( 1212- 1229 ): dopo la loro sconfitta militare sorge infatti la necessità di vigilare su di un nemico che può celarsi dietro mentite spoglie, dietro la facciata di un’ingannevole adesione all’ortodossia.

                […] in ogni inizio è già annunciato un destino, è definito il tono e la struttura di ciò che seguirà: così il fatto che l’Inquisizione sorga nella lotta contro il catarismo, ci permette di cogliere la logica che reggerà per tutti i cinque secoli successivi la storia dell’Inquisizione stessa; le persecuzioni di ebrei, moriscos, streghe, liberi pensatori, mistici si differenzieranno quanto ad oggetto, ma non quanto alla motivazione di fondo che sostiene e giustifica la persecuzione: il rifiuto della differenza, della diversità di opinioni e credenze come sgorgante da una coscienza – da un’anima – irriducibilmente libera e individuale. Questo rifiuto dell’individualismo come liberamente esprimentesi, questa ricerca ossessiva di una assoluta compattezza e omogeneità nella sfera della prassi religiosa, si spiega solo se si comprende che, nei secoli in cui l’Inquisizione nasce e si sviluppa, il fenomeno religioso non è considerato come un dato proprio innanzitutto ed esclusivamente della spiritualità del singolo, ma come un elemento caratterizzato da una fondamentale rilevanza sociale, politica e morale. In altre parole, la fede, il modo in cui il singolo agisce la propria religiosità, viene visto come connotato da una immediata rilevanza pubblica: riguarda la collettività, l’insieme di tutta la società. La compattezza della fede è sentita come fondamento della solidità dello stesso stato. La logica è la stessa, anche se applicata sul piano interno di quella che aveva sostenuto, verso l’esterno, le crociate: qui si trattava di combattere l’infedele, che offende con la sua sola presenza l’universalità della fede cristiana; nel caso dell’Inquisizione invece la «crociata» è rivolta contro l’eretico, portatore di una forma di infedeltà al cristianesimo ancora più pericolosa ed insidiosa. »

 

 (122)      Mon. , II, I, 3, l’imperatore è definito Unctus, cioè Cristo. Cfr. B. NARDI, Nel mondo di Dante, cit. , pp. 239-40.

 (123)      A giudizio di B. NARDI, Dante e la cultura medievale, cit. pp. 127-8, Dante ha alcuni elementi in comune con Ulisse: « E d’Ulisse condivide l’ardore « a divenire del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore », e la persuasione che « la scienza è ultima perfezione della nostra anima, ne la quale sta la nostra felicitade » ( Conv. , I,I, 1 ) […] sfrondato di tutti gli elementi romanzeschi, l’Ulisse dantesco ci si rivela nella sua  diamantina tempra eroica. […] l’Ulisse omerico, ritornato nel tranquillo rifugio della sua reggia, vi può attendere la fine della vita, consunto dai malanni dell’età decrepita. Una simile sorte non si addice all’eroe dantesco: ed egli scaglia la sua anima in un’impresa suprema e disperata che tolga il pregio a tutte le altre. La vita per lui è ascesa senza soste; non v’è riposo finché resta un’altezza da conquistare, un mistero da svelare ».

 (124)                                        Cfr. S. FREUD, Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino 1971, p. 52. Il padre della psicanalisi sostiene che, solo a teatro e nella letteratura, la morte è indolore e la sua paura viene metamorfizzata. « là troviamo ancora uomini che sanno morire; sì, uomini anche capaci di uccidere. Là soltanto si verifica la condizione che sola potrebbe riconciliarci con la morte: e cioè la conservazione, attraverso a tutte le vicissitudini della vita della vita, di una vita, la nostra, come tale intangibile. E’ troppo triste infatti che nella vita possa accadere come in una partita a scacchi dove una mossa falsa può costringerci ad abbandonare il gioco: con l’aggravante che qui non possiamo contare sopra una seconda partita, sulla rivincita. Nel campo della finzione troviamo invece quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno. Moriamo nella nostra identificazione con un eroe ma insieme anche gli sopravviviamo e siamo pronti a morire una seconda volta in modo altrettanto innocuo, con un altro eroe ».

 

 (125)      Sul sacrificio come esperienza ambivalente, ha scritto uno splendido saggio R. GIRARD, La violenza e il sacro, trad. it. , Milano 1980, pp. 13-4; 34-5. Il sacrificio è strettamente connesso alla religione ed assume una duplice valenza, infatti, contestualmente, è un rito santo che non si può evitare senza grandi pericoli, ma è anche un delitto. Il sacrificio postula un’ambivalenza: è criminale uccidere la vittima, perché è sacra, ma d’altronde la vittima non sarebbe sacra se non fosse uccisa. Il sacrificio tiene a freno gli uomini, indirizzando la loro violenza su un oggetto, inoltre, in una società dove il sistema giudiziario non esiste, la religione esercita una funzione preventiva ( p. 35 ): « La prevenzione religiosa può assumere un carattere violento. La violenza e il sacro sono inseparabili ». Come le vittime sacrificali sono offerte alla divinità, così il sistema giudiziario postula una teologia. La festa è una gioiosa commemorazione della crisi sacrificale ( p. 162 ): si riproduce un’esperienza fondatrice, un’origine che è percepita come fonte di vitalità e fecondità.

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Note biobliografiche

Bernardo Puleio (Palermo 1963) è ordinario di lettere nei licei, ha insegnato Epistemologia dell’Italiano presso la scuola di specializzazione SISSIS di Palermo. Si è occupato delle Eclogae Piscatoriae del Sannazzaro e della metafisica della luce in Lucrezio. Tra le sue più recenti pubblicazioni: I sentieri di Sciascia (Palermo, Kalòs, 2003), Il paradigma impossibile: nuovi saggi su Leonardo Sciascia(Palermo, Nuova Ipsa, 2005); sulla tragedia greca: Democrazia  e tragedia (Palermo, Nuova Ipsa, 2004); su potere e società: Il linguaggio dei corpi straziati. Potere e semantica del potere nell’Italia del sedicesimo secolo (Firenze, Clinamen, 2007); su poetica e generi letterari: Errore e colpa nella tragedia italiana del Cinquecento (Palermo, Nuova Ipsa, 2009). 

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[fonte immagine: http://www.arcadiaclub.com/img/artic/dante_ulisse_folle_volo.JPG ]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.