“Per soglie d’increato” di Francesco Marotta. Postfazione di Luigi Metropoli

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di Luigi Metropoli

     Sapienza e profezia, parola e visione, «pensiero e canto», queste le coordinate che tracciano la sfuggente spazialità di Per soglie d’increato. Lo scintillio, il chiarore del pensiero, si fonde con il baluginare, il barbaglio, le «epifanie di lumi»; il dialogo (che in sé contiene per residuo etimologico il logos, la razionalità) incontra lo stupore, estatici squarci che aprono «il varco al volto / irrivelato delle cose».
     La poesia di Francesco Marotta ci conduce laddove la parola germoglia, attraverso zone d’ombra, fino ad una luce albale che si articola alle soglie del vuoto. È in questi luoghi che lo schiudersi delle prime sillabe acquista sapere, sapidità, sapienza, in tutto il suo urto rivelatorio, «che dissigilla / un senso che non dura». Il poeta ne ripercorre la traccia in un cammino a ritroso, attraverso un inventario di visioni, specchi, labirinti che vanificano la direzione. A tratti, per brevi istanti, sembra si possa cogliere in questo percorso una rivelazione, un qualche barlume di verità. La poesia rincorre la profezia, nel suo anteporre la parola (profferire: effare e fato che si specchiano vicendevolmente), nel suo partorire una visione futura il cui senso risiede nel passato, «prima di ogni dire, / prima del silenzio».


     A fare da guida sono spesso delle figure angeliche, figure intermedie di raccordo con una dimensione altra, il punto di contatto, in cui la lucidità di visione si risolve in luce-abbaglio, miraggio (chiarità e oscurità coincidono), la veglia in sonno, la ragione in investigazione plurisensoriale delle cose, il pensiero in canto, la parola in sguardo-movimento.

     Marotta ha «attraversato» Zanzotto e Bonnefoy in poesia (Movimento e immobilità di Douve è stata per il nostro una lettura fondamentale: ne sia testimonianza il bellissimo saggio Douve, la voce dell’ombra tra fiamma e gelo), ha fatto sua la lezione di Lévinas (etica prima di tutto: l’intera silloge è disseminata di tracce, di infiniti rimandi che tentano una direzione, un’apertura verso l’insondabilità dell’Altro, il differenziarsi dell’identico, in continui metamorfici slittamenti) e di Nancy (l’essere singolare plurale).
     «Attraversare» è il filo conduttore della raccolta, l’esilio al quale l’io poetico è costretto prima di ritornare a sé, di riconoscere quell’altro che lo abita: immergersi nella liquidità più profonda della mente e della psiche, scavare all’interno dell’essere, «in più profondi tagli / di terrestre materia», varcare soglie per strati di realtà fino al raggiungimento del «seme immortale».
     Si assiste lungo la raccolta a piccole, quasi impercettibili, metamorfosi: un eterno divenire all’insegna del cangiante fluire dell’acqua, del suo fitto alfabeto che conserva segni di una lingua primordiale, increata, appunto, incorrotta, adagiata in quel luogo, forse inesistente, rintracciabile immediatamente dopo il silenzio, ma prima che si possano nominare (individuare-dividere) le cose e separarle per sempre. È in quell’irraggiungibile spazio che la lingua diventa corpo incandescente, trasfigurandosi in una pentecostale fiamma che impasta materia e pensiero. È il verso stesso che aspira a dissolversi, a spiccarsi dalla materialità del corpo per farsi graffio nell’aria, puro segno dell’intelletto fuso all’immaterialità del canto: un soffio vitale che trova in se stesso la sua giustificazione, nel suo intimo farsi stupore e incanto, nel suo rendersi dono.
         Il fluire continuo impedisce la rintracciabilità e la localizzazione di un punto preciso che non sia un prima indistinto: è un verso eracliteo, filtrato da Nietzsche e Deleuze (il ripetersi della differenza). In quel preciso punto di unione originaria, prima ancora che l’incanto bruci e diventi cenere, prima ancora che i cristalli si sciolgano e disperdano il loro segreto (la raccolta è popolata di nevi, gelo, inverno, matrice prima di quella purezza andata perduta e, nello stesso tempo, vi è traccia di qualcosa che si è consumato e disperso: cenere, segno di un incendio che fu), lo sguardo del poeta «si fa mondo», si purifica e vede ciò che è estraneo a sé con altri occhi, diventa egli stesso il mondo (è questa la metamorfosi del libro): a quel punto il linguaggio non si sovrappone più alle cose, non rimanda ad altro, ma le con-vive, è esso stesso le cose in un plurisenso che in un sol colpo si libera dell’ingombrante dualità simbolista e pone le basi per una risignificazione del reale, nel momento in cui quest’ultimo si dà unitamente all’impulso linguistico. Così l’«io» si pone tra parentesi, si desoggettivizza per farsi altro, per entrare nelle pieghe delle cose, per farne parte, per rendersi corpo-di-parola e corpo del mondo.

     A questo punto va reinterpretato il tono oracolare del poeta, così come lo stile: nella raccolta sono presenti tratti stilistici tipici degli ermetici e basta imbattersi in un qualsiasi componimento per rintracciarne un ampio repertorio. Si nota l’uso di sostantivi assoluti, plurali indeterminati, l’impiego della preposizione «di», con l’assenza di articoli determinativi, che conferiscono al dettato poetico un effetto di vaghezza e di indeterminazione (il titolo stesso potrebbe essere citato come esempio). Tuttavia non ci si muove in un territorio ermetico, non vi è più una soggettività ipertrofica a tessere i versi, non vi è volontà poetica di indeterminazione, ma necessità dell’oscurità in quanto componente ineludibile della costruzione del senso stesso.
     La sintassi disarticolata, a-consequenziale, a guardar bene non è di semplice ascendenza simbolista per l’uso dell’analogia, ma è un ripetersi franto di quadri, di visioni, quale lo sguardo del poeta, nella sua cecità, può restituire: si brancola nel vuoto, nel deserto, nelle sconnessioni di senso. Se il poeta è profeta, lo è nella misura in cui la sua visione trae origine da quanto vi è di umano: finitudine e incompletezza. La sua sola eredità sono «parole / specchiate in liquidi fondali / di pensiero».

 

[Francesco Marotta, Per soglie d’increato, Bologna, Edizioni Il Crocicchio, 2006, pp. 93, € 11,00]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.