Massimo Onofri, “Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento”

Massimo ONOFRI, Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento, Roma, INSCHIBBOLETH Edizioni («Assaggi», 1), 2018, 248 pp.

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di Luciano Curreri (Université de Liège)

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Di quale Novecento parla il nuovo libro di Massimo Onofri che inaugura un’elegante collana d’Inschibbolet Edizioni diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica? Non di quello in poesia, nonostante quest’ultima (sempre ‘a tirare gli ultimi’) sia spesso e da più parti evocata come la vera eccellenza del suddetto secolo.

Se escludiamo la resa spettacolare di teatro e cinema, che pure fa significativo capolino, o quella dell’arte, che emerge nell’Appendice dedicata a Guttuso scrittore e pittore (pp. 221-245), resta, in termini non necessariamente oppositivi, la prosa; quella prosa che a livello di luoghi comuni storiografici si porta dietro, minimo minimo, il ritardo del romanzo e la sua conseguente e costitutiva debolezza (come se, per dire, un uomo, facciamo un narratore, non potesse dare il meglio di sé a cinquant’anni, per un difetto congenito); e per non parlare del risalto dato alla prosa d’arte, alla tradizione dell’elzeviro, a quel saggiare che ne veniva in parte fuori e che poteva essere a un tempo studio e svago, magari intuito tra una lettura vera e propria e una camminata, un andamento (finanche un ritmo) narrativo.

Mi ha colpito, nella breve nota incipitaria, Al lettore, il trascorrere, non solo da suite sinonimica, del «Novecento letterario italiano» al «Novecento nazionale», che non va inteso, secondo l’adagio ‘per orchi’ dei nostri giorni, come una chiusura. Onofri, che con generosità non ha mai smesso di recensire il Novecento fin dentro questo nuovo secolo e millennio, fa esattamente il contrario: cerca nella prosa del Novecento la forza di radici «che affondano nel Cinquecento di Guicciardini e nel Seicento della prosa scientifica post-galileiana» (p. 10).

Contro l’idea del bel parco ipostatizzato, consegnato a una ‘nuova’ modernità tosata a dovere per trame populiste, Onofri cerca, mettendosi in gioco una volta di più, un filo rosso di fughe e rincorse che al critico consentano di andare al di là della più classica concatenazione tra causa ed effetto: via, insomma, da «tutta quella collezione di deleddismi, chiamiamoli così, su cui lucrano facile scrittori alla Salvatore Niffoi, concentrati a resuscitare acriticamente, magari in salsa macaronica, e senza nemmeno troppa immaginazione, quell’isola in costume che, effettivamente, Deledda ci ha consegnato» (p. 18) e dentro, invece, quell’«eclatante verità antropologica e poetica, entro una prospettiva radicalmente nuova, che ha a che fare con un punto di vista femminile» che «Anna Dolfi, assai precocemente, già nel 1979, aveva individuato come un vero e proprio sistema di totem e tabù» (p. 19).

Ecco, c’è anche – in Onofri e nelle schede bibliografiche che in carattere minore allungano ogni saggio di questa sua nuova raccolta – un rispetto, direi, non banale, per quanto la critica ha saputo fare in anni, anche lontani, in cui era ancora rispettata (da Russo a Momigliano, da Sapegno… alla Dolfi, per l’appunto). C’è rispetto nel non celebrare funerali e c’è intelligenza nel saper fare dei distinguo e nel prendere il meglio, per combattere il peggio. Finanche nelle stesse schede, in maniera argomentata e distesa (coma alle pp. 62-64).

Di più. Da buon lettore di Sciascia, Onofri sa che ci sono «più fughe di innocenti che di colpevoli», sa che non basta dire Novecento e che «bisogna metterci dentro l’uomo, la persona, il personaggio» nel ‘secolo-sacco’ «perché stia su». Ecco allora il ritorno di quella che è «forse la più suggestiva distopia del Novecento italiano» (p. 25), L’uomo è forte (1938) di Corrado Alvaro, che « comprende con grande lucidità, e in anticipo sugli stessi specialisti, il significato profondo di quel gigantismo monumentale che agitava, in quegli anni, l’arte celebrativa, e non solo, di regime: e che valeva come compensazione assai puerile all’angoscia di vivere in una società massificata, composta da individui anonimi, per la prima volta senza volto e in difetto d’anima o, di quell’anima, gelosamente custodi nel segreto di se stessi» (p. 32).

Meglio di così la battaglia del critico non poteva delinearsi, né meglio poteva introdurre quell’idea di fuga da un mondo-prigione (isola-prigione ecc.) che molto Novecento ha avuto come tossico destino. In tal senso, via Emanuelli e Bassani, Onofri dedica pagine ‘resistenti’ a Mario Soldati in un paio di saggi in cui si celebra una specie di irrequieta (esistenzialmente irrequieta) arte della fuga (pp. 35-47 e 49-64). Che poi è un’arte che si confronta, innanzi tutto, con l’invisibile, con il mondo dei morti, con quell’«inquietante promiscuità tra morti e vivi» di Elsa Morante: «Mettiamola così: qualora si provasse a scrivere una storia letteraria del Novecento dal punto di vista dell’invisibile, la Morante avrebbe un posto di preminenza. Quel Novecento che inizia coi queruli morti di Pascoli, che chiedono ai vivi di essere ascoltati e si chiude coi morti d’un capolavoro assoluto come Il giorno del giudizio (1977) di Salvatore Satta, che ci implorano di essere liberati persino del peso di essere vissuti. In mezzo c’è la Morante […]» (p. 79).

A me viene in mente un invisibilissimo e centralissimo Dessì, quello dei racconti raccolti in La ballerina di carta (1957). Ma è ormai difficile non seguire la strada tracciata da Onofri, al di là dell’amata Sardegna con cui comincia il suo percorso, grazie a quel Carlo Cassola che nel nostrano Novecento diventa un «antidoto contro ogni letterarietà fondata sulla prosopopea intellettualistica e ideologica, contro ogni muscolarismo linguistico, contro ogni atto di nichilistica inimicizia nei confronti del mistero della vita» (p. 94). Ed è un tracciato narrativo, quello appena e rapidamente descritto, che non può non ‘infilarsi’ in quella saggistica che di certi narratori ha saputo difendere il ‘portato’ evadendo «il frenetico nuovismo» delle note e maligne avanguardie (un réseau, diciamocelo, molto bourdieusien, di un muscolare pragmatismo teso a silenziare, in posizione di offesa e ancor più di difesa, qualsiasi presenza ideologicamente ‘allotria’).

In questa prospettiva, va letto Qualcosa su Garboli (pp. 97-108) e Qualcosa su Baldacci (109-127), che sigillano naturalmente (più che metodologicamente) la prima parte del libro, quella titolata al dispiegarsi di saggi, che saranno anche recuperati a destra e a manca ma che vanno ancora nella direzione sopra evocata: sia essa quella di un critico, Garboli, che fa di tutto per «dissimularsi» (p. 108) o quella di chi tenta di oggettivarsi a tal punto da finire dentro l’oggetto osservato, come Baldacci, tanto da starci dentro alla grande, insieme, certo, alla grandezza delle perturbazioni dovute all’osservazione (pp. 109-111). E qui Onofri non fatica a riconoscersi, ovvero a darsi e dirsi, talora per bocca dello stesso Baldacci, in seno a una filiazione che ha un suo bisogno, una sua necessità naturale di esporsi come tale.

Si può non essere d’accordo, certo, ma non sbandierando facili ipocrisie. Basta dare una scorsa, in questi ultimi anni, alle iniziative autoreferenziali, in sede di anniversari, animate dalle vestali del Gruppo 63, o a certe più legittime proposte, a mio avviso, ma sempre figlie dello stesso protagonismo, relative all’editing Novecento. Certo, c’è del buono ma non si capisce perché questa bontà d’intenti debba diventare sovente (nove su dieci?) un taglio a fuori nei confronti degli altri, magari invisibili, magari bravissimi narratori e saggisti a un tempo.

Detto questo, Onofri si rende conto che è giunto il momento di passare dai «saggi» ai «paesaggi» della seconda parte del libro per l’appunto, ovvero dall’uomo intuito anche come critico e non più soltanto come «ingrato maestro» al lavoro che questo deve continuare a fare, rincorrendo sé stesso e una storia culturale dentro la quale ancora respira, ancora vive, anche e soprattutto grazie ad altri, a terzi, anche molto diversi, sempre utili (per capire, intuire, magari in negativo) e non sempre e solo tra i piedi.

Non è un caso, allora, che si inizi con un confronto (già di Eco) con I Beati Paoli di Luigi Natoli (pp. 131-139) e si concluda (anche integralmente e circolarmente) con Il caso Milena Agus (pp. 209-218), che lascio «al lettore» il piacere di scoprire.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.