Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo

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Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo

(“Swept into the camp of the Romantics”)

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di Claudia Cardella

L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrare nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili; il retore cerca di dar loro stato, grado e inamovibilità, ed ecco, alla fine di travagliose costruzioni, s’accorge d’aver trattato ombre come cose salde”.1 Così Mario Praz introdusse un discorso a proposito della funzione e della quasi necessità di due “etichette”, cioè romantico e quella che qui, per comodità, ribattezziamo opposto a romantico. Si tratta di due etichette l’utilità delle quali è innegabile, soprattutto se, come in questo caso, si devono segnalare delle caratteristiche atipiche. Tuttavia, esse tendono a dare l’impressione che si stia parlando di quadri omogenei, nei quali tutto è in armonia con i connotati di una o dell’altra categoria. E invece bisogna tenere presente che queste etichette, solitamente, indicano piuttosto delle caratteristiche comuni, la presenza delle quali mette in relazione un autore, le sue opere, il suo pensiero, con una categoria o con un’altra.

Ciò è particolarmente importante quando si parla di una figura complessa e contraddittoria come quella di Lord Byron. La sua figura e le sue opere sono indubbiamente fra le più note della letteratura romantica inglese; e infatti, esse vi rientrano a pieno titolo. Tuttavia, la sua notorietà di autore e di personaggio romantico impedisce di coglierne le sfumature. Notorietà dovuta non solo al fatto che, Byron ancora vivente, la fama di lui stesso e delle sue opere raggiunse dimensioni eccezionali, o perché l’immediata ricezione delle opere, in particolare Childe Harold’s Pilgrimage, fece sì che il giovane lord continuasse ad essere pensato come un autore e un personaggio romantico. Infatti, vi fu tutto il contributo di un immaginario collettivo, il quale accolse e nutrì la nota leggenda byroniana. Sin da subito, Byron venne confuso con il suo eroe, il cupo e malinconico Harold. Da lì, l’immagine leggendaria e idealizzata si amplificò, cioè divenne man mano sempre più complessa, fino a creare un personaggio che ha affascinato un’intera generazione, alimentandone le fantasie e fornendogli dei modelli. Si pensi al Vampiro di John William Polidori, il quale, sin dal primo momento, venne recepito sia come un ritratto di Byron sia, al tempo stesso, come qualcosa che era uscito dalla sua penna: il racconto infatti venne pubblicato anonimo. Ma anche ai dipinti di Delacroix, ad un classico della narrativa come Il Conte di Montecristo di Dumas padre oppure all’Evgenij Onegin di Puškin. Tutte queste opere, che erano allora e ancor oggi restano famose, testimoniano ognuna a suo modo la ricezione di Byron e della sua opera come qualcosa di seducentemente romantico; nonché il suo ruolo di modello, sia come poeta sia come personaggio.

Eppure, ad un’analisi più attenta della figura e dell’opera, emerge un quadro alquanto complesso, che, a seconda di come si guarda, fa sorgere dei dubbi circa la sua indubitabile “romanticità”. Esso rende difficile definire sia la posizione dell’autore all’interno del panorama letterario inglese a lui contemporaneo sia il profilo delle sue opere. Un testo come Childe Harold, ad esempio, indubbiamente rientra all’interno del macrogenere letteratura romantica; e altrettanto si può dire di un’opera come Manfred. Il discorso, tuttavia, si fa più complesso difronte ad un’opera come Beppo, nonché dinanzi al notissimo Don Juan. Già ad una prima lettura si ha l’impressione che, se qualcosa di romantico c’è in queste due opere, è perché esse sono frutto della mente e della penna di Byron, il cui immaginario e il cui stile sono talmente peculiari da fungere da comune denominatore.

Infatti, al di là di un certo romanticismo “intrinseco”, il quale si può rintracciare, giusto per fornire un esempio, nell’abitudine e nella volontà di scrivere assecondando i pensieri e le emozioni del momento, non si può definire Byron romantico in modo univoco. 2 Ad impedirlo, vengono le opinioni da lui espresse in più occasioni riguardo alla poesia a lui contemporanea, i suoi giudizi sulle opere altrui e in particolar modo su opere che risentono della corrente romantica, nonché, sebbene più tacitamente, alcuni aspetti delle sue stesse opere.

A dire la verità, qualcosa di anomalo si coglie già nel momento in cui si getta uno sguardo al rapporto con il contesto letterario contemporaneo, o in ogni caso di poco anteriore. Nelle opere byroniane, ma non solo lì, sono chiare, ad esempio, le influenze delle letture gotiche, come The Italian di Ann Radcliffe, Zeluco di John Moore, oppure il Faust di Goethe.3 Si presenta invece ambiguo, e non solo sul piano letterario, il dialogo con i maestri del romanticismo inglese, Wordsworth e Coleridge. Un po’ meno controverso, ma pur sempre ambiguo, è poi quello con la poesia dell’amico Thomas Moore: si deve tenere presente che Moore fu uno dei primi modelli di Byron, e che ciononostante, la sua produzione, come vedremo tra poco, rientrava in quello che per Byron era un modo “sbagliato” di fare poesia.

Ciò cui mi sto riferendo non è un mero dialogo tra l’autore e le sue letture: si tratta piuttosto di un complesso di relazioni, innanzitutto quelle tra l’autore, i suoi gusti e le sue opinioni letterarie e, in secondo luogo, tra l’autore e il suo “bagaglio” letterario. Byron si espresse spesso riguardo ai suoi gusti, e, sebbene a differenza di altri romantici non abbia mai scritto testi di natura teorica, abbiamo ampia testimonianza delle sue opinioni in materia di poesia e di dottrine poetiche. Riguardo al suo “bagaglio letterario”, infine: i romanzi gotici, come abbiamo detto, rientravano certamente tra le sue letture, e certamente hanno lasciato un profondo segno nella sua opera; la stessa cosa si può dire della poesia di Moore, e, seppur con la dovuta cautela, anche di quella di Wordsworth e di Coleridge. Ma una cosa era ciò che Byron leggeva e assimilava e un’altra ciò che Byron diceva e pensava, sia che si parli di stili e di autori che ebbero su di lui una certa influenza sia di opere e di figure che, al contrario, egli attaccò talora anche in modo spietato.

Per avere un’idea di quale sia questa distanza, è sufficiente andare a vedere quali erano le cose che Byron diceva e pensava. Byron ci fornisce in svariati modi e in innumerevoli occasioni le sue opinioni sulla poesia a lui contemporanea; giusto per citarne una, una delle prime dichiarazioni più note è la satira English Bards & Scotch Reviewers. Si tratta di un testo che va letto con una certa cautela, perché Byron trovò in esso sì un modo per dire quel che pensava ma, proprio per questa ragione, si tratta di pensieri non filtrati. Tuttavia, al di là del suo essere il frutto di un furore decisamente più byroniano che romantico, essa ci fornisce una panoramica sufficientemente completa e affidabile delle sue opinioni. Anzi, proprio il suo essere una satira ci dice molto, in particolar modo del Byron degli anni universitari.

A partire dagli anni di Cambridge, superata una fase mimetica, la quale caratterizza gli anni del college ad Harrow e vede Thomas Moore come modello prediletto, Byron si mosse in modo deciso verso un genere che già apprezzava, e che tuttavia sembra incominciare ad apprezzare sinceramente solo a partire da questo periodo. English Bards & Scotch Reviewers rivelò non solo al pubblico ma a Byron stesso la sua capacità nel genere satirico. Tra l’altro, spesso si dimentica che fu questa l’opera che per prima lo portò alla notorietà. Si tratta di un esordio e di un genere che stride fortemente con il suo modo di fare poesia più noto, cioè lo stile di Childe Harold. Byron stesso ne era cosciente, tantoché, in un primo momento, giudicò più meritevole di una pubblicazione Hints from Horace, il proseguimento di English Bards & Scotch Reviewers modellato sull’Ars Poetica di Orazio, anziché il sentimentale e romantico poema che raccontava di sé e dei suoi sentimenti.4

All’altezza degli anni universitari, dunque, come ci conferma English Bards & Scotch Reviewers (non tanto per il suo essere una satira, ma per quello che contiene), Byron predilige prevalentemente autori satirici. Tra questi vi sono quelli classici certamente, ma anche alcuni moderni. Un posto d’onore lo ha indubbiamente Alexander Pope; tutti gli altri, tra i quali rientrano diversi poeti contemporanei, come Gifford5 o Crabbe6, sono tutti poeti satirici che utilizzano il distico eroico, o che in ogni caso sono più vicini alla poesia del XVIII secolo che non a quella del XIX. Il che non è troppo diverso da dire che trovavano in Pope il loro modello di riferimento.

Non bisogna dimenticare che proprio Pope era il rappresentante di una poesia che veniva considerata ormai superata all’epoca, e rispetto alla quale la poesia romantica, più in particolare di Wordsworth, veniva posta in antitesi. Tale ammirazione e predilezione per questo poeta, Byron la ribadirà esplicitamente negli ultimi anni di vita, in una lettera a John Murray scritta in occasione della fine della stesura del VI canto di Childe Harold:

With regard to poetry in general, I am convinced, the more I think of it, that… all of us – Scott, Southey, Wordsworth, Moore, Campbell, I, – are all in the wrong, one as much as another; that we are upon a wrong revolutionary poetical system, or systems, not worth a damn in itself, and from which none but Rogers7 and Crabbe are free; and that the present and next generations will finally be of this opinion. I am the more confirmed in this by having lately gone over some of our classics, particularly Pope, whom I tried in this way, – I took Moore’s poems and my own and some others, and went over them side by side with Pope’s, and I was really astonished (I ought not to have been so) and mortified at the ineffable distance in point of sense, harmony, effect, and even Imagination, passion, and Invention, between the little Queen Anne’s man, and us of the Lower Empire. Depend upon it, it is all Horace then, and Claudian now, among us; and if I had to begin again, I would model myself accordingly”.8

Viene da dire dunque, usando le parole di Leslie Alexis Marchand, che Childe Harold “swept” Byron “into the camp of the Romantics”.9 Bisogna aggiungere anche, sempre seguendo il professore, che Byron tentò a più riprese di opporsi all’onda del Romanticismo che lo aveva travolto: “He tried, and he scarcely gave up even after the wave had swept over him. But he knew he would never reach the haven of Popean assurance”.10

Anche dal punto di vista poetico, come si può vedere, così come sotto molti altri aspetti, Byron presenta delle contraddizioni, le quali generalmente appaiono spesso difficili da chiarire e da giustificare. La distanza di Byron dai poeti romantici, tuttavia, non si limita all’avversione per sperimentalismi ed innovazioni rispetto ad una poesia oggettiva e formalmente impeccabile. Allo stesso modo, l’ammirazione per poeti che hanno un sapore vetusto e decisamente moralista non si ferma al genere satirico e allo stile.

Giusto per fornire un esempio, il quale tra l’altro ci porta ad osservare un’ulteriore contraddizione, che tuttavia, a mio avviso, è solo apparente, la poesia, per poeti come Pope, Dryden, Swift, doveva avere innanzitutto uno scopo morale. Byron aveva un’idea di poesia alquanto complessa: di fatto, abbiamo da una parte una produzione che sembrerebbe dettata dal mero bisogno di tradurre in letteratura le proprie esperienze autobiografiche e dall’altra una satirica, che addita tutto quel che può dissacrandolo a suon di versi sardonici. Quel che è certo, è che la satira era per lui un genere nobile, il cui scopo, al di là della capacità di suscitare il riso, era serio e innanzitutto morale. Così lui concepiva la poesia di Pope: di conseguenza, considerando la quasi venerazione che egli nutriva per il rappresentante della poesia satirica del Settecento, non c’è da meravigliarsi che non fosse diversamente.11

Ma il moralismo degli autori satirici del XVIII secolo, sia che si parli di poeti sia che si rivolga lo sguardo a romanzieri come Fielding, di nuovo Swift o Sterne, trova le sue radici in un forte senso morale di origine religiosa. Bisogna riconoscere che, anche sforzandosi, sarebbe difficile trovare in Byron qualcosa di simile al profilo di un puritano; inoltre, se si esclude l’implacabile “honesty” byroniana12, non v’è traccia nelle satire, così come nelle altre opere dopotutto, di un palese scopo morale. Viene da chiedersi pertanto a cosa si deve questa ammirazione per una poesia castigatrice e spesso mossa da una sensibilità puritana. Una risposta, se non dalle opere e dal piano biografico immediatamente accessibile, può venirci da alcune cose apparentemente trascurabili, ma che in verità, se affiancate ad altre, sembrano offrire una qualche chiave di lettura.

Se andiamo a vedere, ad esempio, l’aggiunta alla prefazione dei primi due canti di Childe Harold, ci imbattiamo in un curioso tentativo di difesa da parte di Byron, il quale, inizialmente, colpisce soprattutto per il tono seccato:

Amongst the many objections justly urged to the very indifferent character of the “vagrant Childe” […] it has been stated, that, beside the anachronism, he is very unkhnightly, as the times of the Knights were times of Love, Honour, and so forth. Now it so happens that the good old times, when “l’amour de bon vieux temps, l’amour antique” flourished, were the most profligate of all possible centuries. […] The vows of chivalry were no better kept than any other vows whatsoever; and the songs of the Troubadours were not more decent, and certainly were much less refined, than those of Ovid.”

Già in questa prima parte è percepibile non tanto una giustificazione della negatività del personaggio di Harold quanto un moralismo di fondo, il quale si palesa qui sotto forma di una condanna sia di una certa lascivia che egli attribuisce ai secoli dell’amor cortese sia dell’ipocrisia dei critici. Verso la fine dell’aggiunta, poi, troviamo un’altra espressione di questo moralismo sotterraneo, anche questa del tutto inattesa:

I now leave the “Childe Harold” to live his day such as he is; it had been more agreeable, and certainly more easy, to have drawn an amiable character. It had been easy to varnish over his faults, to make do more and express less, but he never was intended to be an example, further than to show, that early perversion of mind and morals leads to satiety of past pleasures and disappointment in new ones, and that even the beauties of natures and stimulus to travel (except ambition, the most powerful of all excitements) are lost on a soul so constituted, or rather misdirected.” 13

Parlando di Harold Byron parla di se stesso. Ma, al di là di questo, un tale suggerimento di quale messaggio morale possa celarsi all’interno del testo si presta a molteplici interpretazioni. I lettori, infatti, sapevano bene chi era l’autore di Childe Harold: se provassimo a leggere la risposta di Byron alle critiche mosse al suo personaggio calandoci nei loro panni, potremmo pensare, com’è possibile che qualcuno abbia fatto, che buona parte dell’aggiunta sia frutto di una buona dose di ipocrisia. Se scegliamo questa chiave di lettura, allora tutta l’aggiunta suona alquanto confusa e goffa.

Ma, chi ha familiarità con la mirabile “honesty” di Byron, la quale non è altro che la medesima che ritroviamo in Don Juan, intenta a graffiare a forza di versi satirici l’ipocrita società inglese, non può non rintracciare nel sottosuolo di questa aggiunta un forte senso morale, cioè un implicito e rigido moralismo che guida i pensieri e le parole dell’autore.

Questa aggiunta con questa particolare sensibilità morale potrebbe apparire un caso isolato, ma tale non è, perché richiama le risposte che Byron diede alcuni anni più tardi alle ben più pesanti accuse di oscenità e di immoralità che seguirono alla pubblicazione di Don Juan.14 Certamente, come ho già detto, non si può parlare di un Byron moralista, o almeno, non in modo sbrigativo. Tuttavia, è stato fatto notare che, sebbene incorreggibile libertino, era capace di diventarlo, in particolar modo quando qualcosa lo urtava o lo infastidiva, come dimostra anche il satirico e puritano The Waltz 15, oppure lo stesso Don Juan, il quale si può genericamente definire il frutto di un risentimento covato a lungo.16

Per quel che riguarda l’aggiunta, essa rientra di fatto tra le risposte ad una critica ai suoi occhi ipocrita e seccante. Eppure, il moralismo non è semplicemente un volto che emerge solo in determinati contesti: diversi aspetti biografici lasciano intravedere come un certo puritanesimo, che è assente sul piano biografico immediatamente accessibile, nonché nelle opere, sia presente altrove.17

Di fronte a questa ambiguità, la quale appare come irrisolvibile, e che si estende fino a comprendere, oltre al piano biografico, anche quello psicologico, si ha l’impressione che si tratti di una delle conseguenze dell’educazione calvinista ricevuta nell’infanzia. Se questo puritanesimo per così dire “latente” si rivelasse un’ipotesi accettabile, vale a dire se la sua entità fosse più significativa di quel che appare, esso potrebbe costituire una spiegazione di molti aspetti apparentemente ingiustificabili, tra i quali uno un po’ spiacevole e controverso di Don Juan18. Inoltre, si consoliderebbe la giustificazione, che ormai pare formulata in modo definitivo, di quella sorta di principio di delirio che è evidente nell’arco di tempo che va dagli anni giovanili al periodo immediatamente precedente al divorzio dalla moglie Annabella, durante il quale Byron manifesta una forma di ossessione per il pensiero di essere un angelo caduto o condannato a compiere il male.

Se il medesimo puritanesimo latente sia anche una possibile giustificazione dell’ammirazione per Pope, nonché per altri autori satirici del secolo precedente, come Dryden e Swift (nei quali, dopotutto, si può ritrovare una “honesty” simile a quella byroniana) è difficile dirlo. Tuttavia, resta quella tendenza di Byron al moralismo, evidente non tanto nelle opere quanto su un piano psicologico, la quale non lo pone certamente fuori dai canoni romantici: si pensi a Coleridge, a Shelley. Ma, in ogni caso, rappresenta un aspetto che non si può trascurare quando si parla della produzione satirica.

Un altro elemento che senza dubbio fa di Byron un romantico un po’ insolito, dopo l’ammirazione per Pope e la predilezione per il comico e per la satira, è la particolare importanza che egli dà al realismo, inteso sia come verosimiglianza delle descrizioni di luoghi e di aspetti di un determinato ambiente, sia come aderenza alla realtà, ai fatti e alle esperienze vissute. È stato fatto notare da Diego Saglia come, nell’introduzione che Byron fa della “oriental taleThe Bride of Abydos, con tutte quelle “immagini ricche di colori, suoni e profumi”, il poeta esibisca con noncuranza alcuni aspetti di un oriente già noto ai lettori inglesi.19 Byron, sì, sfruttava immagini ed elementi che facevano parte di un immaginario e di una conoscenza collettivi; tuttavia, non bisogna dimenticare che lo stesso, attraverso questo elenco che troviamo nei primi versi di The Bride of Abydos, i cui elementi non s’immaginano in un paesaggio concreto, ma creano piuttosto un’atmosfera, sta richiamando fantasmi di luoghi e di cose che egli aveva visto personalmente. Era questo che lo distingueva da altri autori che descrivevano l’oriente, e che nutriva il suo orgoglio, dal momento che egli dava una particolare importanza a questa cosa.

Byron, infatti, non solo considerava importante una certa aderenza alla verosimiglianza; la menzione della quale, a chi ha familiarità con l’aneddotica byroniana, non può non ricordare la sprezzante osservazione sul “western sky” con la sua peculiare “tint of yellow green” di Coleridge.20 Nella prefazione ai primi due canti di Childe Harold, egli introduce il discorso dicendo che il poema è stato composto mentre l’autore si trovava in buona parte dei luoghi che vi vengono descritti, e che le parti relative alla Spagna e al Portogallo sono state composte sulla base di osservazioni fatte personalmente da lui stesso. Dopodiché spiega: “Thus much it may be necessary to state for the correctness of the descriptions”.21 Una tale attenzione al realismo, nonché una prefazione in cui si intende sottolineare come l’elemento più importante del poema sia non la storia, bensì i luoghi in cui il pellegrino fittizio si sofferma, non si possono ricondurre del tutto l’orrore di Byron per le critiche, che pure dà quel tono particolare, tra l’arrogante e il seccato, a molti suoi scritti introduttivi. Ad aumentare l’impressione che si tratti di una reale puntigliosità di Byron vengono anche le note e le parti in prosa relative ai due canti del poema, le quali sono copiose e riportano diverse osservazioni di carattere descrittivo, folkloristico, storico, cronachistico e di altro genere.

Quest’attenzione per l’esattezza di descrizioni e di fatti reali, nonché questa sorta di puntiglio, il quale lo porta a dimostrare in tutti i modi che ciò di cui scrive non è mera invenzione, sono pressoché i medesimi che lo spingono ad usare dei fatti realmente accaduti e documentati come base per i propri edifici immaginari, nonché ad una certa incapacità di fare a meno di sviluppare gli stessi attorno alla propria esperienza autobiografica. Leslie Alexis Marchand dice in proposito: “[…] no ever writer was ever more patently autobiographical in the creations of his imaginations. In fact, this became so much a habit of his mind and of his composition that even when he deliberately set out to write objectively, as in his historical dramas, in which he prided himself on fidelity to the written records of characters and events, he could not but make the major figures over into personalities like himself with problems that were his own”.22

Per quanto riguarda l’attenzione per l’esattezza storica menzionata da Marchand, ci dice qualcosa la passione che Byron aveva per i romanzi di Walter Scott.

Byron verosimilmente non lesse Ivanhoe, che viene menzionato in una lettera a John Murray ma solo per sapere di cosa si tratta. Tuttavia, sono documentate le sue richieste di romanzi di Scott, e, già nel 1814, scrive di Waverly: “the best & most interesting novel I have redde since – I don’t know when”. Interessante è anche la pagina del diario ravennate del 5 gennaio del 1820, sebbene le esagerazioni squisitamente byroniane non sempre sono da prendere alla lettera: “Read the conclusion, for the fiftieth time (I have read all W. Scott’s novels at least fifty times) of the third series of “Tales of my Landlord”, – grand work – Scotch Fielding, as well as great English poet – wonderful man!”.23

Proprio questa stessa citazione ci fornisce l’occasione per passare al rapporto di Byron con l’altra produzione del baronetto scozzese, cioè quella in versi, nonché al punto di giuntura tra l’attenzione al realismo che abbiamo visto e la caratteristica che fa di Byron un romantico decisamente anomalo. Non si può dire che Byron non fosse sincero mentre riportava i pensieri sopracitati sul suo diario; tuttavia, un’improvvisa e dubitabile ammirazione per Walter Scott come poeta la si registra solo in seguito al consolidarsi dell’ammirazione per Walter Scott come uomo, cosa che avvenne solamente dopo il 1815. E il diario è del 1820.

Prima che Byron facesse la personale conoscenza di Scott, in occasione dei “morning gatherings” di John Murray durante la primavera e l’estate del 1815, la più nota menzione del poeta scozzese tra le sue carte è quella che appare nella famigerata English Bards & Scotch Reviewers, in termini che dovettero fare assai poco piacere a Scott. È bene precisare che i personaggi letterari che vengono attaccati in English Bards & Scotch Reviewers sono quasi tutte figure verso le quali Byron non sentiva di dover provare ammirazione, o almeno, non all’altezza della stesura. Alcune di queste, specialmente dopo che Byron ebbe fatto la loro personale conoscenza, assunsero un aspetto molto diverso ai suoi occhi. Tra queste, vi è proprio Walter Scott.

Ciononostante, e sebbene English Bards & Scotch Reviewers sia più il frutto di una certa malizia lasciata galoppare che non di pensieri espressi lucidamente, i difetti che Byron attribuisce a Scott coincidono con le effettive ragioni per cui non apprezzava la sua poesia. A tal proposito, cito nuovamente Marchand: “His satiric summaries of The Lay of the Last Minstrel and Marmion give an inkling of the reasons for his dislike of this kind of “stale romance”. Lovers of Scott in Byron’s day as well as later must have felt that he was needlessly and cruelly breaking the fine border tales on the wheel of his own caprice. But Byron had already developed a native distaste for fanciful tales divorced from life. He could as truthfully have said what he later wrote to John Murray: “But I hate things all fiction… There should always be some foundation of fact for the most airy fabric, and pure invention is but the talent of a liar” ”.24

La distanza dei gusti di Byron dalle “things all fiction”, la quale, come si è visto, viene opportunamente definita “native” da Marchand, si può rintracciare già nelle poesie giovanili. Sebbene la maggior parte dei componimenti contenuti in Fugitive Pieces, e quindi in Hours of Idleness, siano per lo più impersonali imitazioni dei versi contenuti in The Poetical Works of the Late Thomas Little di Thomas Moore, del quale non imita solo lo stile ma riprende anche i temi, si percepisce già un certo tono realistico, nonché la tendenza a sviluppare il componimento intorno ad un elemento autobiografico. Significativo, e non solo a mio avviso, è poi un componimento che compare in Hours of Idleness, la raccolta che Byron pubblicò nel 1807, quando ormai incominciava a sviluppare una certa indipendenza rispetto ai suoi modelli.

Si tratta di To Romance, una sorta di addio alle fantasie poetiche giovanili:

Parent of golden dreams, Romance!

Auspicious Queen of childish joys…

No more I tread thy mystic round,

But leave thy realms for those of Truth…

Romance! disgusted with deceit,

Far from thy motley court I fly,

Where Affectation holds her seat,

And sickly Sensibility…25

Questa dottrina poetica che viene qui espressa, forse seriamente, forse per gioco, richiama effettivamente la dottrina della poesia byroniana più matura, la quale vede l’aderenza alla realtà e alle esperienze realmente vissute come elemento fondamentale dell’opera poetica. Tale dottrina Byron la abbracciò definitivamente incominciando a costruire Childe Harold a partire dalla propria esperienza autobiografica, e la mantenne nel tempo, intatta nonostante lo sviluppo di due stili pressoché indipendenti e profondamente diversi tra loro. Marchand scrive che “in fact, he could write effectively no other way”.26 Fanno eccezione alcune opere, tra le quali quelle che hanno risentito della prossimità di Shelley: in modo particolare Manfred, il quale presenta un immaginario fantastico che è estraneo a Byron. Ma, per il resto, essa proseguì fino a Don Juan, il quale, sebbene Byron non avesse un piano – “I have no plan – I had no plan”27– finì per ritrarre non solo la verità ma, attraverso un realismo comico, la vita, la sua vita. “Almost all Don Juan is real life, either my own, or from people I knew”.28

Don Juan si presenta, utilizzando le parole del suo autore, come “a versified Aurora Borealis”. Byron seguì il modello dei poemi eroicomici italiani a lui cari, il Furioso dell’Ariosto e il Morgante di Pulci, nonché della poesia di Pope, di Swift e degli altri che abbiamo già nominato, finendo così per creare una sorta di Tristram Shandy in ottava rima, la quale mai era stata usata prima d’allora nella poesia inglese. In un’opera che non ha un vero e proprio filo narrativo, egli dà voce ai pensieri del momento, si perde in digressioni, si permette voli pindarici. Utilizzando il suo insolito Don Giovanni come pretesto, scrive tutto ciò che gli passa per la mente: inserisce allusioni a persone che avevano fatto parte della sua vita, come sua moglie; racconta le situazioni più disparate vissute da lui in prima persona o raccontategli da altri; interrompe per lunghi periodi la narrazione per uscire dalla finzione e per esprimere le sue personali opinioni su qualunque soggetto reale capiti. Mentre componeva Don Juan, Byron non aveva nessuno scopo in particolare, né aveva in mente un vero e proprio soggetto: piuttosto, era come se stesse conversando.

Al di là delle varie ambiguità che abbiamo visto finora, Byron reputava che fosse Childe Harold la sua opera migliore. Questa sua convinzione vacillò con la riscoperta di Pope, una volta concluso il IV canto dello stesso poema. A partire da Beppo, infine, egli scoprì uno stile che gli era più congeniale. Cito a tal proposito di nuovo Leslie Alexis Marchand, il quale si espresse così: “In Don Juan he found his unique vehicle for the expression of every facet of the Romantic ego in a poetic novel-satire, “a versified Aurora Borealis”, that create its own rules and its own artistic unities”.29

Ed ecco dunque il sovrapporsi di romantico e di opposto a romantico, conseguenza che è inevitabile quando si mescolano l’orientalismo, l’ideale e il soggettivo con l’oggettività e il realismo comico della satira. Una sovrapposizione i cui germi sono già nella stessa idea di poesia di Byron, la quale, come scrive Fiona MacCarthy, “was that it was necessary to have known strong passions in order to depict them”.30 Forti passioni che non sono altro che forti emozioni e forti sensazioni; forti emozioni e forti sensazioni che non sono altro che quelle esperite in situazioni di ogni sorta, meglio se estreme: cioè sensazioni che, per citare Byron stesso, sono “the great object of Life”, “to feel that we exist”.31 L’idea di fondo di questa particolare dottrina, la quale mescola insieme romanticismo e realismo, cioè soggettività e concretezza antiromantica, è che il soggetto poetico dev’essere la vita, ma anche la realtà: ed essa trova la sua perfetta espressione in Don Juan, che si presenta come l’opera meno romantica di Byron, eppure, al tempo stesso, la più soggettiva.

Quanto abbiamo detto finora ci porta adesso come obbligatoriamente a considerare un’ultima cosa che pone Byron in una posizione singolare, talmente singolare che è antitetica non solo rispetto a Coleridge, inteso come rappresentante delle dottrine poetiche fondamentali del Romanticismo inglese, ma pressoché ai romantici in generale. Si tratta di un fatto che ancora oggi suscita simpatie o antipatie a seconda delle parti. La ragione della stroncatura della poesia di Keats da parte di Byron non è subito palese, e se fosse quella che sembra, vale a dire le opinioni di Keats sulla poesia in generale, ma più in particolare la sua visione della poesia di Pope come un modello negativo, allora si potrebbe pensare che Byron si fosse abbandonato anche in questo caso a quella boriosa e irrazionale antipatia istintiva, la quale gli era tutt’altro che estranea. Ciò che colpisce di più, soprattutto alla luce del fatto che Byron aveva notato il talento di Keats, come lascia intendere la lettera a Murray del 26 aprile 1821, è che, mentre Leigh Hunt e Shelley credevano sinceramente nel talento del giovane, tantoché, ognuno a modo suo, lo aiutavano, il primo permettendogli di farsi conoscere tramite il suo The Examiner, il secondo, con il suo consueto, particolare entusiasmo, incitandolo a coltivare il suo talento, Byron si riduceva a costellare le sue lettere di offese a Keats ma soprattutto alla sua poesia. Proprio queste stesse lettere, però, testimoniano che la ragione di tanta aggressività era meramente letteraria: Byron accusava Keats di scrivere cose troppo immaginose; il che è come dire che reputava inconcepibile la sua dottrina poetica, la quale, fondamentalmente, si basava su una concezione estetica della poesia.

Una conferma di ciò ci viene da quel che avvenne in seguito alla morte di Keats. Una volta che Shelley gli ebbe comunicato (tra l’altro fornendogli un’informazione sbagliata, dal momento che Keats non morì affatto a causa di un’ennesima stroncatura ricevuta dal Quarterly Review) che il giovane era morto per l’asprezza della critica nei confronti della sua poesia, Byron cambiò radicalmente atteggiamento. Ciò si può ricondurre al fatto che egli stesso aveva vissuto in modo traumatico la stroncatura dell’Edimburg Review: la memoria di quella recensione crudele, nonché di tutte le recensioni aspre ricevute in tutto l’arco della sua carriera, dovette premere sulla sua compassione e sulla sua empatia, a tal punto che l’ormai defunto Keats divenne materia per alcuni versi di Don Juan, sebbene non senza l’immancabile, purtroppo impietosa “honesty”:

John Keats, who was killed off by one critique,

Just as he really promised something great,

If not intelligible, – without Greek

Contrived to talk about the Gods of late,

Much as they might have been supposed to speak.

Poor fellow! His was an untoward fate: –

Tis strange the mind, that very fiery particle,

Should let itself be snuffed out by an Article. 32

Come si può vedere da questi stessi versi, l’ostilità di Byron nei confronti del giovane sembra non fosse dovuta ad altro che ad un’incompatibilità di dottrine. Byron non poteva apprezzare una poesia fondamentalmente estetica, né, verosimilmente, sarebbe mai giunto a comprenderne il senso. Come aveva ben capito lo stesso Keats, sul piano poetico si ponevano pressoché l’uno agli antipodi rispetto all’altro. “He describes what he sees – I describe what I imagine – Mine is the hardest task”, scrisse egli in una lettera del settembre 1819 al fratello George. Dall’altro lato, Byron detestava le “things all fiction”, il che poneva i due in una condizione di incomunicabilità prima ancora che di incompatibilità.

Come si è visto, dunque, vi sono diversi aspetti che fanno di Byron un caso particolare all’interno del panorama romantico. Essi si rintracciano su più piani; e talvolta è difficile conciliarli con gli aspetti indubbiamente romantici. Tuttavia, più che come delle contraddizioni, essi vanno visti come un’altra faccia della stessa medaglia. Byron, infatti, era indubbiamente un romantico: per sua natura più che per scelta, era incurabilmente un idealista. Ciò gli precludeva la possibilità di assumere l’atteggiamento di chi non vede alcuna distanza tra il reale e l’ideale, cioè la “common sense view” di Pope.33 E però, allo stesso tempo, era dotato altrettanto naturalmente proprio di questo “common sense”, il quale gli donava quella concretezza e quella capacità di trovare il lato ridicolo che sono estranee ad altri romantici. Per dirla in breve, parafrasando Marchand: Byron era sì fatto da tendere all’ideale senza ammettere compromessi, e però, proprio per questa stessa ragione, oscillava continuamente tra la malinconia di Childe Harold e l’atteggiamento sardonico nei confronti della realtà, la quale è e sempre sarà infinitamente più rivoltante dell’ideale, che si ritrova in Don Juan. “Of course, Byron seemed at times to be admiring the classical (or neo-classical) acceptance of the world as it is. But because he was a child of his age, and could not detach himself sufficiently from the romantic longing for what the world does not give, he could seldom achieve the Augustan calm he admired in his idol Pope”.34 Byron, infatti, si presenta, sia in poesia che su altri piani, come continuamente diviso tra una tensione all’ideale e un’amara constatazione del reale; la quale si traduce ora in pensieri malinconici e in atteggiamenti romantici, ora nella rappresentazione cinica e comico-realistica della vita. A questo proposito, risultano illuminanti le parole di Hoxie Neale Fairchild, il quale, in The Romantic Quest, si espresse come segue: “Aspiration, melancholy, mockery – the history of a mind too idealistic to refrain from blowing bubbles, and too realistic to refrain from picking them”.35


NOTE

1 Mario Praz, Introduzione a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, ed. BUR Saggi, 2018. L’antitesi, com’è noto, è stata introdotta da Goethe e da Schiller.

2 A questa abitudine appena citata si lega la leggenda di un’altra abitudine, quella secondo la quale Byron scriveva di getto. In verità, sembra che Byron fosse solito comporre mentalmente i versi, e che li riportasse sulla carta solo quando ormai aveva abbastanza chiaro cosa intendeva scrivere. Per quanto riguarda l’assecondare un flusso di pensieri e di passioni, è solo una mia supposizione, ma ritengo che non vada trascurato il ruolo che la poesia aveva per Byron nella sua vita quotidiana, vale a dire come mezzo per liberarsi di pensieri ed emozioni ossessionanti. Anche la tendenza a scrivere senza alcun desiderio di apportare correzioni o di meditare e ritornare sul testo ha un che di “intrinsecamente” romantico: nel senso che, considerando la psicologia di Byron nel suo complesso, viene da pensare che si tratti piuttosto di una questione di carattere, anziché dall’adesione alla dottrina dell’ispirazione immediata e infallibile che si risolve in spontanei flussi di emozioni e di versi. Per riferimenti, le due biografie di L. A. Marchand, Byron: A biography e Byron: A portrait, e lo studio più recente e aggiornato di Fiona MacCarthy: Byron: Life and Legend. Tutti i riferimenti per la biografia di Fiona MacCarthy si riferiscono all’edizione 2014.

3 Si veda in particolar modo il modello dell’Urfaust in un’opera come Manfred. Per altre letture gotiche, come Zeluco o The German’s Tale di Harriet Lee, le quali, più che ripercuotersi sulle opere, contribuirono ad alimentare la convinzione di Byron di avere una natura demoniaca e di essere predestinato a compiere il male, su si veda Fiona MacCarthy, Byron: Life and Legend. In particolare, p. 251 per The German’s Tale e l’ossessione di Byron per i personaggi in cui rintracciava le conferme della sua natura demoniaca.

4 Riguardo ai dubbi di Byron circa Childe Harold’s Pilgrimage e l’iniziale preferenza per Hints from Horace, Fiona MacCarthy, Byron: Life and Legend, p. 139, e Leslie Alexis Marchand, Byron: A Portrait, p. 98 e p. 101

5 William Gifford (1756 – 1826). Poeta satirico, le sue satire sono caratterizzate dall’uso del distico eroico alla maniera di Pope.

6 George Crabbe (1754 – 1832). Anche Crabbe si può considerare più vicino a Pope e a Samuel Johnson che non alla poesia a lui contemporanea. Anche lui nella sua produzione utilizza il distico eroico.

7 Samuel Rogers (1763 – 1855). Sebbene oggi si riconosca che la poesia di Rogers pecca di un’ispirazione un po’ fiacca, all’altezza della tarda età vittoriana veniva ancora considerato uno dei più grandi poeti inglesi a fianco all’amico e poeta laureato Wordsworth. La sua opera di maggior successo fu The Pleasures of Memory (1792), in distici di abile fattura. Rogers di fatto era noto soprattutto per le sue numerose amicizie letterarie, tra le quali figuravano lo stesso Byron e Thomas Moore. La sua poesia, in verità, è notevole solamente dal punto di vista formale, per la disinvoltura nell’applicazione della lezione dei poeti augustei. Byron lo apprezzava anche le per la lingua affilata e per la sua arguzia.

8 Tramite L. A. Marchand, Byron’s Poetry, il quale rimanda a Letters and Journals, IV, 169. Si tratta della lettera del 15 settembre 1817.

9 Byron’s Poetry, p. 28

10 Ibidem.

11 Byron’s Poetry, p. 9

12 Per una definizione di “honesty” byroniana, espressione che la sottoscritta ha ripreso dal professor L. A. Marchand, si veda sempre nel di lui Byron’s Poetry, p. 5, da cui cito l’estratto seguente: “He liked to think of himself as a Regency Dandy and yet he was sincere in admiration of Shelley’s simplicity and unaffected manners. Occasionally with strangers, but seldom with his friends, he struck an attitude, though at the bottom he had a “desperate integrity” and a disarming self-honesty. He was a leader of the Romantic revolution in poetry who clung to the literary ideas of Alexander Pope”.

13 Entrambe le citazioni provengono da Addition to the Preface, pp. 3-4, Childe Harold’s Pilgrimage. Ed. Cambridge Scholars Publishing, 2009.

14 Per un breve ritratto dello scandalo che seguì alla pubblicazione del Don Juan, nonché per alcune delle risposte di Byron, pp. 366-367, Byron: Life and Legend, Fiona MacCarthy.

15 Byron’s Poetry, p. 33

16 Su Don Juan esiste una bibliografia varia e copiosa. Charles Du Bos, ad esempio, in Lord Byron e la fatalità (trad. it. di Luisa Moscardini, Castelvecchi, 2015), avanza l’ipotesi che l’opera trovi i suoi germi nel matrimonio con Annabella Milbanke: lo scandalo del divorzio, al quale seguì l’esilio volontario, avrebbero provocato in Byron un risentimento che crebbe e si ingigantì con il tempo, fino a che non esplose, trovando voce in una satira implacabile e misogina quale è Don Juan. Sono poi molte altre le interpretazioni che vedono Don Juan come il frutto di un risentimento profondo. Per quel che riguarda la mia opinione, Don Juan trova sì materiale innanzitutto nel matrimonio, come suggerisce Du Bos, e quindi in altre esperienze biografiche, ma a mio avviso contiene anche un aspetto – quello dello “smascheramento” della falsa castità e angelicità della donna, la quale idealmente doveva avere tali attributi, e non solo secondo la società inglese – che non si può ricondurre alle sole esperienze biografiche, o al solo risentimento per le varie figure femminili che rappresentarono per lui un tormento.

17 Sin dagli anni giovanili si scorge in Byron un atteggiamento ambiguo e contraddittorio nei confronti del codice morale del suo tempo. Si registra una forte inclinazione all’erotismo e al proibito, ma anche una notevole coscienza morale. Anzi, si può supporre che fosse proprio questa a rendere esaltante e affascinante l’immorale, il quale per Byron è stato spesso causa di tormento e di esaltazione al tempo stesso. Ciò che lascia sospettare che ci fosse un profondo puritano dietro al “wandering outlaw of his own dark mind” è innanzitutto quella convinzione di essere predestinato. Vi è poi la controversa relazione con la moglie, Annabella Milbanke. Annabella era un esempio di virtù morale: di vera virtù morale, non di falsa pudicizia e di pretesa castità, le quali costituiscono a più riprese il bersaglio principale di tutto il Don Juan. Infine, vi è l’opinione di Shelley, che sperava che Byron riuscisse a liberarsi dalle sue superstizioni. Il Byron che egli dipinge in Julian and Maddalo è un Byron notevolmente realistico, sebbene poco noto: si tratta dell’altro volto di Childe Harold, quello di Sardanapalo che, sebbene scettico e disincantato, crede in Dio, che, nonostante non apprezzi nessuna delle “sette” religiose note, non è estraneo a riflessioni su Dio e sulla vita dopo la morte. Verosimilmente, è questo stesso Byron che condannava Claire Clairmont per la sua condotta sessuale, nonché gli Shelley, per il loro ateismo ma anche per la loro indulgenza rispetto alla dottrina godwiniana dell’amore libero e quindi alla promiscuità. Per riferimenti, L. A. Marchand, Byron: A Biography.

18 Si tratta dell’attacco misogino su cui il poema si fonda. Si veda la nota 11

19 I discorsi dell’esotico: l’oriente nel romanticismo britannico 1780 – 1830, Diego Saglia, 2002. Si tratta dell’incipit dell’Introduzione. I versi cui si fa riferimento sono:

Know ye the land where the cypress and myrtle

Are emblems of deeds that are done in their clime,

Where the rage of the vulture – the love of the turtle –

Now melt into sorrow – now madden to crime? –

Know ye the land of the cedar and vine?

Where the flowers ever blossom, the beams ever shine,

Where the light wings of Zephyr, oppressed with perfume,

Wax faint o’er the gardens of Gùl in her blossom?

………………………………………………………………………….

‘Tis the clime of the East – ‘tis the land of the Sun –

(The Bride of Abydos, vv. 1-16)

20 Recollections of the Last Days of Shelley and Byron, Edward John Trelawny, 1858.

21 Stessa edizione dell’aggiunta alla prefazione, si veda nota 6.

22 Byron’s Poetry, p. 13

23 Entrambe le citazioni sono state riprese tramite Byron: Life and Legend, p. 248 per il diario londinese, p. 389 per il diario ravennate.

24 Byron’s Poetry, p. 25

25 Il suggerimento che questo componimento giovanile sia una sorta di dichiarazione poetica, e che dunque indichi che Byron, già a questa altezza, prediligeva il realismo e l’aderenza ai fatti e alle esperienze rispetto alla finzione, è stato avanzato da L. A. Marchand. Si veda sempre Byron’s Poetry, cit. p. 16

26 Byron’s Poetry, p. 159

27 Letters and Journals, IV, 342-343. Lettera del 12 agosto 1819 a John Murray, tramite Marchand.

28 Letters and Journals, V, 346. Lettera del 23 agosto 1821. Come sopra.

29 Byron’s Poetry, p. 164

30 Byron: Life and Legend, p. 366

31 Lord Byron: Selected Letters and Journals. Lettera di Byron del 6 settembre 1813 ad Annabella Milbanke, p. 65

32 Don Juan, Stanza 60, Canto XI.

33 Per l’intero discorso sulla naturale tendenza all’idealismo di Byron e sulla sua collocazione all’interno del panorama romantico inglese, si rimanda a Byron’s Poetry, pp. 6-7

34 Byron’s Poetry, pp. 6-7

35 H. N. Fairchild, The Romantic Quest, 1931, p. 370

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.