LINGUAVIRUS. Ilenia Appicciafuoco, “Nei sentieri della linguavirus”

Ilenia Appicciafuoco, Nei sentieri della linguavirus, Novecento, Roma, 2019, pp. 198, € 15,00

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di Stefano Lanuzza
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[…] ma, per semplificare, / ti aggiungo che, se è vero che, per me (come dico e ridico) è politica tutto, / a questo mondo, non è poi tutto, invece, la politica: […] / amo, così, quella grande politica / che è viva nei gesti della vita quotidiana, nelle parole quotidiane (come ciao, / pane, fica, grazie mille): (come quelle che ti trovi graffite dentro i cessi, / sdraiate sopra i muri, tra uno slogan e un altro, abbasso, viva): / […] (E. Sanguineti, Mikrokosmos, 2004).

Introdotto dall’esauriente Prefazione di Simona Cigliana, il saggio – originariamente una tesi di laurea – di Ilenia Appicciafuoco, Nei sentieri della linguavirus (Novecento, Roma, 2019, pp. 198, € 15,00), specificamente incentrato sull’opera in versi di Marco Palladini dalla fine degli anni Ottanta a oggi, è come un’applicata fenomenologia del poeta ‘militante’, certo l’ultimo e il più fervidamente attivo dopo i romani d’adozione Pasolini e Pagliarani con gli evocabili autori di un’ideale ‘scuola romana’ che avrebbe tra i suoi maggiori protagonisti Gianni Toti poligrafo d’inusitato talento linguistico, Mario Quattrucci giallista gergante in chiave belliana con un occhio al ‘trilussiano’ Mario Marè, e un maestro come Mario Lunetta, romanziere, poeta e critico di cui rimane, ineludibile, un’opera sterminata.

Di Palladini – scrittore dall’acuta sensibilità politica refrattario ai coevi politicanti, già attento all’americana Beat generation (“Beat-a Generazione” lui affabilmente la chiama), critico agguerrito e uomo di teatro con nume tutelare un Artaud più dei Brecht, Beckett o Carmelo Bene –, l’autrice svolge una concentrata e sistematica disamina dei libri di poesia, ognuno di questi caratterizzato dal ricorso a un codice linguistico-lessicale studiatamente alieno dai moduli della comunicazione standardizzata: appunto una “linguavirus” votata, proprio tecnicamente, a intridere demistificare destabilizzare, ma poi anche ‘sanificare’ in modi omeopatici l’intero discorso della poesia italiana novecentesca storicizzata ovvero ‘storificata’ in guise autoreferenziali anzichenò; e che, guardando per esempio all’antologia Poesia italiana del secondo Novecento (1996) di Cucchi-Giovanardi, non hanno il dono dell’obiettività né della simpatia.

A partire dall’esordio con Et ego in movimento (1987), con la franca acribia di chi, come un congeniale Céline, s’autobiografa per mettersi direttamente in gioco, Palladini aggredisce le abitudini di un lettore fin troppo abituato alla supina fruizione dello stanco intimismo, talora domestico, altre volte banale, spesso involuto e astruso promosso da un’industria editoriale restia a rinnovare i propri scontati cataloghi e priva di conoscenza fuori di sé.

Il poeta è sì un ‘Ego’, ma ‘in-un movimento’; ed è un Io critico-movimentista, un inquieto rivoltoso, erratico e inesausto, un franco tiratore che vuol interpretare/cambiare lo stato di cose con l’arma della parola. Lo sostengono un mistilinguismo ritmico, un “trovaparlato” di cacofonie, spurio e vario, metamorfico e imprevedibile, anche satirico-parodistico desublimante, di conseguenza antisentimentale, implicato in una ricerca che, fin troppo strenua nel suo pervicace attenersi alla realtà effettuale, non cede a nessuna consolazione o conciliazione psicologica. È poi in siffatto gioco ininterrotto di stringere “corrispondenze fra parola e cosa” che – osserva la Appicciafuoco – l’autore pone le basi di una poiesis del tutto personale integrando in un periglioso flusso non privo di stasi e umorose discrasie, “linguaggio, arte, scrittura e realtà” (cfr. I. Appicciafuoco).

Con Autopia (1991) il poeta sembra sospendere l’utopia, la sete di giustizia sociale contraddetta dai dogmatismi e sonnambulismi ideologici degli apparati politici, per concentrarsi sulla propria opera con cui persegue una totalità linguistica svariante fra italiano e gergo dialettofono (si pensi all’adiposa macaronea rabelaisiana o al carnascialesco del Céline di Guignol’s band I, 1944) includendo e interiorizzando fatti storici e avvenimenti quotidiani. Qui, dopo il realismo espressionistico del suo primo libro, Palladini adotta, coi simboli di un’‘alterazione’ del reale che parrebbe richiamare le teoresi di Edoardo Cacciatore, appartato poeta e filosofo siciliano vissuto a Roma, un tema del suo indocile discorso: la flânerie, il ‘perdere tempo’ in solitarie spedizioni notturne al fine di ‘prendersi il tempo’ per pensare/pensarsi trascrivendo un ‘mito personale’ un po’ tenuto di conto e un po’ demistificato nell’‘autopia’.

E bighellona il poeta-flâneur per fantasmatiche borgate come scortato dalle ombre inquiete dei dandy Baudelaire e Poe, o dallo spettro scarno e sfuggente di un Pasolini ucciso presso il Lido di Ostia il 2 novembre 1975. Questo delitto, tra i ‘misteri italiani’ di un’epoca insanguinata, è da qualcuno comparatisticamente reputato tra i tanti effetti, devastanti per il nostro Paese, dopo la minaccia che nel 1974 Kissinger rivolge ad Aldo Moro (“Lei la pagherà cara, molto cara”) in procinto di prospettare una ‘democrazia compiuta’ includendo nel governo italiano il Partito comunista di Berlinguer. Il progetto di Moro non si realizza a causa dell’assassinio nel 1978 dell’uomo politico da parte di Brigate ‘cosiddette rosse’… Così colpisce la poesia Le ceneri di Pier Paolo che, articolata in due parti, svolge una fenomenologia en poète della borgata mitizzata dallo scriba nato a Casarsa (cfr. Ragazzi di vita, 1955, e Una vita violenta, 1959) prima di prorompere in un corrosivo biasimo contro la società letteraria che, dopo la morte di Pasolini, fa “scempio delle sue idee e della sua figura” (cfr. Appicciafuoco).

Ovunque e Novunque (1995), terza raccolta dove ogni ‘ovunque’ è ‘nonluogo’, costituisce l’accorata testimonianza di un poeta che vuole denotare il negativo non solo denunciandolo, ma anche decrittarlo ‘ascoltandolo’: prestando orecchio ai pervasivi rumori del caos, al clangore asintattico del kitsch imperversante da megafoni mediatici alfine traslati nel respiro mefitico di un’estate “sfranta” al pari delle parole del poeta. Parole che se si stravolgono è per rifondare il loro pur malagevole approccio alla verità ultima, sempre intollerabile, d’un reale scioltosi nell’inconsistenza e che mai consola: al pari d’un amore vuoto, avaro e mediocre, precariamente iniziato e concluso con l’usuale scambio di ‘messaggini’ emblematizzato nel poemetto Fax d’amour.

Dopo Resistenze I (1992) e Resistenze II (1997), “scritture polispoietiche” di alcuni autori antologizzati a cura di Palladini, è la volta di Fabrika Póiesis (1999), occasione che consente al poeta di evidenziare vieppiù il suo talento onomaturgico, con l’attitudine a interconnettere polisemicamente, manipolare, ricreare o coniare i significanti incrementandone il significato, nonché, nel caso, una coltivata valenza musicale. Ed ecco, variamente allegorica, una rassegna fisiognomica con seriali tipologie di volti e maschere, di microstorie fattesi cronaca; e cinematografari, sportivi, teatranti, politici fallimentari cui non sono da meno i letterati.

Riserva, il poeta, un pensiero di solidarietà per la sofferente Amelia Rosselli, poetessa istintuale il cui delirio schizoide “ragiona oltre l’ottuso”, e per Dario Bellezza che, morto di aids, nei suoi ultimi giorni trascorsi nell’abbandono palesa “la smorfia trista di un drudo smorto” sopraffatto dall’inelegante spietatezza del mondo… “Il mondo in cui vivo mi ripugna,” scrive Camus “ma mi sento solidale con gli essere umani che soffrono” (L’homme révolté, 1951).

Il mondo è spietato e La vita non è elegante – ammonisce Palladini col suo libro del 2002. La vita, che non è ‘estetica’ ed è a stento fungibile dall’arte, è comunque quella insopportabilmente inflitta dal sistema; e non è armoniosa, magnanima, generosa, bensì meritevole di un disgusto che resta prevalente anche se, per caso e per un po’, sembra poter essere riscattata dall’epifania amorosa… Così, mentre Palladini, da un rivendicato materialismo discendente per li rami dal suo privilegiato Sade, terrebbe a distanziarsi dal côté romantico, c’è poi la sua esegeta che sembra volerne conciliare l’illuminismo e i tratti emotivi per una volta non confliggenti con l’asfittico logos: “L’approccio di Paladini, a una prima lettura intriso di materialismo, può tuttavia nascondere il desiderio di un rapporto autentico, di un amore vero”… Che la deriva fra materialismo logocentrico e uno svincolato soggettivismo resti piuttosto intermittente farebbe supporre una spinta rivoltosa, indubbiamente romantica, espressa già durante l’illuminismo (sec. XVIII) a simboleggiare lo spirito della Rivoluzione francese distruttrice del concentrazionario Ancien Regime. Lo stesso idealismo hegeliano, come le filosofie dell’età romantica insieme alle fenomenologie dell’estetica, non si riassumono forse in una sintesi tra illuminismo e romanticismo? Né si può negare che vi sia del soggettivismo altamente romantico nel marxismo egualitario e nella coeva, grande letteratura europea presso cui la ragione progettuale si dà per base una cogente passione operativa… Alla fine, i lumi dell’illuminismo sembrano rischiarare quelli, pur cangianti, della passione romantica stanti alla base della sempiterna volontà d’arte.

La vita non è elegante” e Non abbiamo potuto essere gentili – si dichiara, omaggiando Brecht, nel palladiniano titolo del 2007: a metaforizzare, tra l’altro, la memoria degli anni dopo il primo terrorismo brigatista e che inquadra un dirigente politico extraparlamentare (a chi legge vien da pensare a una sorta di piccolo Lenin con al seguito dei presunti esecutori di ordini omicidi). Ma ciò a cui l’autore tende maggiormente non è tanto di affrancare il soggetto di riferimento da condanne per colpa, bensì di osservarne la straordinaria metamorfosi; tale – si può osservare – da portarlo, dopo le attività in una sinistra estrema, a collaborare, appena libero, anche con certa stampa smaccatamente ‘di destra’ o con alibi ‘liberal’. Quando “la metamorfosi è una lumaca, come una bava di esistenza a perdere” glossa Palladini in un verso metasapienziale… Intanto, testimone un reciso distico, “i conti con la storia non si possono mai saldare / ma un uomo libero lo si deve liberare”.

Si leggono fraterne dediche ad amici scrittori, in questa raccolta dove l’ironia e il sarcasmo dell’autore vanno a sciogliersi anche nel caro ricordo dell’ilare, dimenticato Vito Riviello, poeta dell’iperfetazione o della capacità antipuristica di esagerare, di stare ‘sopra le righe’ piuttosto che ‘sotto’, insomma di ‘superfetare’ ossia reinventarsi contro qualsivoglia cauta seriosità: “Perché tu c’insegni, caro Vito, / un semplice segreto: / che scrivere è giocare / nella vita e con la vita”.

Iperfetazioni (2009) per dire di sproni ad altri pensieri, concezioni e ricognizioni sociali, revisioni personali e, relativamente ai versi, sensibilmente stilistiche… Dosando le parole, il poeta riflette sulla propria vicenda umana, su un passato rivelatosi una “sponda del nulla” e da cui tentare comunque una ripartenza che non può essere se non ‘dalla parola’, ora più trasparente che mai e “decodificabile anche a una prima lettura” (Appicciafuoco). Emergono, valorizzati, “un discorso filosofico-didascalico”, uno sguardo ‘lontano’, un desiderio di “buon nonsenso” implicante ‘più senso’, un sogno quasi nostalgico della vita (“Sogno o son testo?” – perché quel che si scrive non è sogno); il sentire con Rimbaud, nell’Io che scrive, un ‘Altro’, alias ‘gli altri’, gli sconosciuti che non ti conoscono: “Tu non sai chi penso di essere / tu non sai chi penso che tu sia / e neppure sai chi tu pensi di essere / […] / neppure io so chi penso di essere”… Ma poi valgono, per quel che possono valere, un’altra volta le percezioni, i sensi, la coscienza delle cose con la loro necessaria e perseverante interpretazione.

Nel discorso di Nel mondo percepito (2010) dove, sulla scorta di Nietzsche, Palladini oppone ai fatti le sue perplesse “interpretazioni”, sovviene uno smontaggio delle verità tramandate, uno svuotamento del mediatico “calderone dove tutto va bene (va benemmale)”… Restringendo la propria ottica, il poeta si pone sullo scenario della sua città, Roma: città bestemmiata, pesante retaggio di follia schizofrenica, badiale parte di mezzo dell’Occidente in crisi, matrigna madrepatria sbracata e senza regole, stoccata in quartieri dominati da spacciatori, ciurme criminali, esagitati ultras calcistici che si scontrano con odio cieco e innalzano barricate d’un altro tempo non loro.

In Attraversando le barricate (2013) – per un ‘attraversamento’ che supera le barriere temporali e allude alla contemporaneità d’una idea di rivoluzione antisistema che non può non essere ‘permanente’ – , i versi di Palladini avvolgono in strofe ipercritiche la storia politica, le esperienze conoscitive, il sottomondo metropolitano, il lavoro che ‘stanca chi non ne ha’ (“non fare nulla ovvero questo fare il nulla”), la memoria della madre svanente in un’aura di smemorata mestizia, i fatti esistenziali, l’“Eros pro nobis” venerato e insultato, la morte vista e scampata, la sacralità laica, il male immedicabile, i poeti ‘morti di poesia’, la musica (“MusicalMusa”), la stessa letteratura e ogni arte… L’argomento, mimetico d’un Tutto nell’Uno, è ancora e sempre e senza geremiadi doloristiche, l’aspra vita attraversata “come un / sonnambulo, non credendoci e non comprendendola… / più che altro odiandola…”. Ma “forse soltanto / detestando radicalmente la vita, la si può godere / fino in fondo” al di là dei suoi guasti.

La vida se gasta” pronuncia dolorosamente quel prodigioso José “Pepe” Mujica, comandante guerrigliero e poi presidente contadino e quasi clochard dell’Uruguay. “Guasto è il mondo” dicono attoniti i poeti Oliver Goldsmith e Tony Judt. È guasto il giorno (2015) rincalza l’autore pensando ai Mujica, Goldsmith e Judt mentre fenomelogizza una globalizzazione che invade l’esistenza dei soggetti e conferma il suo infausto nome di “kapitale”: quel capitalismo merceologico che se pervade i gangli del mondo controllando povertà e ricchezza, oppressione, sfruttamento e consumismo, ha contro l’universale forza vitale di un “Bìos” originario che impetra d’affermarsi… Un bìos psyché, un soffio vitale, da Palladini voluto cercare, quantunque con preventiva insperanza, riferendosi alle proprie origini; e, dopo che alla madre in Attraversando le barricate, al padre in quest’ultimo libro: “Quello che resta del padre / è il figlio che percorre il cammino / sapendo che arriverà da nessuna parte // Quello che resta del padre / è l’insistere a voler adorare / quello che non si sa comprendere // Quello che resta del padre / è il sospetto che non ci sono innocenti / e che amare è già fare il male”.

Ciò che è più da evidenziare […] è che il Marco Palladini di È guasto il giorno è completamente diverso dal ragazzo critico, polemico e collerico degli esordi”…: tale spunto dell’autrice del volume, che vale per denotare gli inediti, privilegiati intenti ‘comunicativi’ del poeta irregolare epperò fedele a se stesso, non ne varia la costante poetica fondata sul progressivo impegno e, nei confronti della realtà data, su un dissenso entro cui la contraddizione è, in ogni caso, uno scotto mai abbastanza pagato: “Siamo, in particolare, in dissenso su tutto / Affermiamo che esiste la verità / Ma non sappiamo nulla di certo su essa / È nei minimi fatti la contraddizione / permanente del vivere”.

Uno scrutinio a sé meriterebbe l’attività performativa, assidua pratica che l’autore, navigato performer e manipolatore plurilinguistico, sperimentalista del corpo e della voce, ascrive all’oralità deducendone i precordi e le stesse radici dell’espressione poetica da lui declinata in letture a più registri e suoni, evocative, sapidamente filtrate, capziose, allucinatorie e nondimeno fruibili (“In Italia” egli afferma “la poesia non ha lettori però ha ascoltatori”). Quanto meno si ricordino, tra le sue tante performance dai lampi futuristi, la Litania per Emilio Villa, la Ballata del Futuremoto dedicata a Gianni Toti, il rap Decollare… decollarsi, l’antologico Poetry Music Machine, il mistomusicale Trans Kerouac Road o l’intenso monologo Male/detto Céline, mimesi di uno scrittore variamente equivocato che elegge la “lingua virus” a esemplare viatico… “Il linguaggio virus” conclude Palladini intervistato dalla Appicciafuoco nella parte finale di Nei sentieri della lingua virus “nasce da un’idea che risale ai primi anni Novanta ed è ispirata da una famosa espressione di William Borroughs [e all’innatismo biologioco-linguistico-universalistico di un Chomsky]: ‘Language is a Virus from outer space’. È un’immagine molto bella. Mi ha fatto pensare che noi siamo stati inoculati, in qualche misura ‘fantapoieticamente’, da un’essenza extraterrestre che ci ha trasmesso il virus del linguaggio. La lingua è anche un virus che si deve opporre ai linguaggi del potere, ai linguaggi sclerotizzati, ai linguaggi anchilosati che passano nella sfera mediatica”.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.