LETTI QUASI PER CASO, SCRIBACCHIATI PER UNA QUALCHE NECESSITÀ: a cura di Maddalena Rasera, “Letteratura italiana e Grande Guerra un anno dopo il Centenario” & Vittorio Roda, “Da Carducci alla Grande Guerra. Studi di letteratura italiana”

Da ‘bastian contrario’ ma ‘fedele alle amicizie’. Appunti e spunti, domande e dubbi, ricorsi e riverberi a partire da: Letteratura italiana e Grande Guerra un anno dopo il Centenario, Atti del Convegno di studi (Verona, 23-24 ottobre 2019), a cura di Maddalena Rasera, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2020 (dicembre), 114 pp., e da Vittorio Roda, Da Carducci alla Grande Guerra. Studi di letteratura italiana, Bologna, Pàtron, 2019 (febbraio), 280 pp.

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Di Luciano Curreri (ULIEGE, Belgique).

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Scrivendo un saggio narrativo dei miei dedicato a Storia di Tönle (1978) di Mario Rigoni Stern (1921), ho provato a spiegarmi così il racconto della Grande Guerra nelle pagine di quel libro: «Il racconto, qui, non è la vendetta ma il suo contrario: il perdono. Perché questo non è un libro di guerra ma di pace, di speranza. E se la «baita» non c’è più, perché ne puoi solo più vedere – e da lontano – le rovine fumanti, se «lassù» non resta «più niente da distruggere, e più niente per poter vivere», a casa ci si ritorna lo stesso, perché il mondo è la nostra casa e la nostra casa è il mondo. […] Tönle è un antidoto umano alla guerra disumana; è un uomo che sa scegliere i tempi e gli spazi per andare al pascolo e riposare, per viaggiare e fermarsi, per fuggire e star fermo, quasi come un filosofo antico».

Eppure, mi dico ora, anche questo testo rientra nella grande famiglia della ricezione letteraria della Grande Guerra. E mi viene anche da farmi – e da farvi, cari lettori – una domanda.

Quale è la guerra ‘italiana’ più ‘coperta’ dalla letteratura italiana in tempo più o meno reale, ovvero nei dintorni più o meno immediati della stessa? Forse una guerra che se ne porta dietro altre e che finisce quasi per riprenderle e poi riassumerle e sintetizzarle nel suo seno, ammesso e non concesso che l’espressione appena citata possa confarsi a un contesto patriottico che è davvero poco materno e – metaforicamente e non solo – mutilato assai. La Grande Guerra, in effetti, ha un noto ‘portato risorgimentale’, quello delle tre guerre d’indipenza almeno, che non a caso giungono a rinominarla da ‘prima guerra mondiale’ a ‘quarta guerra d’indipendenza’. Et pour cause: i sette decenni che anellano via via il 1848 al 1918 fanno un po’ pensare a una nostrana «guerra dei settant’anni», dove il tutto si dilata – copertura e ricezione letteraria compresa, ovviamente – magari mentre si infila nella «guerra civile europea» colta da Enzo Traverso, nel 2007, tra il 1914 e il 1945… E allora chissà quante guerre dei cent’anni abbiamo vissuto, pensando di essere in pace…

Con confini cronologici così mobili, come facciamo a parlare di dintorni temporali più o meno immediati della Grande Guerra? Quali saranno e perché? In letteratura, poi, le cose si complicano, perché non dovremmo contare le non banali, come dire, «misure del ritorno» di un conflitto che attraverso il romanzo storico e neostorico, le testimonianze ritrovate, le memorie tardive, i racconti restati nel cassetto e poi venuti infine alla luce, ha finito per allungarsi nel tempo, anche in modo ucronico, con l’aggettivo maiuscolo, sempre più legittimo, e preposto a dirlo per sempre, tale, vasto conflitto: Grande Guerra.

Insomma, si tratta di un lungo passato che plana su un lungo futuro, che ha spesso la presunzione, come ogni futuro, di celebrarlo: cosa per l’appunto successa, nell’ultimo lustro almeno, alla Grande Guerra (anche solo quella italiana, quindi a partire dal ’15), con un infittirsi di pubblicazioni critiche da cui ho estratto due volumi, che sono due raccolte di saggi, una relativa a un solo autore e l’altra a un collettivo: Vittorio Roda, Da Carducci alla Grande Guerra. Studi di letteratura italiana, Bologna, Pàtron, 2019; Letteratura italiana e Grande Guerra un anno dopo il Centenario, Atti del Convegno di studi (Verona, 23-24 ottobre 2019), a cura di Maddalena Rasera, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2020.

Essendo un ‘bastian contrario’ ma ‘fedele alle amicizie’, non ho potuto non scegliere due volumi che hanno ‘bucato’ la cronologia dell’anniversario – 1915-1918/2015-2018 – in maniera più o meno voluta: meno voluta nella raccolta d’autore e più voluta e finanche annunciata (pure come valore critico aggiunto, nutrito di un certo distacco ulteriore) nel caso della miscellanea che deriva da un convegno dell’autunno 2019 ed esce, nella bella cura assicurata da Maddalena Rasera, nel dicembre 2020. La mia fedeltà alle amicizie riguarda invece, e lo dico convinto e sereno, Vittorio Roda, per Da Carducci alla Grande Guerra. Studi di letteratura italiana (2019), e Fabio Danelon, uno dei motori del convegno e della pubblicazione relativa e titolata a Letteratura italiana e Grande Guerra un anno dopo il Centenario (2020).

La raccolta di Roda punta su quell’«unità» che è già nel «titolo stesso, che dichiara esplicitamente l’appartenenza dei diciasette saggi antologizzati a un preciso e limitato periodo della nostra storia civile e letteraria. Da Carducci alla Grande Guerra: vale a dire dagli anni dell’unificazione nazionale alla più tragica prova che il giovane stato italiano si trova ad affrontare». Anche in questo snodo temporale (peraltro non così limitato), la raccolta diventa «un libro che chiude la traiettoria d’una lunga militanza critica», quella di Roda, che, anche tramite Igino Ugo Tarchetti, giunge a descrivere la guerra nelle pause della stessa, là dove non è più l’unità di un lungo contesto storico a essere cercata e apprezzata come denominatore comune, ma quella di uomini che rischiano di perderla, come unità dell’individuo: «Quella descritta e stigmatizzata da Tarchetti è la guerra di Crimea, anello importante, come si sa, della nostra storia risorgimentale. A occupare di sé la parte finale del libro [più di cento, consonanti pagine] è un’altra guerra […] quella che figura nel titolo e che molti lessero come l’ultima fase del nostro Risorgimento. […] Nei capitoli che la riguardano [cinque] non si è privilegiato il momento dello scontro e del sangue [ma] i momenti di tregua, la vita quotidiana nelle trincee e nelle retrovie, le rare licenze, i congedi; e in questa cornice l’interiorità del combattente, dello scrittore in divisa con le sue stigmate psicologiche, le sue paure, i suoi smarrimenti, le sue interne contraddizioni e divisioni […] La guerra incrina l’unità dell’io». Ecco, questa micro-unità incrinata discende, via un certo paradosso, da una macro-unità storicamente e culturalmente data, criticamente accettata. Lo dice lo stesso Roda, con una certa e significativa fierezza, quando parla della raccolta in questione come dell’inevitabile punto di approdo di una ricerca che muoveva i primi passi circa quarant’anni fa, tra fine Settanta e primi Ottanta, con gli studi confluiti in Il soggetto centrifugo (1984) e poi in altri, noti volumi dello studioso. Tuttavia, ciò che a noi, qui, più interessa sottolineare è un’ingenua – lo so – ma significativa contraddizione ermeneutica, non di Roda ma del nostro paradigma: se da un lato la guerra – e la Grande Guerra in particolare – assicura unità nella comprensione della storia e in tal senso riesce finanche a porsi come fonte di percorsi unificanti della nostra civiltà, della nostra cultura, anche in quell’astrazione incarnata che vorrebbe essere tanta sua letteratura, dall’altro lato, ben diversamente, la guerra lacera il destino in divisa degli individui, che pure ne sono stati attori in carne e ossa. Perché, come dice giustamente Roda, la guerra ha spesso, se non sempre, incrinato l’unità dell’uomo, la facoltà di riconoscersi ancora e di ripristinare i legami di un tempo (quello, ben inteso, prima della Grande guerra, ovvero il tempo ingenuamente ricondotto a tempo di pace). Il fenomeno celebre della «diserzione» – altissimi i dati nel primo conflitto mondiale, su tanti fronti – racconta la storia di uomini che vogliono restare integri, in tutti i sensi, nel dare – direi quasi nell’offrire – esistenza a un percorso che anche materialmente (e non solo in sede immaginaria) li spiazza, a ogni passo, provocandone gesti assurdi e astratti: ad esempio, per salvarsi la vita, sono disposti a calarsi in buche che danno l’idea di essere tombe, dove tutti gli oggetti presenti – soggetti/oggetti umani compresi alla fin fine – hanno ‘vita’ decontestualizzata e straniante, et pour cause. Ma anche ad altre latitudini la traduzione è la stessa. E non riesco a non pensare, una volta di più, a Faulkner: «Poi sentirono il terreno scivoloso e furono in trincea. Fu come se seppellissero se stessi scendendo nelle proprie tombe» (William Faulkner, La paga del soldato (1926), Milano, Garzanti, 1970, p. 164).

Forse allora non è proprio un caso che nel ‘plurale’ volume, a cura di Maddalena Rasera, Renato Camurri – altro motore del convegno, in un intervento polemico («sulla presenza americana nella Grande Guerra» denunciante vecchi luoghi comuni sull’«effetto Hemingway» duri a morire) in cui ci si serve inizialmente del ‘regesto’ di Quinto Antonelli del 2018, parlando di quella «patina edulcorata» tesa a coprire la gran mole di eventi e materiali – attiri l’attenzione sul fatto che «nella frammentazione e dispersione delle iniziative che hanno interessato quasi tutte le regioni italiane è prevalsa nelle amministrazioni periferiche la tendenza alla celebrazione della Grande Guerra in una dimensione prettamente locale, con un’ossessiva esaltazione del sacrifico compiuto dai soldati per la difesa della patria secondo lo schema classico del cosiddetto “paradigma vittimario”». Ecco, la cosa, in sé, non dovrebbe stupire affatto e, pur sapendo che la virtù è sempre e soltanto sconosciuta, direi quasi che a metà strada tra la macro-unità ricomposta e la micro-unità incrinata c’è un luogo, un sacrificio, un uomo cui una comunità e una memoria locali ancora, per fortuna, tendono. Il resto – oso dire aspettando che nasca un altro Mario Rigoni Stern – o è Accademia o è televisione. Anche i libri dettagliatissimi sulle battaglie degli amici storici, étrange défaite di Caporetto in testa, non vanno oltre perché frenati dai binari di una ricezione che prevede solo succhi di storia multivitaminici a quei più che non fanno neanche più parte di comunità e memoria locali ma solo di uno spettacolo globale in cui a morire sono sempre e soltanto gli altri, in guerre che si infilano in grandi guerre (civili) che non ci riguardano più, anche se scandiscono un tempo non certo di pace, magari a due passi da casa nostra (dal conflitto intestino dell’ex Jugoslavia a quello che attraversa la Libia post-Gheddafi).

Dove è finita, allora, la Grande Letteratura italiana della Grande Guerra? In parte, in certe pagine di Italo Svevo, dice subito e bene Fabio Danelon, anche se – come nota altrettanto giustamente Massimiliano Tortora – Federico De Roberto e Svevo (entrambi del 1861) e Luigi Pirandello (del 1867) non si mettono a scrivere il romanzo sulla Grande Guerra, perché non aderiscono alla forza disgregatrice della stessa: anche se tracce ne restano, negli interstizi del novellare, del racconto, via titoli, in tal senso significativi, come La paura di De Roberto, citata da Marino Biondi e antologizzata e studiata diversi anni fa, in questa prospettiva, da Giuseppe Traina e poi da altri storici della cultura e della letteratura, dal mitico Mario Isnenghi ad Antonio Di Grado e Gabriele Pedullà. Ma di tale ‘non aderenza’ di alcuni grandi autori nati negli anni Sessanta dell’Ottocento, approfittano poi, nel volume curato da Maddalena Masera, Guylian Nemegeer e Mara Santi per far ‘tornare’ Gabriele d’Annunzio (del 1863) e fargli fare la parte del leone una volta di più – attenzione al titolo (‘rodiano’, oserei dire, per quanto discusso sopra) – Risorgimento e tradizione nazionale nelle prose di guerra di Gabriele d’Annunzio (e anche Carducci fa capolino).

Giovanni de Leva, già autore del denso La guerra sulla carta. Il racconto del primo conflitto mondiale (2017), individua una «linea De Amicis» (meglio «del primo De Amicis [1846] o del “militarismo sentimentale”»), pensando ancora al «racconto della Grande Guerra sullo sfondo della Storia, e nei termini di un’unica narrazione» – anche «popolare»: quella «narrazione popolare che per certi versi costituisce la più radicale demistificazione del militarismo sentimentale» – che sia unitariamente «letteraria, giornalistica, saggistica e cinematografica» e in grado di cogliere subito la «maggiore durata» di questa «linea narrativa» in La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli. Mentre il già citato Quinto Antonelli parla di «letteratura popolare» e dopo aver messo a fuoco lo scrittore professionale Mario Puccini, via una citazione da Giuseppe Capacci, parla di ricordi, memorie, diari, avventure, dove sovente una excusatio non petita ci avverte che non troveremo né la mente saggia di un Edmondo De Amicis né quella di un Emilio Salgari (1862).

E la poesia? Maddalena Rasera ci offre una bella incursione storico-fiolologica nelle «poesie-prosa» di Clemente Rebora, «poesie-prosa, dove la guerra sarà un motivo di perennità lirica» (lettera del grande Rebora, datata 27 ottobre del 1916, a Mario Novaro). E le lettere (le epistole)? Giuseppe Sandrini ‘mette in scena’ la morte di Scipio Slataper sul Podgora a partire da «due lettere inedite di Stuparich e di Marin». E ancora a partire da una letteratura che è fatta di carteggi, ma pure di giornali di guerra, si muove Giovanni Capecchi, che tengo per ultimo solo perché mi offre la possibilità di riprendere anche Vittorio Roda, citato all’inizio del suo saggio per avere affrontato, con Capecchi e altri, qui e altrove, il tema del ritorno del combattente, attraverso forme di scrittura indagate nel 2013 dallo stesso Capecchi, che mira a coglierne una sorta di descrizione funzionale, in cui le varie tipologie di racconto corrispondono alla ‘terremotata’ transizione letteraria tra guerra e pace: cioè tra l’inutile strage e il ritorno, per l’appunto, a una pace che, come vita opposta alla morte in guerra, può far paura più della morte in guerra e così straniare l’individuo che si ritrova solo – e non più sicuro – all’interno di una vita ‘normale’.


Vittorio Roda: «Ho molto apprezzato l’acume dimostrato da Curreri nell’analizzare i due volumi sulla letteratura della Grande Guerra di cui si parla nelle righe che precedono. È vero, nel primo l’autore – Roda – si muove fra argomenti diversi. Ma alle spalle di quella diversità il recensore sa cogliere intelligentemente due principi di fondo: l’intenzionale rimozione dell’aspetto propriamente ‘guerresco’ del fenomeno, in nome della focalizzazione della quotidianità della vita al fronte, ed entro questa cornice l’attenzione prestata alla soggettività del combattente, che dalla tragica realtà della guerra vede incrinata l’unità del suo io. La dialettica fra unità e frammentazione non manca d’affacciarsi anche nell’altro volume, al di là, anche in questo caso, della molteplicità degli argomenti, dell’essere il volume in questione, per dirla col recensore, un’opera «plurale». Basta pensare al saggio di Capecchi, che il ritorno del combattente tratta come un mancato e impossibile ritorno, incapace di ricucire la faglia aperta nel suo vissuto dalla traumatizzante esperienza del conflitto».

Maddalena Rasera: «Grazie per questa interessante recensione che tocca un punto centrale del discorso sulla Grande Guerra, espresso in quell’“ingenua […] contraddizione ermeneutica […] del nostro paradigma”, secondo cui “se da un lato la guerra […] assicura unità nella comprensione della storia […] dall’altro lato, ben diversamente, lacera il destino in divisa degli individui […]”. In questa prospettiva, il messaggio contenuto nella Storia di Tönle – così come lo enuncia il recensore: “a casa ci si ritorna lo stesso, perché il mondo è la nostra casa e la nostra casa è il mondo” – non si fatica poi molto a ritrovarlo nella speranza che pervade la presunta ultima lirica reboriana del “volume di poesie-prosa”: “ampliandosi il petto / io giacqui alitato così, / custode del mondo”. A significare che le diverse voci che si esprimono in quest’arco temporale così fluido tendono sovente a un punto comune: la ricerca di senso, spesso legata a un agognato “momento di tregua”».

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.