LESSICO ARCIMBOLDIANO

LESSICO ARCIMBOLDIANO

_____________________________

di Stefano Lanuzza

.

Giardiniere del suo Hortus deliciarum rinserrato nella Kunstkammer baluginante di fuochi fatui e staffilata da luci e ombre, Vertumno, malinconico signore della metamorfosi, si circonda di monstra, naturalia, artificialia e mirabilia, di squisiti spettri, di oggetti rari e astrusi, di golem, caravanserragli e chimere… In un estremo inno al capriccio, al mutamento e all’anamorfosi, astuzie dell’intelligenza eccentrica e del sonno che, con i sogni, genera i mostri di natura e cultura, il demiurgo gryllorum sive chimerarum Giuseppe Arcimboldi (1527ca.-1593) raffigura nel nume Vertumno (1591) – titolo del suo ultimo quadro, acme di un’arte come trascrizione metapoetica che emulando la physis ne accresce le suggestioni, tanto che non è più l’arte a imitare la natura bensì questa ad offrirsi a quella – non soltanto un compendioso ritratto di Rodolfo II dalla miniaturale fissità variata coi segni dell’umor nero seguito alla letizia, ma pure se stesso.

Rodolfo-Arcimboldi-Vertumno, opera di gioco e piacere eseguita in tempi di peste e terrore, un volto unheimlich, un’icona-fantoccio dall’increspata fronte di popone tra spighe, graspi e bacche, fichi e ricascanti ciliegie, mela e pesca le guance e occhi d’oliva e gelsa sotto sopracciglia di baccelli, peracoscia per naso e due nocciole con scorza gli imperiali baffi, riccio di castagna il mento, rape, cavoli e cucurbitacee, agli, cipolle e zenzeri, funghi, carciofi e fiori il torso, e un mezzosorriso stranito, inscritto nel vellutato lussureggiare di frutti d’ogni stagione, Rodolfarcimboldi-Vertumnus riflette altresì una fricassea rimestata dalla storica Mostra veneziana del maestro milanese-praghese (Palazzo Grassi, 13 febbraio-31 maggio 1987). Per esempio, dal pinzimonio delle italiche gazzette schizzano articolesse un critico che – scrive –, se fosse direttore d’un grande quotidiano, al corrispondente artistico troppo interessato all’“effetto Arcimboldo” farebbe una fulminante telefonata per sbatterlo immantinente ai servizi di cronaca: ciò, ancora prima dell’apertura della mostra stessa); e un altro, Testori, già pittore michelangiolista e scriba manierosamente kitsch che soffrigge all’inverosimile l’unico suo argomento, “Arcimboldo e arcimbolderia”, con saltabeccanti grilli medioevali e boschiani.

Sì che l’effetto-Arcimboldo rischia di riflettere taluni esiti dei falsi Modigliani in pietra, ora negli annali della storia dell’arte italiana grazie alle amene ‘espertizzazioni’ di notabili della critica d’artepatria, pure incuriositi spettatori della ‘telenovela’ sugli ultimi giorni di Guttuso rappresentata nelle stesse giornate della mostra-Arcimboldi (peraltro, a ben guardare, non è che la guttusiana, collagistica Vuccirìa manchi di arcimboldiane influenze).

Non difetta, insomma, una critica d’arte che vorrebbe chiudere Arcimboldi nei recinti ormai angusti della metodica longhiana o s’ingegna di svuotarlo con stucchevoli filologismi, trascurando i fondamenti di rilettura da cui dovrebbe ripartire il discorso su questo sempre moderno pittore adottato dai surrealisti. Ma Arcimboldi, alfine, pretenderebbe d’essere inteso nel suo non storificato divenire, nella revisione progressiva della sua opera sottratta all’unicità di senso e sostanziante gli estri, i processi di significazione, le invenzioni e rivelazioni del più sbrigliato immaginario.

Ma – si dice – Arcimboldi ha dipinto poco… Meglio così se dipingere tanto significa, spesso, operare per un mercato fondato sulla committenza e circolazione quantitativa o consumistica delle opere d’arte. Arcimboldi ha dipinto poco, certo: una trentina di quadri con soggetti replicanti o scanditi anche dal motivo del Sosia (riflessi e specchi, ombre di ombre assorbenti ogni possibilità prospettica dell’Io, numi tutelari contro la morte) e centosessantacinque disegni: tutti capolavori, coi quali l’artista introduce una critica della divaricazione tra natura e cultura; mentre l’unitaria conoscenza rinascimentale prendeva a polverizzarsi.

Ma – si aggiunge – era un eclettico e svolgeva troppi ruoli: il costumista, il musicista, lo scenografo, forse l’alchimista, l’astronomo, l’allevatore di belve, l’ornicoltore; e insomma, sempre, l’anamorfista. Ma questo perché lui era un uomo ancora marcato dalla rinascimentalità: e trasformava una cosa in un’altra facendo proliferare più significati da un significante a sua volta plurimo. Certo era anche un insoddisfatto e inquieto: uno stigmatizzatore della crisi che abolisce la concezione di omogeneità – professata dal Rinascimento – fra arte e scienza, natura e cultura.

Toccata con mano la crisi che travaglia il nostro tempo sconciato dalle improvvisazioni e velleità dell’arte informale, il funambolico discorso arcimboldiano oppone le sue articolazioni fra natura e immagine umana, con esse indicando, nella sua plurima complessione, anche un possibile linguaggio transnaturale, fattore di perturbamento e liberazione che irrompe nei nostri moduli culturali controllati dalle tecnologie e burocrazie.

Con la grazia dei suoi fiori, col pathos d’un bestiario ‘pensante’ e le lussureggianti sensualità della ‘frutta e verdura’, Arcimboldi è appunto il perturbatore del sistema dei purovisibilismi realistici, uno così atipicamente manierista che, conosciuto solo da pochi nel suo tempo governato dall’accademismo iconologico, completamente ignorato per centinaia d’anni, si fa nuovamente largo verso la fine del Novecento magari sull’entropica onda lunga della rivolta futurista-metafisico-surrealista dei De Chirico, Boccioni, Picasso, Ernst, Duchamp, Dalì, Magritte; senza dimenticare i miracula ingeniosa del più arcimboldista di tutti, il Savinio autore di quadri come Monument (1929), Cristo della serie dei Processi composti dal 1932 al 1934, Amore, litografia del 1944 rappresentante un falliforme uccello rapace, e poi Capoluomo (1946), Monumento a Dio (1946), Il demone meridiano (1950); oltre a I miei genitori (1945, 1947), due poltrone in foggia umana battezzate da Savinio quali Poltromamma e Poltrobabbo.

Se, come scrive Mallarmé, “il mondo esiste per far capo a un libro”, per Arcimboldi la natura esiste per entrare in un quadro e antropomorfizzarsi, riconoscendo nell’uomo la somma del mondo: perché, dopo aver escluso la natura, il soggetto, giunto all’apice della propria identificazione, ristucco di narcisismo, si rivolge alla natura non per descriverla ma rispecchiandovisi; sperimentando, poi, nuovi saperi: un modo per riconoscere la propria precarietà e mettersi in discussione sino a fare di sé un argomento di critica trattabile, infine, anche satiricamente.

La prova che il manierismo perbenista di scuola italiana è una gabbia stretta per l’arguto Arcimboldi è il fondamentale periodo trascorso dall’artista alla corte rodolfina, caleidoscopico cuore del disagio che accompagna prima l’attrazione e poi la deriva fra Cinquecento e Seicento. La struttura simbolica della morente Rinascenza cede a un senso d’instabilità, a nuova smania di conoscenza, alla bramosia di sciogliere antichi e nuovi enigmi, di alchemizzare la natura per estrarne le verità e scioglierne i misteri. Ed ecco i cerimoniali di alambicchi e specole, ecco crogioli, olle, fantocci meccanici, matracci, astrolabi e clessidre, talismani, protesi, pietre filosofali e pozioni di elisir; e poi sortilegi e demonìe…: perché meraviglia proteiforme, decrittabile solo dagli iniziati – spesso gli artisti – sono le forme della natura, chiavi dell’universo e dell’uomo tutto.

Nel castello praghese di Rodolfo d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero (1576-1612) e re d’Austria, Ungheria, Boemia, tra negromanti, astrologi e cerusici, alchimisti, rabbini e spiritisti, litologi, astronomi e miniaturisti, orafi, cesellatori e sarti, botanici, filosofi e poeti, parabolanti, questuanti e pagliacci, guitti, cantambanchi e cerretani, frapponi, zanni e mangioni, falsari, generici balordi e pacchiapacchielle, a stretto contatto con Rodolfo – uomo di patologica ipersensibilità, coltissimo, ipocondriaco, curioso e travagliato dal pensiero del nulla, collezionista di pitture e oggetti straordinari al pari del genitore Massimiliano II –, Arcimboldi approfondisce le ricerche avviate a Vienna prima di trasferirsi, nel 1562, alla corte di Praga dove dipinge occasionalmente ma sempre per ‘spiazzare’ le risapute consuetudini pittoriche.

Praticamente negli stessi anni, mentre a Praga cresce lo stupefacente museo rodolfiano (vi si collezionano, oltre a quadri e sculture di notevole qualità, oggetti di corallo, madreperla, cristallo di rocca e lapislazzulo, oggetti e attrezzi esotici d’ogni fatta, pietre luccicanti, metalli speciali, orologi e gioielli, conchiglie, volatili impagliati e corde d’impiccati, incisioni su nòccioli d’oliva e denti di squalo, cristallerie, bezoard, corni da caccia e di rinoceronte, tovagliato turco, brocchette e scacchiere, ciotole, borsellini, foglie d’alberi e stoviglie in legno, medaglioni e mandragore, specchi solari, cammei e un coccodrillo imbalsamato, resti fossili di animali e piante, un teschio d’ambra, vasellami e busti, corazze di tartaruga marina, occhiali e terraglie, lucchetti, coltelli e acciarini, mappamondi, medaglie, speroni e biglie, armi, calamite, bandiere, sciabole e spade, caraffe d’osso, vasellami d’ogni tipo e monete…, vertiginoso bric à brac tra scaffali, mensole, armadi, forzieri che saranno via via saccheggiati dai cortigiani e poi, nel 1648, dagli invasori svedesi: dopodiché andranno ad abbellire le collezioni pubbliche e private di tutto il mondo), a Bomarzo il duca Pier Francesco Orsini e l’architetto Pirro Ligorio ideano la “Villa delle Meraviglie”, inaugurata nel 1552 e detta anche Il Sacro Bosco o Parco dei Mostri, signoreggiato dai miti della natura e delle stagioni, un tutt’uno, in Orsini, Pirro Ligorio, Rodolfo e Arcimboldi, con l’orrore inconsolabile per la morte vieppiù emergente nella coscienza dell’epoca e in quella moderna, tanatofoba e al contempo tanatofila.

Allora di cosa se non della morte e del suo riflesso, la vita, ci parla un tropista per la nostra modernità qual è Arcimboldi? Così le sue Quattro stagioni (oli su tavola, tutti di cm. 66×50) inducono corrispondenze con l’eterna dialettica dei Quattro Elementi cui sono sottesi quattro manifestazioni del carattere umano: la gioia, la collera, la malinconia, la saggezza. Primavera (1563) gioiosa, luminosa e gioconda; Estate (1572) giovane e collerica; Autunno (1572) maturo e malinconico; Inverno (1563) dal collo nodoso, vecchio e lento, fradicio d’esperienza e senno… Primavera-Aria: con l’iris sul seno, l’aquilegia per orecchino, il giglio sopra la nuca, sei bambina e Venere dal viso di fiori freschi e i seni come i fiori dell’iris. Estate-Fuoco: sei Cerere adolescente e, nel ritratto di profilo, la tua guancia è una grossa pesca matura fra iridescenti riccioli di prugne, spighe, con orecchini d’aglio e cipolla, il sorriso-baccello e le labra-ciliegie. AutunnoTerra: sei congerie ordinata di frutti, sei Bacco barbuto e la tua guancia è una mela aggredita da una verruca-sorba, la tua orecchia è un fungo con un orecchino lanzichenecco, un fico nero marcescente è; e i tuoi capelli sono grappoli d’uva matura sormontati dall’incipiente luna d’una calvizie-zucca. InvernoAcqua: tu sei un Giove arboreo e cavo, athanor decrepito e lebbroso dalla pelle di corteccia crepata, cellulosa necrotica ferita dal baco annientatore, col cranio e il mento irti di viticci, sterpi, radici, e le labbra assalite da muffe boschive, da muschio tombale… Dove il rapporto tra pittura e natura, di pretta e specchiante fascinazione, è anticlassico; e s’ergono come alberi alchemici le agudezas che presto vanno a contraddistinguere il meglio dell’arte barocca tesa a mobilizzare le cose in un interscambio di soggetti.

Agudezas, allora, nei quadri dell’Aria (1566 ca.) con l’aquila e il pavone dell’araldica asburgica in un ornitofilo viluppo di batuffoli piumosi e gorgheggi e stridi, col gallo, il tacchino e il pappagallo, il gufo, la civetta e il barbagianni, il chiurlo, il gheppio, la cornacchia, il fagiano e l’oca; dell’Acqua (1568), viscidi ittiomorfismi, mucide striature e macule, con l’ippocampo, il naso-murena e il luccio, la guancia-razza e la bocca-pescecane, la mandibola-seppia, i capelli corallini e asterie, pinne, foca monaca sull’orecchia-ostrica adorna della propria perla, una collana di perle tra il petto che è un granchio sonnolento e l’omero-polpo lambente coi tentacoli una testuggine; della Terra (1570), zoomorfa simbolizzazione che solca il serraglio di Massimiliano II nel parco naturale di Ebersdorf per farsi allegoria vivente: leone elefante lepre ariete, cervo gazzella leopardo cane, daino cammello pantera, orso lupo tigre scimmia, ramarro cavallo cinghiale…, tutto un bestiario nello smembrato profilo del cacciatore e dominatore, l’uomo; del Fuoco (1566), con la catena dell’Ordine del Vello d’Oro e il medaglione con lo stemma della Casa d’Austria rischiarato dal bagliore di capelli fiammeggianti sul ceffo scarno, e con acciarino, pietra focaia, pistola e miccia, attizzatoio, candele smoccolate e busto-bombarda.

Aria-primavera, fuoco-estate, terra-autunno, acqua-inverno in una corale rappresentazione di languori, spaesamenti, similitudini, teratologie; e di fiori, frutti, animali desemantizzati che non fra loro cercano simbiosi, bensì con l’uomo. Ed è un’arcana struttura quella che connette il fiore con l’ostrica, la verruca con l’asteria, il falco con il luccio, le spire del serpente coi semi del girasole, e tutto questo legato all’umano.

Tarsia, inventario, nomenclatura e teca, mosaico, matassa e labirinto, ibridazione, guazzabuglio e facezia…: così è il crittografico volto del soggetto arcimboldiano che nasconde la propria sembianza negli innumerevoli volti della natura. È la congestionata facies della natura entropica: è, poi, il volto del trionfo della vita doppiata dalla morte, ed riso e smorfia. È il viso-bouquet di Flora (1591), merlettatura di fiori e stami, roselline e zagare, di gigli dagli erti pistilli; il ceffo del Giudice (1566 ca.), burocratico e bellicoso, fatto di selvaggina lessa e pesci risecchiti; la sembianza-parallelepipedo dell’incomparabile Bibliotecario (1566), cartacea natura morta, freak che inalbera, come l’upupa le penne-pagine, la cresta pazza dei quinterni d’un calepino spalancato alla sommità d’oltre una dozzina di tomi uno sull’altro impilati; la facciona stetocefala e lasciva, da minestrone coagulato, dell’Ortolano (1590) squaccherone; la patognomica fisionomia di Rodolfo, che Arcimboldi riproduce in profilo di moneta, il musino sbiettante di faina timida e micidiale, perfetto prodotto della secolare tristezza, violenza e corruttela delle corti; il sembiante febbrile, occhi da negromante che sogna, di Arcimboldi stesso nel suo più intenso Autoritratto (1575).

Già quegli occhi indiscreti, che guardano ‘proprio te’ (occhi di demone che sa come il selvaggio, illimitato amore di sé dell’uomo postrinascimentale, al pari dell’uomo moderno e contemporaneo, altro non sia che pulsione di morte), occhi illiquiditi dall’acedia e d’un solipsismo che sgretola la Storia, vedono in fughe vertiginose al di là del barocco a ridosso delle confluenze manieristiche il nostro tempo alessandrino, questa Wunderkammer del nichilismo.

_____________________________

[Leggi tutti gli articoli di Stefano Lanuzza pubblicati su Retroguardia 2.0]

_____________________________

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.