LEGACCETTI (Recensioni come ricordi): Matteo Terzaghi, La trasmutazione di Vincenzo Vela

Matteo Terzaghi, La trasmutazione di Vincenzo Vela. Sulle ultime fotografie, Museo Vincenzo Vela («Libelli del Museo Vincenzo Vela», 2), Ligornetto, (maggio) 2021, 34 pp.

_____________________________

di Luciano Curreri* (ULIEGE, Belgique)

.

Matteo Terzaghi (1970) è stato apprezzato dal sottoscritto fin dai capitoli-saggi di Il merito del linguaggio. Scrittura e conoscenza (Casagrande, Bellinzona 2006), studio unitario ma di rivoli non proprio monografici fatto, a immagine di un percorso liquido che dalla realtà muove verso la letteratura in seno a una misura di cento pagine, poco più. Lo stesso si potrebbe quasi dire di certe prose narrative nutrite della migliore infanzia, quella cui appartieni veramente e che non ti fa sentire mai un escluso, come ha avuto occasione di suggerire René Girard, anche contro un certo tipo di intellettuale francese outcast, oggi diffuso ormai su scala mondiale. Se penso a testi quali Il dimezzamento dei lombrichi, Il tema in classe come genere letteario…, editi in un bel volumetto da Quodlibet che risale al 2019, La Terra e il suo satellite, credo di capire anche di più l’entrée en matière scelta da Matteo Terzaghi per parlarci di La trasmutazione di Vincenzo Vela. Sulle ultime fotografie (Museo Vincenzo Vela, Ligornetto, 2021). Si tratta di un ricordo intimo, famigliare, che, nel suo piccolo (si fa per dire), dilata e sfuma a un tempo l’occasione della pubblicazione: il bicentenario della nascita di Vela (1820-2020), per l’appunto, che si accompagna peraltro ai 130 anni dalla morte (1891) – però è sempre meglio ricordare e omaggiare la nascita, sia detto en passant (ma sia detto).

All’inizio pare una «storia» divertente, giocata quasi su un registro comico che i più riusciranno a intendere, dal momento che si chiama in causa «un antenato […] nato in val Brembana». Ma poi la cosa si fa seria, perché «Piero Gervasoni» era a sua volta un artista che ebbe una certa fortuna presso le famiglie nobili di Milano e tuttavia un destino tragico a reclamarne la morte a «circa trent’anni».

Vela, all’epoca ventenne, lo conosceva? Si saranno magari ritrovati, pochi anni prima, «in ambienti scalcinati, con lo stomaco che brontolava dalla fame»? E noi, oggi, soprattutto, siamo ancora in grado di capire quel loro lavoro, ovvero «la forza di suggestione dell’arte monumentale» d’un Ottocento forse ancora troppo chiuso in sè, in glorie ed eroi antichi e moderni che ‘sapessero’ sempre un po’ di «nazione»? Dall’Arco della Pace al Dante fermacarte, passando per i monumenti e i marmi dei cimiteri, tra spazio pubblico e privato?

Io ho chiesto questo «libello» – e volentieri lo recensisco – perché mi ricordavo di Matteo Terzaghi ma anche perché mi ricordavo dello Spartaco di Vincenzo Vela, e di quanto di Vincenzo Vela e dello Spartaco seppe dire Carlo Tenca su «L’Italia musicale» del 19 gennaio del 1848. Ma è vero, come constata Terzaghi, che in mezzo c’è quello spazio-tempo che noi chiamiamo Novecento e che è «il secolo della pubblicità, della fotografia, del cinema, della televisione». L’ironia di Musil – che nella seconda metà degli anni Venti del XX consiglia a monumenti e artefici di imparare da quella pubblicità che sa catturare il movimento e, con questo, il mutamento – la dice lunga. Già, perché l’ironia aiuta. Anzi, a tratti, ha finito per aiutarci fin troppo (e Terzaghi lo sa e la mette in parentesi, per esempio quando accenna a «un paio di bicchieri di troppo» bevuti da quell’artista che appare poi barcollante ma bonaccione agli occhi dei più).

Noi siamo venuti dopo e a quel movimento-mutamento continuo, quando va bene, tentiamo di opporre una certa resistenza, magari ingenua, magari istintiva, forse un poco elitaria, anche quando cercando il mondo per frammenti, per fotografie e fotogrammi, per micro-saggi e micro-racconti, vorremmo essere tutto tranne che elitari, sapendo tuttavia che la selezione implica pure questo approdo. Approdo che poi non basta a stare ben dentro anche solo nella prima metà del Novecento, n’est-ce pas? A parte, forse, attraverso il ricordo di un viaggio a Berlino Est, e a più o meno dilatati e significativi dintorni, prima della caduta del muro (per me era il 1987, se ricordo bene, un viaggio organizzato dall’Assessorato alla gioventù per, potremmo dire, I ragazzi di Torino che sognano Tokyo ma vanno a Berlino, film di Vincenzo Badolisani, del 1985, bruttino, anche se mi dispiace dirlo, e però con grande colonna sonora e grande Amica a interpretare sé stessa, Luisa Tomasi).

Eppure Vincenzo Vela, nella sua «villa-laboratorio» di Ligornetto, era già dentro un movimento e mutamento che «consisteva in gran parte nel rilevare e tradurre forme da una scala all’altra e da una materia all’altra […] da un supporto all’altro». E la fotografia era già «al servizio del continuo travaso». E a questo dinamismo artistico dava poi vera corrente reale e sociale «un profondo rispetto e una vera empatia per i minatori e gli operai» che lavoravano alla prima galleria ferroviaria del San Gottardo. Li metterà in scena, in tal senso, l’altorilievo dedicato alle fin troppo attuali (come sappiamo) Vittime del lavoro. Insomma, l’impegno politico di Vela non si fermava al Risorgimento e del mito del progresso intuiva anche il lato oscuro.

Quando viene a mancare alla generale devozione dei suoi compaesani, nel citato 1891, «la camera mortuaria è allestita nella sala dei modelli, il cuore ottagonale della villa-laboratorio» e «Vincenzo Vela giace ricordato dalle sue sculture»: «la salma di Vela è sovrastata dalla figura di Cristo flagellato ed è attorniata da angeli e putti, dal suo colossale Garibaldi, il conte Turconi, l’Addolorata, Spartaco…». E noi abbiamo «le fotografie». Fotografie d’antan, fotografie che si trasformano e trasformano una «collezione» in vita: una collezione «inaugurata dallo scultore e ampliata dal figlio Spartaco». Fotografie ultime che dicono il destino stuatuario dello stesso Vela, il suo risorgere in una luce che la scultura e la fotografia fanno ancora vivere negli occhi di chi saprà riconoscere vivente tale risorgere, in seno a quel «processo di trasmutazione che Vela ha saputo innescare e controllare come pochi altri, e di cui alla fine lui stesso diventa oggetto. O soggetto».


*Luciano Curreri (Torino 1966), ordinario di Lingua e letteratura italiana all’Université de Liège dal 2008, fa parte della redazione di «Retroguardia 3.0» ed è attivo soprattutto come saggista e narratore. Recentissimi due esperimenti sostanzialmente impuri ed ibridi: Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai «Sei pensieri grati e gratis», Roma, InSchibboleth («Margini», 6), (gennaio) 2021, e Tutto quello che non avreste mai voluto leggere – o rileggere – sul fotoromanzo. Una passeggiata, con Michel Delville e Giuseppe Palumbo, Bologna, Comma 22, (marzo) 2021. In seno al 150° anniversario della Commune de Paris, da ricordare infine e almeno il birichino e fortunato La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? Briciole di immagini e di idee per un ritorno della Commune de Paris (1871), Macerata, Quodlibet («Elements», 20), (aprile) 2019.

_____________________________
Leggi tutte le puntate della rubrica a cura di Luciano CurreriLEGACCETTI. Recensioni come ricordi.

_____________________________

[Leggi tutti gli articoli di Luciano Curreri pubblicati su Retroguardia 2.0]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.