Le poesie di Cesare Pavese: «Lavorare stanca», «La terra e la morte» e «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»

Da marzo sto leggendo e rileggendo il volume Le poesie di Cesare Pavese, pubblicato da Einaudi.

Pavese esordì con la raccolta di poesie Lavorare stanca (1936, poi 1943), testi composti fra il 1930 e il 1935: ed è quanto di più distante si possa immaginare dall’Ermetismo trionfante in quegli anni. 

Il volume presenta una serie di poesie-racconti di Pavese che, di fronte al primo massiccio processo di industrializzazione della società italiana, avvertì il pericolo di una crescente marginalizzazione del ruolo dell’intellettuale e, soprattutto, una lacerazione in atto fra città e campagna con la conseguenza di una feroce devastazione del mondo contadino.

Tuttavia, nei luoghi della città, della fabbrica, del caffè, la poesia di Pavese s’innesta come coscienza critica della realtà. Il poeta cerca di «giungere alla natura vera delle cose, di vedere le cose con occhi vergini».

Ma «la natura vera delle cose», nella società industrializzata, è la merce, lo scambio, la produzione, l’economia. Non a caso, i personaggi tipici nello scenario metropolitano della poesia di Pavese sono la prostituta, l’ubriaco, il pezzente.

Fin’anche l’amore, sembra affermare Pavese, è merce; e dalla donna angelicata (salvifica) della tradizione letteraria italiana si passa alla prostituta che non salva nessuno.

Ne Lavorare stanca il verso si distende in ampie strutture narrative e i toni sono quelli del linguaggio parlato con immissioni di elementi dialettali e gergali.

Pavese proietta i temi che animeranno la sua narrativa- l’attaccamento alla terra d’origine, il rapporto città-campagna, i miti dell’infanzia, la condizione miserabile degli emarginati e degli emigranti- sullo schermo della cultura americana (Whitman, Lee Masters) con uguali asprezze prosastiche e con lievi note liriche.

Dal 1934 al 1940 la vena poetica di Pavese si secca e nelle composizioni subentrano le figure carcerarie e la solitudine (la finestra, la stanza, la piazza deserta). Lo sguardo del poeta tenta percorsi sghembi, lontano dai luoghi di mercificazione e inautentici della città. Dalla poesia-racconto si passa alla poesia-simbolo. La «natura vera delle cose» non è più la merce ma la morte.

Le altre raccolte, La terra e la morte (1945) e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1950), si muovono su una vena intimistica. Abbandonando la prosodia de Lavorare stanca, il poeta recupera i senari e i settenari della tradizione lirica italiana.

Ne Verrà la morte e avrà i tuoi occhi l’occasione è data dall’infelice amore del poeta per la Dawling.

Tema centrale dell’opera è l’identità Eros-Thanatos (amore-morte) non declinato come esercizio letterario, ma come tragico nucleo esistenziale che sarà poi risolto, ahimè, dal suicidio del poeta.

Quelle ne Verrà la morte e avrà i tuoi occhi sono liriche in cui il poeta si pone di fronte all’estasi e al mistero angoscioso dell’amore e del proprio destino ultimo: la morte.

f.s.

[Cesare Pavese, Le poesie, Einaudi, 2006, pag. 348, € 10,00]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.