LE METAMORFOSI E I MITI. Indagine su Pietro Civitareale. Saggio di Giuseppe Panella

di Giuseppe Panella 

 

1. Il perimetro del soggetto possibile

 

«Virbio. […] La colpa è mia, credo. Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi questo.

 Diana.  Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

 Virbio.  Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice»

(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)

 

 

Anche il poeta – qualsiasi poeta, forse – chiede alla sua poesia di riuscire a vivere e a durare, anche a costo di rinunciare alla felicità. La sua richiesta riguarda la capacità di capire attraverso la scrittura poetica quale sia il suo posto nel mondo e quale perimetro esso ritagli nell’economia dell’essere e del trovarsi in esso. Nella maggior parte dei casi, quel perimetro coincide con la crescita della propria soggettività in esso e attraverso esso, alla ricerca del salto di qualità che gli permetta di bruciarlo. 

Pietro Civitareale è uomo schivo ma non umbratile. Seguita da tempo il proprio lavoro di poeta senza concedersi tregua ma anche senza eccedere in un inutile presenzialismo o in quello squallido sgomitamento senza risparmio che spesso contraddistingue anche molti poeti laureati.

Più noto ormai come poeta in dialetto abruzzese (e come studioso e catalogatore degli exploits lirici in questa lingua esatta ma resa marginale dalla grande omologazione in atto ad opera dell’italiano televisivo), Civitareale è anche robusto e definitivo poeta in lingua.

Questo suo Mitografie e altro cui qui ci si ispira è l’ultimo di una lunga serie che può essere unificata dall’aggettivo mite di sensibile (al richiamo del verso e dell’esplorazione consapevole e sognante della natura umana).

La poesia di Civitareale non è infatti emozionale, ma pensosa; non è rastremata dall’angoscia e dalla disperazione del cuore ma è intenta a cercare nei battiti dell’universo la possibile salvezza per la sua dimensione di uomo disperso ai confini del Nulla, eppure non timoroso di esso.

Nell’opera del poeta abruzzese i temi della difficile convivenza con e nel mondo e la necessità di stabilire e costruire il perimetro all’interno del quale la sopravvivenza diventa possibile sono resi espliciti fin da subito.

Sarà ovviamente impossibile rendere conto nel breve spazio necessitato di una prefazione dello sviluppo organico e tassonomico di una scrittura poetica come la sua – sarà quindi necessario procedere per tagli e allusioni che risulteranno assai ingenerosi riguardo la ricchissima produzione di Civitareale (che – non va dimenticato – ha legato assai presto il proprio nome ad un progetto di lirica ben definito e ben marcato ai bordi dai suoi “autori di formazione” a partire dall’amato Betocchi e dalla sua prospettiva lirica).

Anche considerando i Nuovi accordi (Milano, 1959) che è il suo volume di esordio in assai giovane età e Un’altra vita (Pescara, Edizioni Emblema, 1968), il problema costituito dalla necessità di giustificare la presenza (che sia la propria o quella dell’umanità intera non è questione rilevante) è assai urgente fino da Hobglobin (Firenze, Poesiarte, 1972). D’altronde la natura stessa “super-naturale” del demone o folletto del titolo spinge nella direzione di una necessaria definizione (e innalzamento) di confini certi:

 

«1. Allora, se stare nell’aria ferma / è la nostra condanna, anche il silenzio / è la nostra condanna se dirci non / possiamo la parola fraterna / la parola importante che cancelli / un mondo un mondo richiami / da una tenebra di cielo cielo / sposato ad un desiderio ormai vinto / da ferree ali; se ascolti (e tu ascolti) in questa nostra lunga notte / l’uccello spinge in alto alto / il suo alto grido facendo / man bassa di stelle e fiori »

 

L’intrecciarsi dei due mondi (quello infero e quello quotidiano) costringe alla sosta, all’attesa, all’accettazione dello scarto tra terra e cielo, tra parola assoluta e parola relativa ai rapporti individuali, tra giorno e notte infinita.

Nel successivo Il fumo degli anni (Venezia, Edizioni del Leone, 1989) che è un libro importante di passaggio non a caso scandito da una Prefazione di Giulio Geròla e da una postfazione di Giuseppe Zagarrio) il tema ritorna in una chiave meno misterica, più nostalgicamente coniugata dalla memoria del passato. Non a caso in questa raccolta una delle sezioni si intitola Dentro un chiuso spazio e in essa compare il testo inquietante di:

 

«Da questa terra di nessuno. Ci separò lo scarto tra il ferro / e la pietra, lo zoo e la foresta. / Ed ora la tua cuffia verde-mare / è uno stentato segnale di salvezza / per chi è confinato sullo scrimolo / di mondi inaccessibili. Da questa / terra di nessuno, come attraverso / i vetri di un acquario, altro non vedo / che un’occhiuta valkiria che cerca / il filo d’uno scontato labirinto. / E se chiamo inudibile è la mia voce / nel rotolio incessante delle automobili»

 

Qui l’eco montaliana (dagli Ossi di seppia) è evidente in filigrana ma non è questo il punto (più) importante. E’ importante l’idea della no man’s land, della terra di nessuno come perimetro tra ciò che si è e ciò che si vuole, tra quello che è possibile e ciò che non lo è (più) o non lo è mai stato. Proprio per questo motivo, di questo libro scarno e liberato dalle scorie del passato, elaborato come un lutto precoce, Ernestina Pellegrini scrisse su “Il Ponte” all’epoca dell’uscita del libro:

 

«Eppure, quando ci si chiede di risolvere il problema del rapporto tra il fondale e l’interprete, pur riconoscendo il cammino di sprofondamento e passivizzazione del dettato poetico, si è portati a non abbandonare la prima, elementare impressione di levità e freschezza di queste poesie, che non sono realistiche, nonostante la forte spinta alla descrittività, ma semmai spazio onirico e mentale con personaggi ridotti a parvenze indifferenziate, in un clima di oscuri presagi e di sogni, nella rinunzia a riferimenti effettuali subito sfumati dal senso dell’ineffabile e delle parole velate».

 

In quella sua breve recensione coglieva però il problema di poetica che è al centro dell’opera di Civitareale: una nozione di realtà sfumata e convessa che porta il soggetto poetante non tanto a collidere quanto a cercare di integrarsi con la dimensione concreta del poetato.

Ne è dimostrazione il successivo Solitudine delle parole (con prefazione di Anna Ventura, Chieti, Solfanelli, 1995)  dove il taglio del libro precedente si fa maggiormente morbido e si delineano, una volta per sempre, le coordinate “naturali” della poesia di Civitareale: la memoria, la nostalgia, la dimensione temporale che si serve sempre di quella spaziale per dimostrare la superiorità delle parole sui silenzi (che pur coesistono nella tentazione del tenersi appartati a meditare su ciò che poteva essere e non è stato). Basterà questo frammento (è il primo testo della raccolta) a dimostrarlo:

 

«I nostri luoghi non erano qui / dove ignudo si erge il cardo / e le messi muoiono soffocate / da un groviglio di sterpi, / ma dove la primavera luminosa / spargeva la terra d’erbe fiorite / e i pioppi argentei si levavano / al cielo e l’uva prendeva colore / sui colli assolati. Ma ora che / l’ingiuria dell’ombra scende / su di noi ed un immenso silenzio / ci sorride come acqua che scorre, / la pena ha abolito ogni memoria, / profonda tace la notte e nella / sua cortina addensa le tenebre / più oscure. Un crescendo di feroci / inganni è l’amaro sillogismo / che ci nutre in questo insensato / peregrinare per mondi di cui / non ricordiamo i contorni, / né il colore. Nessuno partecipa / al nostro destino, tranne Colui / che è solo nel suo mistero e sempre / sta nel fiume delle immagini. / E non vale dolersi di quanto / cara si paghi la vita, mentre / tacitamente passiamo e sulla / fronte fa buona guardia l’ultima / ora (l’ora solitaria), quando / le insegne caleranno, caleranno i vessilli, irreparabilmente» (p. 13).

 

Qui l'”ora solitaria” diventa il luogo per elezione dove la forza della condizione umana si rivela sotto forma di parole dette, quasi estorte al “fiume delle immagini” e capaci di recingere il perimetro della soggettività che si esprime. Le parole sono il limite delle immagini e, soprattutto, sono lo strumento per ricordare e recingere il passato in una rete di affetti, di ricordi e di sogni che altrimenti risulterebbero per sempre inespressi.

Certo già qui l’insistenza sui luoghi (del passato ma anche della situazione presente) è già cifra stilistica onnipervasiva e coerente della lirica di Civitareale. Come dichiara Walter Nesti in una sua bella recensione al volumetto poi apparsa in “Spiritualità e letteratura” del maggio-agosto 1995:

 

«La poesia di Civitareale si è sempre mossa lungo questo percorso, ha sempre ricercato l’importanza del nesso tra l’accadimento e le immagini che lo devono rendere reale. Perché qualsiasi fatto, per essere vero, o meglio per essere accettato dall’uomo, ha bisogno di parole in grado di farlo vivere. Di quelle parole sole, di quelle parole sospese nel limbo, che improvvisamente si animano, si muovono, diventano vita».

 

Per questo motivo In lucor violetto (con un’introduzione di Massimo Pamio, Chieti, Edizioni NoUbs, 1998) si rivela ancora una volta un laboratorio interessante di scrittura e di aspirazioni di vita racchiusi nello stesso giro tra cielo e terra.

Come scrive con coerente acribia l’introduttore della breve raccolta riferendosi al progetto di poetica escogitato da Civitarale in questo volumetto agile e assorto:

 

« […] la poesia è un mostro che va dappertutto, la cui identità è “probabile”, “uccello o luce non fa differenza”, rinviando a una “mutilazione”, a una “instabilità”. Essa è “droga dei sogni”, “per seppellire il presente”, per cambiare nome ogni giorno, “col riflesso negli occhi dei giorni ciechi”. In lucor violetto si dipana per tre tempi, una ouverture, un adagio (con minuetto), un andante; nel primo, il motivo dominante è dato dalla ricerca dell’identità, nel secondo dall’ideale, nel terzo dalla storia» (p. 4)

 

dopo di che non lo seguiremo oltre nella sua pur ottima analisi critica..

I versi di Civitareale confermano l’assunto descrittivo di Pamio dal momento che le sue situazioni tematiche individuano proprio quei luoghi dello spirito che gli permettono di recitare in modo analogo che:

 

« 6. e ancora scarne immagini / d’una realtà presentita l’illusione / d’una fecondità senza fine / come in alcuni cieli una striscia /  rosa un’isola di fiori una linea / d’acqua che passa sotto il sole / e non sfolgora nel suo cangiante specchio //  7.  forse sperando che un giorno / al loro cielo rinate / più libere fiorirann le finestre / e di festosi pensieri le strade / non altro invece che una siepe frusciante / una sontuosa lanugine primaverile / nel fondo remoto della coscienza //  8.  e solo dato visibile la luce /  che irida gli occhi oltre ogni silenzio / il presagio d’un mondo sconosciuto / punto per punto la trama / il luogo la voce ritornante / lo scrigno infrangibile dei sensi / i desideri l’attesa le tentazioni » (pp. 23-24).

 

Anche qui i luoghi sono conformati come il perimetro attiguo del reale e gli elementi che lo de-finiscono cingendolo si manifestano come dominio di un’illusione che (forse) è più vera perché è più cangiante della realtà monocroma del vissuto più consapevole e dispiegato.

Il passo successivo, costituito dalla raccolta Ombre disegnate (Cosenza, Edizioni Orizzonti Meridionali, 2001), sarà quello del disinganno legato com’è alla consapevolezza della labilità dei ricordi e dei sogni vissuti come reali.

Emblematico e originale è il taglio di liriche come questa:

 

«X. Fissi alla distanza / che ci lega a un diverso tempo, / mettiamo i piedi / l’uno davanti all’altro / cercando appoggi contro i muri / e le auto in sosta. // Il vento ci strappa / lagrime dagli occhi, / ci spinge senza intenzioni / ad un inventario d’oggetti / che non ci appartiene. // Incantati nella pazienza, / il nostro orecchio / snida grida d’uccelli / in una finta prateria» (p. 34).

 

Come si vede, il passo della vita è ormai congruente a quello della poesia – la misura della distanza tra il poeta e il mondo che lo circonda nasce dalla sua capacità di commisurarsi alla sua specifica materialità e compattezza e alla sua astuzia fatta di finzioni virtuali e/o di allucinazioni verbali.

 

 

2. La rivelazione del tempo presente

 

«Calipso. Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto hai portato un’altr’isola in te. 

 Odisseo. Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli   occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare  e tacere.

 Calipso.  Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case?

 Odisseo. Tu stessa hai detto che porto l’isola in me»

(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)

 

L’approdo è sempre il mito, anche se oggi ormai al posto di esso e del suo genuino sapore di mare di cielo e di nuvole trasognate, non può che esserci una collezione vibrante di mitografie.

 

«Il vento snida le lucertole dai rosai, / si posa su pietra e pietra, / sugli occhi della terra.. // Partimmo convinti che l’airone / fosse neve alta nel cielo / e la serpe nel fogliame / verde viso sotto lo sguardo. // Ma non trovammo nell’onda burrascosa / l’immagine che attendevamo, / il veliero che i venti dispersero / in un disadorno ricordo. // Sorgerà un’arca che l’acqua scolmerà / fino a quando nuovi approdi non saranno / su banchine selvatiche e lontane».

 

si legge in I nostri giorni, la poesia d’esordio della nuova raccolta poetica di Civitareale.

Il viaggio non basta a raggiungere la meta voluta; occorrerà un evento che scandisca il passaggio a una dimensione più matura, più disponibile alla vita che adesso appare espropriata della propria qualità primaria di espressione naturale.

Il corso naturale delle cose ritrova nel suo fondo antico da sempre articolato in tempi e in scansioni definite e nette una risposta che però non viene accettata da coloro ai quali viene rivolta. In essi subentra e si ri-afferma l’impossibilità di dire quelle parole che fin ad allora erano state il viatico per la ricostituzione (e la ricostruzione) di un rapporto di interrelazione fecondo:

 

«Di noi negli anni non sentirai parola. / La nostra lingua la possiedono le foglie / che una stagione frettolosa / ha sparso ai quattro venti. // Per noi hanno parlato i gesti, / le mura della casa, le fucsie / reclinate sui labbri di terracotta, / aliena presenza della vita / nel vano delle finestre. // Presto, sotto la neve, rinverdirà / la terra e l’uccello della primavera / sorvolerà lo sguardo petroso dei monti».

 

La poesia si ripresenta, si rafforza e si consolida come testimonianza muta del mondo, non come forma di dialogo tra soggettività umana e Natura ma come attesa dell’evento che permetta di riaprire quel dialogo.

Il poeta, dunque, per usare il titolo di una poesia susseguente, vive soltanto nel backstage del reale, non la performance direttamente e pubblicamente esibita degli eventi. Resta nel retropalco della vita

a contare i “momenti di essere” (è il titolo di un’altra lirica  qui contenuta), a verificare la tenuta del passare del tempo e a scolpire con le sue parole prese dal  passato l’impossibilità di ritrovarlo intero.

Momenti di essere è parola cara a William Wordsworth, il poeta laghista che scoprì le epifanie del tempo quale sostrato mitico della poesia, ma qui Civitareale più che alla tradizione romantica della liricità soffusa e diffusa (lo “splendore nell’erba” come nostalgia del passato che non può tornare) si attacca alla pratica dello scavo tematico e psicologico (il tunnelling process) di un secolo dopo e legato indistricabilmente all’opera di Virginia Woolf.

I moments of being sono il grande contributo della scrittura woolfiana alla creazione di una dialettica dell’illuminazione come forma espressiva (ed eminente) della possibilità della letteratura a farsi strumento terminale di conoscenza: l’uscita dell’ombra dalla luce come prospettiva di comprensione (e compenetrazione) dei processi vitali.

Su questo aspetto della sua opera Enrico Groppali ha scritto:

 

«La luce illumina un attimo di cui non ci è dato scorgere l’essenza ma di cui possiamo, nell’analisi, abbracciare l’estensione costringendo la forma della visione a calarsi intera in una lirica emanazione dell’essere: la parola poetica. E’ questo il “momento d’essere”»

 

(come si legge alle pp. XIV-XV della sua Introduzione all’edizione Garzanti del romanzo Gli anni pubblicata a Milano nel 19822 – ma su questo aspetto fondamentale della prospezione conoscitiva nella Woolf, cfr. soprattutto il saggio magistrale di Giorgio Melchiori, “L’attimo di tempo come unità narrativa” contenuto in I Funamboli. Il manierismo nella letteratura inglese. Da Joyce ai giovani arrabbiati, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 20032).  

 

E’ alla riscoperta dell’opera narrativa della Woolf (e alla rilettura recente di alcuni suoi testi straordinariamente innovativi come Gita al faro, Le onde o Gli anni) che uno dei testi centrali della raccolta (cui dà inoltre anche il titolo) rende omaggio e recupera alcuni (ma non tutti) temi fondamentali di riflessione poetica.

 

«La casa. La casa abbandonata / è come una conchiglia lasciata / su una duna a riempirsi / di secchi granelli di sabbia. / Pare vi sia insediata / una lunga notte. / Pigramente, senza meta, / le tende ondeggiano / da una parte all’altra. / Un cardo si è intrufolato / tra le piastrelle della cucina, / le rondini hanno fatto il nido / nel salotto, i papaveri / si sono disseminati tra le dalie /, un garfano frangiato / è in fiore tra i cavoli / e il leggero picchiettio / dell’erba contro i vetri / è diventato nelle sere / d’inverno un rullio di rovi spinosi. /  Col tramonto la quiete / s’alza e si diffonde, / il vento s’acquieta, / il mondo si adatta al sonno / in una tenebra rischiarata / solo dal giallo soffuso / delle foglie, dal pallore / dei fiori presso la finestra»

 

Questa casa abbandonata e piena di fiori selvatici (e non) è evidentemente la poesia o almeno la capacità della scrittura lirica di sbocciare ovunque, di produrre ovunque la propria fioritura rich and strange (come il fondo del mare nella Tempesta di Shakespeare). 

La Natura  diventa in questo modo parte integrante della Cultura e il sogno sussegue al sonno vellutato del tranquillo passare lieve del tempo delle stagioni. In quest’ambito non c’è spazio per gli scossoni della Storia e la vita si inserisce, pallida e tranquilla, in un contesto del tutto naturale. Ma quando arriveranno “i gitanti” (e cioè il tumulto affannoso e disperso della Modernità e la rottura frenetica degli equilibri esistenti tra Società e Natura):

 

«E’ questo il momento / in cui basta una piuma / perché la casa si inclini / precipitando in un abisso / di tenebre. Ma nelle stanze /  in rovina i gitanti porteranno / la loro chiassosa presenza, / gli amanti faranno all’amore / sulle assi spoglie / e il vagabondo vi dormirà / avvolto nel suo mantello / per ripararsi dal freddo / della notte. Poi crollerà / il tetto, i rovi cancelleranno / il sentiero, finché soltanto / un frammento di porcellana / tra le ortiche indicherà / ad un passante smarrito / che lì un tempo era vissuto / qualcuno, un tempo / c’era stata una casa».

 

La Storia e la Morte riprenderanno così il loro dominio. La Natura ordinata dei fiori e delle rondini sarà scacciata dall’avvento burrascoso e disordinato di uomini incapaci di apprezzare appieno la pace e la serenità che nella casa abbandonata fino ad allora avevano regnato fino ad allora.

E’ la descrizione di questi eventi che Civitareale nella sua rilettura (e ricostruzione) dell’opera di Virginia Woolf chiama mitografie.

Nel corso di esse, la casa abbandonata, le notti, il sonno e le visioni, la grazia e la quiete (tutti titoli di altrettante liriche meditative contenute nel volume) si trasformano in altrettante epifanie dell’esistere, in momenti di passaggio metaforico tra la realtà da descrivere e il suo doppio poetico che, trasfigurandola, la consegna alla sua possibile universalità.

Il loro valore di mito compiuto essi lo raggiungono attraverso la forza d’impatto della descrittività pensosa – utilizzando un linguaggio piano e senza asprezza, la sua poesia riesce a congiungere la ricerca della verità con la sua evanescenza, la volontà di ritagliarsi spazi di reale alla capacità di renderli il luogo in cui “il cuore della terra” trova le sue radici.

Opera in bilico tra melanconia e scatto conoscitivo in avanti, tra regesto poetico del passato e aspirazione ad una condizione rinnovata dell’uomo e per l’uomo, il nuovo libro di Civitareale coniuga sogno e capacità riflessiva, descrittività e allusione, ricordo e ricerca. E’ una scommessa riuscita.

 

Pietro Civitareale è nato a Vittorito (L’Aquila) nel 1934. Nel 1960 si è trasferito prima ad Alessandria, poi a Firenze, dove tuttora risiede. Saggista, narratore, traduttore e studioso anche della poesia in dialetto, ha pubblicato la raccolta di scritti critici Poeti in romagnolo del secondo Novecento (2005) e curato l’antologia Poeti in romagnolo del Novecento (2006). Come poeta, ha all’attivo una decina di volumi di versi in lingua e in dialetto, tra cui: Un modo di essere, 1983; Il fumo degli anni, 1989; Solitudine delle parole, 1995; Le miele de ju mmierne, 1998; Ombre disegnate, 2001; Quele che remane, 2003. Ha curato inoltre l’antologia di poeti italiani contemporanei La narración del desengaño (Zaragoza-Madrid 1984) e l’antologia Cile, poesia della resistenza e dell’esilio, Firenze 1985.

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[Pietro Civitareale, Mitografie e altro, Raffaelli Editore, 2008, pref. Giuseppe Panella, pp. 102, Euro 10]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.