LE IMMAGINI DELLA POESIA. Due modelli di descrizione lirica: Bartolo Cattafi e Mario Benedetti. Saggio di Giuseppe Panella

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di Giuseppe Panella 

 

1. Da Greenwich alla ricerca dell’anima:  i viaggi nella poesia di Bartolo Cattafi

 

«La sua poesia ha qualcosa delle combustioni di Burri o delle blasfeme solitudini di Bacon. Figurativa e insieme informale, ha un’evidenza che investe l’occhio, più che il dominio della parola scritta. Voglio dire che il suo leopardismo (intendo il rifiuto di ogni pur minima concessione) non ha mai niente, come nel possibile modello, di deduttivo o di riflessivo. E’ un’immagine secca, un fotogramma fissato oppure ossessivamente ripetuto […]. Cattafi, quando è più vero, cioè quasi sempre, tralascia, nel suo linguaggio, ogni relazione analogica; donde la sua perfino sconcertante chiarezza, che riflette il suo bisogno di comunicare: sia pure l’ineluttabilità della tragedia»

(Luigi Baldacci, recensione a La discesa al trono, 1975)

 

E’ venuto il momento di ritornare alla poesia di Cattafi per parlarne di nuovo in maniera più serena e meno occasionale di quanto si sia fatto un tempo. Dopo (qualche) entusiasmo iniziale, dopo (poche) occasioni critiche e dopo (parecchio se non molto) silenzio dovuto alla sua scomparsa repentina e al disinteresse degli storici della poesia novecentesca italiana troppo impegnati in altre relazioni critiche, è giunta l’ora di analizzarne (nei limiti del possibile) il progetto di scrittura e la proposta di poesia visivamente composta che emerge anche da una lettura superficiale dell’opera cattafiana.

Con la consueta lucidità, recensendo su un quotidiano (“Il Giornale” del 25 marzo del 1975) l’appena apparso volume di poesie titolato alla Discesa al trono e pubblicato da Mondadori di Milano, Luigi Baldacci metteva in evidenza l’aspetto visivo e largamente legato alla dimensione pittorica della poesia di Cattafi (il critico fiorentino era uso frequentemente a questi paragoni tra arti diverse che sono, da un lato, esaltanti e coinvolgenti ma, dall’altro lato, se non risultano esatti e illuminati dalla luce della competenza specifica, rischiano di essere fuorvianti e addirittura inutili se non nocivi). Ora, è noto l’interesse e l’impegno anche continuamente profuso da Cattafi nel campo della pittura (in cui la sua produzione fu abbondante quanto quella poetica) ma questo, ovviamente, non basta a chiudere la questione. E’ fin dal principio, infatti, che il poeta di Barcellona di Sicilia si pone dalla parte esplicita della visività in poesia (il che non esclude la visionarietà – come nel caso di Rimbaud o di Campana – ma questo sarebbe comunque tutto un altro discorso da fare). Si pensi a Partenza da Greenwich, una poesia del 1953 che è presente in Le mosche del meriggio, la prima raccolta di Cattafi edita nel 1958 e che raccoglie quanto aveva scritto fino ad allora:

 

«Si parte sempre da Greenwich / dallo zero segnato in ogni carta e in questo / grigio sereno colore d’Inghilterra. / Armi e bagagli, belle / speranze a prua, / sprezzando le tavole dei numeri / i calcoli che scattano scorrevoli / come toppe addolcite / da un olio armonioso, in un’esatta / prigione. / Troppe prede s’aggirano tra i fuochi / delle Isole, e navi al largo, / piene, panciute, buone / per essere abbordate dalla ciurma / sciamata ai Tropici / votata alla cattura / di sogni difficili, feroci. / Ed alghe, spume, / il fondo azzurro in cui / pesca il gabbiano del ritorno / posati accanto al grigio / disteso colore / degli occhi, del cuore, della mente, / guano australe ai semi / superstiti dl mondo» (1).

 

Qui il dato di partenza è simbolico. Il meridiano di Greenwich (non a caso detto anche meridiano primo) è dalla conferenza di Washington del 1884 sulle misure internazionali dei meridiani il luogo topico dell’Europa occidentale dal quale è possibile misurare il tempo che passa e stabilirne la direzione a partire da zero. Rappresenta, quindi, l’azzeramento del reale e della sua storia, il punto da cui partire per guardare il mondo con occhi nuovi e non avviliti dal gravame grigio e incolore della necessità. Greenwich è il punto zero dal quale si può puntare la prua verso un mondo più colorato (“il fondo azzurro”) dove l’avventura e la felicità attendono chi naviga sui battelli-prigione (“pieni” e “panciuti” – fatti di certezze immotivate e di negazione del sogno). Il viaggio verso i mari del Sud della Tortuga è la conquista e la rivendicazione di un destino fatto sì di “sogni difficili, feroci” ma colorati delle possibilità della speranza e del desiderio di sopravvivere al mondo.

Analoga situazione si riscontra in Libero e triste, un testo sempre tratto da Le mosche del meriggio:

 

«E’ ancora primavera. All’alba vedo / verde, fertile, untuosa, la convessa / polpa del mondo. / Più tardi il sole aizza le voraci / colonie di microbi lì inscritte / inserite come un vivo / epitaffio nel cuore delle cose / volte a un biondo colore; nel meriggio calano le mosche. / M’appare la bandiera / che non ha medaglie / l’albero brullo, vagante / senza frutti né fronde / lo straniero disceso / da una scala improvvisa una domenica / che può dunque morire / libero e triste / senza mai dire i nomi / le opere, i motivi / al corvo e all’uomo / a uno sciame deluso di farfalle» (p. 81).

 

La poesia pro-duce quella visione del mondo che permette alla realtà osservata di essere più “verde” – è speranza di vita e invito a essere fecondi, produrre sogni che trasformino la “polpa convessa” in profondità e bellezza. Ma, dopo che le parole della poesia sono state pronunciate e sembra che abbiano compiuto la loro missione, il sole della realtà produce soltanto “colonie di microbi”, non le visioni promesse di vita futura. Al posto della conoscenza del “cuore delle cose” (il cui colore “biondo” dovrebbe sancirne la bellezza), si insedia soltanto il loro “epitaffio”, la loro messa in disparte e il parziale abbandono delle loro possibilità vitali finché al tramonto arriveranno in volo le mosche e la morte come antitesi al loro destino. La dimensione del reale, dunque, si svuota non solo della sua naturale bellezza e qualità ma anche della sua capacità di trascinamento verso qualcosa di migliore e di diverso: “lo straniero” (la parola poetica, forse, oppure la differenza strabordante del divino rispetto a un mondo popolato di “uomini vuoti”, alla Eliot), arrivato improvvisamente “una domenica”, viene lasciato da solo a morire “libero e triste” perché non ha trovato nessuno con cui confrontarsi, neppure il colore vitale, diffuso e confortante, delle farfalle che se ne vanno deluse per non aver potuto posarsi sul vero. Per Cattafi, dunque, il colore “vero” del mondo sbiadisce e sfiorisce a partire dal momento in cui nasce – dalla bellezza straripante della vita si passa rapidamente al suo eclittico sfiorire in un insieme di simboliche tristezze e sparizioni (la bandiera al vento, l’albero senza foglie, i corvi e le farfalle in volo senza meta o destino esemplare).

La situazione non migliora (ma neppure peggiora più di tanto) con L’osso, l’anima del 1964 (come il titolo stesso profetizza):

 

«Confine. Secco duro gessoso / apparve il disegno del paese. / Là portammo le nostre / leggi, sistemi / di peso, di moneta, di misura. / Il mondo si concluse entro un confine / di pietre abbacinanti, / non vedemmo al di là di quell’altro mondo: / valido, vittorioso / quando ci travolse. / Vagammo a lungo / nei luoghi perduti. / Il paese ci apparve in movimento, / fertile, fluido, mutevole, / ricco di regole e di merci, / emporio e scalo di molte regioni. / Secco duro gessoso sovente è l’occhio, / le mani, lo scalpello lo assecondano, / foggiano cose a nostra somiglianza» (pp. 96-97).

 

L’altro paese è, ovviamente, la poesia: il suo confine è “secco duro gessoso”, difficile da valicare e, soprattutto, difficile da conquistare con le proprie leggi e le proprie unità di misura importante con una violenza non giustificata. Ma il mondo al di là del confine è più vero di quello da cui si parte e di cui si fa parte – là è tutto più “valido” e avventuroso, “vittorioso” e lampante, più adatto alla vita. Una volta superato lo scoglio e la durezza dell’inizio, la poesia vince. La durezza del vivere e del vedere (“secco duro gessoso sovente è l’occhio”) è legato all’incapacità di cambiare e di trasformare le proprie regole (i pesi e le misure) in una prospettiva di creazione e di mutevolezza che permette di attingere una ricchezza nuova e più diffusa (più “fluida”). L’occhio è incapace di andare aldilà di se stesso e solo la parola della poesia può costringerlo a farlo.

Fino a questo punto del percorso cattafiano, dunque, le immagini pittoriche (i colori, i segni, le dimensioni) sono rivolte ad un potenziamento della parola, ad una sua identificazione di senso che ne permette la collocazione nello spazio a mo’ di segnatempo che ne permette la dilatazione e lo scorrimento. La parola serve a viaggiare in uno spazio atemporale, senza dimensionamento sicuro.

In esso l’unica guida sono le immagini che lo scandiscono – immagini prima assai colorate, poi meno fino all’assottigliamento all'”osso” (che ne sostiene l'”anima” del discorso).

Nel prosieguo della sua attività di scrittura, le immagini perdono consistenza esatta e definita e si fanno sempre più puri colori o sostegno visivo della scrittura. E’ La discesa al trono (di cui si è già detto) e che costituisce, in certa misura, l’escalation terminale di questa tendenza:

 

«Sul fronte del grigio. Sul fronte del grigio / con forte zoccolo di verde umido / viene un volo di anatre / uscite dal mare / verdi umide grigie / impagliate impagliate /  mille volte travolte dalla morte» 

 

oppure tratto sempre dallo stesso volume di liriche e in perfetta continuità con il testo precedente:

 

 «A centimetri cinque. Con uno schiocco imprevisto / imperativo / a centimetri cinque dalla testa / scrostò l’intonaco / scheggiò un mattone / schiacciato cadde / piombo impolverato / calmatosi un rombo / di sangue nella testa / restai immobile / girai lo sguardo / con la mano feci / un pallido gesto di saluto / c’erano morte e vita su quel muro / la vite americana arrancava in salita / senza aiuto / a centimetri cinque dal traguardo» (pp. 178-179).

 

Sono solo immagini adesso quelle che alimentano la linfa vitale della poesia di Cattafi.  Il “volo di anatre”, il tralcio di “vite americana”, il “mattone schiacciato” dal “piombo impolverato” sono solo forme in movimento sulla pagina che mostrano evoluzioni e umori della soggettività, microstorie di un Io che esplicitamente si consacra alla definizione del proprio bisogno di poesia, eventi improvvisi cui è difficile dare una risposta che non sia nei termini stessi della sua descrittività in opera. “Morte e vita” si congiungono in un’immagine che pulsa della vita della poesia. Il percorso di chi è partito da Greenwich alla ricerca della verità della poesia finisce qui, nel cercare i frammenti del mondo da convogliare verso la propria anima senza meta e nel raccoglierli in un mosaico fatto di mezze verità e di mezze rappresentazioni irrealizzate del processo che rende credibile il mondo in cui ci si trova a vivere.

L’idea di una poesia tutta fatta di immagini segmentate e coinvolte nel progetto di descrizione esistenziale della soggettività in crisi del poeta non abbandonerà più Cattafi (fino alla morte troppo precoce nel 1979): tutte queste figure di esseri animati, questi oggetti, queste epifanie instabili e incerte descritte con rapidi tocchi coloristici nei suoi brevi testi poetici sono la conferma di un tentativo di rendere la mancanza di centro, l’impossibilità di una poesia realistica e conforme al canone tradizionale novecentista che vorrebbe l’Io al centro come punto fermo e il mondo in rotazione (anche vibrata e violenta – come in Montale, ad esempio) intorno ad esso. Qui entrambi (l’Io e il Mondo, cioè), non solo non hanno centro ma sembrano non averne bisogno per provarsi a descrivere le loro avventure alla ricerca di una possibilità per la parola poetica di condurre a una nuova descrizione e non soltanto approssimativa del mondo.

Così si esprime Cattafi in una delle sue ultime testimonianze poetiche (Marzo e le sue Idi, Milano, Mondadori, 1977):

 

«C’entra il crepuscolo.Chi di colori s’intende / e di pagine scure / ritagliate compatte dall’inchiostro / alle tristi finestre s’affaccia / tasta smorte pareti come un cieco / c’entra il crepuscolo / livido e bieco nelle sue misture» (p. 236).

 

2. I luoghi della parola: il tempo immobile e tremendo di Mario Benedetti

 

«Or, perché umana gloria ha tante corna, / non è mirabil cosa s’a fiaccarle / alquanto oltra l’usanza si soggiorna; / ma quantunque si pensi il vulgo o parle, / se ‘l viver vostro non fusse sì breve, / tosto vederesti in fumo ritornarle. – / Udito questo, perché al ver si deve / non contrastar ma dar perfetta fede, / vidi ogni nostra gloria al sol di neve; / e vidi il Tempo rimenar tal prede / de’ nostri nomi, ch’io gli ebbi per nulla, / benché la gente ciò non sa né crede: / cieca, che sempre al vento si trastulla»                (Francesco Petrarca, Triumphum Temporis)

 

 

Bartolo Cattafi muore nel 1979 – risulta così un poeta interamente confitto nel mondo lirico e immaginale del Novecento. Mario Benedetti è, invece, poeta del secolo nuovo che, in parte, sembra riprenderne il modello stilistico in chiave di più rarefatta ambizione all’osservazione e al ricordo estremo di un mondo senza tempo e senza ambizioni di sogno.

 

«Le mani sulla mela, sole con il verde / le dita avvoltolate nelle bucce. // Le cassette dorate che Rina portava dal lavoro, / quelle cadute sul prato, mamma, che cosa mangi? // E il succo nella bocca della tua eternità / dove il mondo è stato unico e minuscolo. // Povera umana gloria / Quali parole abbiamo ancora per noi?» (2).

 

E’ questa la domanda fondamentale che la poesia aspra e semplice, limpida e sognante, di Mario Benedetti pone a tutti coloro i quali amano e perseguono l’ideale di una scrittura poetica assoluta.

E’ una richiesta quella che vale per ognuno – disperata e solare com’è al tempo stesso e come risulta, infatti, per chi la ascolta nel momento in cui viene pronunciata.

Quali parole, infatti, abbiamo ancora a disposizione per dire quello che sappiamo e quali parole possiamo utilizzare in maniera adeguata, dignitosa, perspicua per poter riuscire a farlo?

Certamente non ne abbiamo più molte a disposizione da utilizzare ancora per dire l'”umana gloria” in maniera tale da non doversi più vergognare di esse e non doverle abiurare con dolore e dispetto.

La lingua che si può ancora usare per rendere più nitido e preciso l’orizzonte di visibilità del presente è fatta di un lessico scabro come le pietre dei viottoli di montagna che il suo narratore poetico (e sempre nostalgico di essi) percorre ancora oggi almeno nel pensiero.

Nella scrittura e nel mondo poetico di Benedetti, gli uomini possono opporre alla morte soltanto un proprio gesto di accettazione finale, di presa di coscienza della conclusione del loro percorso vitale in un mondo che hanno sempre sentito come “unico e minuscolo”, come terribilmente limitato e, nello stesso tempo, enorme e senza limiti naturalmente intesi. E’ il mondo delle parole, infatti, che fronteggia quello delle cose viste: le mele (come si ritrovano, ad esempio, in un noto quadro di Cézanne), le mani che si perdono e non ritrovano se stesse nel vano gesto di raccoglierne le bucce, il pacato e misurato gesto di mondarle e di trarne il succo vitale per riprovare a vivere ancora.

La gloria dell’uomo, allora, consiste nel resistere al tempo che vorrebbe “fiaccarne” le risorse esistenziali e comprendere che c’è qualcosa di più oltre la semplice e compiutamente raffigurabile espressione dell’esistenza che egli porta a compimento nel corso della sua via verso il futuro prossimo: anche l’eternità è fatta di giorni, di ore, di minuti e si ritrova dovunque, in qualsiasi luogo. Non certo trionfalisticamente né al suono della grancassa dell’umanesimo becero e sornione che ritrova tutto nel tempo e solo ad esso si rivolge ma nell’accettazione del breve giro di valzer della vita che si consuma e, nello stesso tempo, si conserva proprio nel momento in cui scorre e permette così il suo ritrovarsi unitario e concorde in una totalità priva di enfasi e ricca del “succo” necessario a tenerla in piedi.

Mario Benedetti è poeta solo da poco giunto alla ribalta dei premi letterari e della grande editoria. Un poeta appartato anche se spesso assai attivo sotto il profilo critico. Umana gloria (da cui si è citato precedentemente uno dei testi più significativi) è la sua opera finora di maggior respiro e di maggiore maturità espressiva, un testo in certa misura conclusivo (anche se la sua collocazione così perentoria nella Collana mondadoriana dello “Specchio” non basta a farne un autore abbonato ai premi di poesia – come pure è stato definito un po’ troppo causticamente – né ad imbalsamarlo nella dimensione di nicchia di un classico forse troppo precoce). In realtà, il suo percorso è assai più complesso e frastagliato di quanto la compatta architettura del suo libro “maggiore” possa far pensare. Prima di questo Umana gloria, Benedetti aveva pubblicato quattro plaquettes di versi (I secoli della Primavera, 1992 ; Una terra che non sembra vera, 1997 ; Il Parco del Triglav, 1999 e Borgo con locanda, 2000). Alcuni dei testi de libri precedenti, comunque, sono confluiti in questo volume finale che ne rappresenta in certa misura una sintesi coerente. Ma va detto che nessuno dei suoi testi poetici, sia per la semplicità delle dichiarazioni tematiche che per la limpidezza del suono poetico che emanano, sembra il frutto di quello scavo e di quella elaborazione linguistica di lunga durata che, in effetti, è diventato.

E, in ogni modo, se lo stile di Benedetti può sembrare, in certa misura, “opaco” (come ha osservato anche Maurizio Cucchi in una sua breve nota recensoria su “La Stampa”), la sua natura piana e scandita, senza salti e senza eccessi di tono, conserva una pacata musicalità di fondo, quasi un basso profondo che non vibra mai troppo a lungo ma fa avvertire al lettore più attento la sua presenza e la sua intensità. Strutturati sull’onda di versi lunghi e ipermetropi nella maggioranza dei casi (come l’esempio citato in apertura facilmente dimostra), i suoi testi tendono quasi necessariamente alla prosa (e il libro ne contiene quattro dichiaratamente tali – in una sezione che va da p. 69 a p. 75) e all’estensione nella liricità narrativa.

Tutte le sue poesie, nonostante la frequente contrazione metaforica dei raccordi che contengono, tendono ad una narratività sobria e lieve che non permette l’esistenza di spazi dedicati alla retorica delle ideologie disperse nella memoria o al colore sbiancato dei rimpianti generazionali. Le sue immagini poetiche non sono ad alta densità rappresentativa (non sono “belle” da un punto di vista immaginifico, in sostanza) ma sono capaci di compiere cortocircuiti nella descrizione o nella narrazione di eventi apparentemente marginali o laterali rispetto alla Storia comune ad ognuno degli uomini o alle biografie più affollate di fatti e di avvenimenti.

Per Benedetti, infatti, la vita è sempre feriale, è intessuta cioè di vicende che non sono “gloriose” ma quotidiane e apparentemente irrilevanti per gli altri. Vicende, tuttavia, che vanno vissute “come una veglia”. I temi e gli ambienti dei suoi testi poetici sono modesti e silenziosi, intessuti di piccoli e scabri movimenti, esaltati dai momenti della vita di tutti i giorni, scardinati soltanto dall’eterno rincorrersi di nascite e di morti avvenute nell’ambito della cerchia familiare allargata e lasciati intatti anche dalla logica più “avventurosa” dei viaggi in luoghi e paesi che potrebbero far pensare ad una diversa collocazione della scrittura e del suo desiderio di accogliere l’Altro in se stessa.

La materia che affiora dalle sue sobrie leggere tessiture di parole è povera, fatta com’è di attese, di silenzi, di frammenti di discorso, di personaggi che sono poco più che ombre e poco meno che sussulti. La solitudine, ad esempio, è colta attraverso gli atteggiamenti della vita di tutti i giorni – tagliare la legna, cucinare, aspettare l’inverno, correre in bicicletta.

L'”umana gloria” del vivere si ritaglia, nell’azzardo legato alla sua inevitabile vicenda, lo spazio della poesia. E quelli che predominano sono gli affetti più semplici (l’amore per la madre, il ricordo del padre ammalato, l’ammirata attenzione al paesaggio della sua terra, il vagheggiamento un po’ trasognato di altre giornate da trascorrere che vengono vissute e insieme dimenticate, il lavoro e la pacata conversazione con i familiari). Il risultato che Benedetti raggiunge è quello di cogliere un livello di viva e sincera autenticità umana che la poesia da molto non coglieva più e che vive in una accorta e mite dimensione certo trascolorata e forse sbiadita ma mai volutamente crepuscolare e stinta. Il “vero verde” di Benedetti non è fatto delle parole piene della tradizione ermetica (come in Quasimodo – tanto per citarne uno di alto livello) quanto delle assenze, delle mancanze di epos, del prendere e riprendere sempre la stessa strada e rievocarla.

La fragilità del reale e della natura costituisce paradossalmente la verità della sua epica dimidiata e sommessa e la sostanza (questa sì granitica !) del suo ethos contadino e saldo nei propri principi.

La concretezza degli oggetti, la sicurezza che i luoghi in cui si è vissuto danno di saper durare e di perpetuarsi nel tempo infinito che li attende, la ripetizione delle situazioni descritte sostanziano una scrittura di grande intensità e di grande dolcezza sognata e soffusa.

Attraversando l’esistenza di ogni giorno, la malinconia che pervade questa traversata si fa forza di vivere e aspirazione ad accettare la bellezza non consueta della capacità umana a rendere praticabile ed accessibile qualsiasi percorso.

E’ per questo motivo che risulta difficile comprendere e giudicare se risponda a verità l'”accusa” che più frequentemente viene rivolta a Mario Benedetti e che è quella di essere un “neo-petrarchista”, accusa che condivide con uno dei suoi maestri più manifestamente “dichiarati” e cioè Andrea Zanzotto. Va detto però che se per il poeta di Pieve di Soligo il confronto con Petrarca (si pensi allo “sperimentalismo classicista” di raccolte come Galateo in bosco o La beltà) si fonda quasi esclusivamente sul recupero di una tradizione lirica di metri e di ritmi condivisi per poi sprofondare magnificamente nell’ascolto letterario dell’inconscio, per Benedetti c’è probabilmente una maggiore adesione a quei temi di fondo della poesia petrarchesca che vanno oltre la scansione della poesia d’amore e il recupero della dimensione autobiografica.

L’accenno più volte fatto da Giuseppe Genna nelle sue pagine dedicate al libro di Benedetti e irradiate direttamente sul web (nel suo blog intitolato a I Miserabili ad esempio) e che si rifanno alla lezione classica dei Trionfi che trova nel poeta toscano un iniziatore tanto più significativo quanto poco successivamente perseguito anche nella dimensione barocca che si intitola al petrarchismo è, a questo riguardo, assai significativo e culturalmente importante.

D’altronde, gli accenni polemici di alcuni poeti più legati all’avanguardia tardo-novecentesca italiana (come Lello Voce) trovano proprio nell’imputare un retaggio petrarchesco alla poesia di Benedetti il loro maggior punto d’appoggio per la loro critica forse eccessivamente severa.

Se il Canzoniere sembra escluso dall’orizzonte poetico di verifica della poesia di Benedetti, i Trionfi, invece, con la loro accorata e raziocinante rivendicazione del declino personale e comune e dell’impossibilità della vita terrena a farsi assoluta pietra di paragone del presente possono costituire un punto d’approdo di una ricerca a ritroso di convergenze e di anticipazioni tematiche.

 

«E’ stato un grande sogno vivere / e vero sempre, doloroso e di gioia. / Sono venuti per il nostro riso, / per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo. / Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia: / quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini. // Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido, / il ginocchio che premeva sull’erba / nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno, / il babbo morto, liscio e chiaro / come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera. // Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo / con le storie dei poveri che venivano sulle panche, / e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi / con addosso i muri strappati delle case che non ci sono» (3).

 

L’ “umana gloria” è nel tempo che passa e appartiene al tempo che viene: si ritrova nello stupore di essere ancora vivi, nella meraviglia che il vivere consenta di passare attraverso la realtà delle cose e di continuare a ritrovare la verità profonda del mondo “tra le erbe, i mari, le città”. Il presente è tutto attraversato dalle trascorse scie d’amore di un passato che non è possibile far ritornare e riemergere ma che continua ad essere salvato perché recuperato dai gesti e dalle visioni della poesia. Una poesia che è fatta della materia più povera (quella di cui sono intrise le nostre vite non eccezionali e non definitive) ma che proprio quella povertà riscatta con la sua potenza espressiva e riflessiva. In questo modo, Benedetti coglie le ragioni e le radici della sofferenza e le riconnette alla dimensione del vivere per giustificarle e redimerle nei limiti di un possibile terreno creaturale. Questo processo emerge con chiarezza da poesie come quella che segue:

 

«Venerdì santo. / Il cielo sta su nel pensiero di piangere. / Sulla strada / gli uomini sono andati metà muro, metà fiume. / Sto qui molto lontano dai templi, / dalle processioni tra i lumini, / molto lontano dai romanzi / dove c’era la luce dei visi. // Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene, / vorrei perdonargli di morire, cosa fare. / A sapere bene forse potrei dire : / anche per noi una visione intera / con uno specchio sopra, con un cielo. / Mi tengo al suo sguardo perduto / così particolare, così solo, / senza romanzi, con il campo che non è un mondo. / Non so andare avanti» (4).

 

Come era accaduto anche nel caso di Cattafi, la poesia si arresta di fronte all’immagine che la contiene – e non va avanti. Le immagini che sprigionano da essa saranno capaci di farlo.

 

Note

 

(1) Tutte le citazioni da opere poetiche di Cattafi provengono dalle sue Poesie scelte (1946-1973), a cura e con un’Introduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1978 (un’antologia edita appena in tempo, un anno prima dell’improvvisa scomparsa del poeta); in questo caso la citazione è alle pp. 55-56.

 

(2) Mario Benedetti, Umana gloria, Milano, Mondadori, 2004, p. 112. Mario Benedetti è soltanto omonimo del grande poeta e narratore uruguaiano di cui, casualmente, porta lo stesso nome e cognome. E, d’altronde, la potente ondata dell’emigrazione italiana nel mondo può comportare, profittevolmente e senza stupirsene più di tanto, la compresenza di due importanti scrittori di uguale origine sulle due sponde dell’Oceano.

 

(3) Mario Benedetti, Umana gloria cit., p. 35.

 

(4) Mario Benedetti, Umana gloria cit., p. 31.

 

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.