LA NOSTALGIA E’ SEMPRE QUELLA DI UN TEMPO. La poesia, i poeti e il Mediterraneo di oggi

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LA NOSTALGIA E’ SEMPRE QUELLA DI UN TEMPO
La poesia, i poeti e il Mediterraneo di oggi

di Giuseppe Panella

«E poi al mattino dimentichiamo. Non sappiamo neanche più riconoscere le finestre che brillavano nella notte. Tornata la luce del giorno, esse sono tutte uguali. E di giorno, sulla Piazza, tutto è allegro, sempre. Se piove, diciamo: “Che tempo!”; se fa bello, diciamo: “Che tempo!”. Mi sono fatta tornare a casa. Ero pericolosamente vicina a cadere nella cronaca. Non sarebbe mai finito. Non c’era ragione per non continuare fino alla mia morte… Con una certa ipocrisia ho giocato sulle parole “memoria” e “nostalgia”. Non posso giurare di essere stata di una sincerità totale quando affermavo di non provare nostalgia. Ho forse la nostalgia della memoria non condivisa…»
(Simone Signoret, La nostalgia non è più quella di un tempo, trad. it. di Vera Dridso, Torino, Einaudi, 19802, p. 390)

1.

La poesia è sempre nostalgia (la Nostalgia) di qualcosa che si è perduto.
E’ il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, la volontà di ritrovare il passato e di anticipare il futuro sulla base di ciò che una volta fu e non è mai più ritornato, è il desiderio di ripetere i momenti felici e di esorcizzare quelli sbagliati, infausti, infelici, paurosi, assurdi.

«Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa dell’essenza delle stelle: come la luce dal fuoco, così il mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce e nella luce si avvolge ogni fuoco. Così ogni lato dell’anima riceve un senso e giunge al compimento entro questa duplicità: esso è compiuto nel senso e compiuto per i sensi, è perfetto perché l’anima riposa in se stessa mentre muove all’azione; è perfetto, ancora, perché il suo agire si stacca da essa e, fattosi autonomo, perviene al proprio centro e si iscrive in un suo conchiuso ambito. “Filosofia è propriamente nostalgia – dice Novalis – anelito a fare di ogni dove la propria casa”. Pertanto la filosofia, sia come forma di vita che in quanto elemento formante e contenuto della poesia, è sempre il sintomo della scissura tra interno ed esterno, il segno della intrinseca discrepanza fra io e mondo, della non-conformità fra anima e azione» (1).

Non è più possibile viaggiare avendo come unica mappa per il percorso voluto la volta stellata, ormai – il viaggio autentico e rimembrante è solo quello che si può compiere nella mente e mediante il quale il tempo passato si congiunge a quello presente in nome di una sintesi futura a venire. Viaggiare come capacità e desiderio di colmare quella scissura (di cui accenna Lukács) per sanare il dolore che la nostalgia inevitabilmente produce. D’altronde la nostalgia non è forse il “dolore del e per il ritorno” (come i dizionari della lingua italiana e Milan Kundera nel suo romanzo L’ignoranza (2) spiegano a perfezione?) .

2.

La nostalgia è la cifra stilistica di gran parte della grande tradizione lirica italiana e non sarà necessario portare esempi in gran quantità per dimostrarlo. Ma certo la nostalgia come sentimento si presta in maniera straordinariamente forte e straziante alla pratica della scrittura poetica proprio perché il senso del distacco, della scissura tra interno ed esterno (come sempre sostiene Lukács nella citazione precedente), della separazione da un mondo visto e vissuto come preferibile e migliore conducono irresistibilmente a cercare di ricrearlo in maniera esaustiva e vibrante attraverso forme di scrittura che siano capaci di evocarlo, di mostrarlo, di renderlo presente.
E’ la nostalgia come ricordo e desiderio lancinante della donna amata come in Dante (e non importa che nella Divina Commedia Beatrice non sia una donna “vera” ma l’allegorica ambizione alla conoscenza teologica) o in Petrarca (e non importa che nel Canzoniere Laura sia soprattutto il senhal dell’Amore e non tanto o soltanto la forma assente di un amore lontano nel tempo).
E’ la nostalgia del “buon vecchio, tempo antico” e della cavalleria che è ormai passata di moda (come nell’Ariosto dell’ Orlando Furioso dove la forma epica e fantastica si rincorrono nel cercare di saldare l’impossibilità di un mondo ormai trascorso e il desiderio lancinante per esso – e basterebbe l’episodio di Cimosco, il cavaliere “infame” che utilizza le armi da fuoco “che uccidono da lontano” a dimostrarlo).
E’ la nostalgia di un momento di libertà assoluta dalle pastoie della vita corrente in cui soltanto si obbedisce al Principe e non al proprio desiderio di immortalità (come nel Tasso della Gerusalemme liberata dove l’amore e la morte scatenano quelle ondate di desiderio e di liberazione della memoria che solo la poesia consente di coniugare con il meraviglioso e il profetico).
E, per utilizzare parametri più vicini alla contemporaneità, la poesia si manifesta quale nostalgia della madre mediterranea e lontana, come nel Quasimodo di Lettera alla madre:

«Mater dulcissima, ora scendono le nebbie, / il Naviglio urta confusamente sulle dighe, / gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; / non sono triste nel Nord, non sono / in pace con me, ma non aspetto / perdono da nessuno, molti mi devono lacrime / da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi, / come tutte le madri dei poeti, povera / e giusta nella misura d’amore / per i figli lontani. Oggi sono io / che ti scrivo». – Finalmente, dirai, due parole / di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto / e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore, / lo uccideranno un giorno in qualche luogo. / «Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo / di treni lenti che portavano mandorle e arance / alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, / di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, / questo voglio, dell’ironia che hai messo / sul mio labbro, mite come la tua. / Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori. / E non importa se ora ho qualche lacrima per te, / per tutti quelli che come te aspettano, / e non sanno che cosa. Ah, gentile morte, / non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro, / tutta la mia infanzia è passata sullo smalto / del suo quadrante, su quei fiori dipinti: / non toccare le mani, il cuore dei vecchi. / Ma forse qualcuno risponde ? O morte di pietà, / morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater.» (3).

Il Mediterraneo degli affetti e delle passioni “calde” (quelle di cui parlano Cassano e Alcaro nei loro libri sulla filosofia della “meridianità” (4) ) si ritrova tutto in questa evocazione della Mére méditerranée in attesa di notizie di un figlio fuggito nella notte e inghiottito nel buio e nella nebbia dell’umida regione del Nord.
La nostalgia delle gazze e degli eucalipti dell’Imera rendono lancinante il desiderio del ritorno a casa dalla madre trasognata e intenta anch’essa a ricordare (con la stessa straziata nostalgia del poeta) come i suoi figli erano stati e vissuti prima di distaccarsi dalla sua esistenza e cercare di farsi strada nella propria. Il viaggio verso terre lontane e pericolosamente attraversate con il rischio continuo della morte per la troppa bontà e ingenuità (è la paura della ferocia del con-vivere cittadino qui contrapposta alla lietezza spensierata e libera della vita in seno della natura e tra le braccia materne) si accoppia al dolore del tempo trascorso lontano dalla propria patria. “Il Naviglio” che “urta confusamente sulle dighe” è l’altra faccia dell’Imera del sale e delle gazze: poli opposti di una ricerca del sé poetico che attinge dallo strazio del distacco il senso ultimo di una speranza.
Allo stesso modo, tanto per fare un altro esempio fra gli innumerevoli; Bartolo Cattafi parte per un viaggio all’interno di se stesso alla ricerca del suo Io ignoto anche a lui stesso:

«L’agave. Abbandona la sabbia siciliana, la musica e il miele / degli Arabi e dei Greci, / rompi i dolci legami, questo torpido / latte delle radiche, / discendi in mare regina sonnolenta / verde bestia con braccia di dolore / come chi è pronto al varco; nelle grandi / città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto / carovane camminano in eterno; / viaggia assieme all’anima / fredda dei gabbiani / assieme al cuore fecondo al pesce pregno / che arricchisce la rete più lontana / alla mano lentissima di Dio / venuta in volo da un nido di nebbia» (5).

Anche Cattafi si sente come quell’agave solitaria sulle spiagge marine che lancia il suo fiore solo una volta all’anno per riprodursi e non vuole rimanere legato al suo luogo obbligato come questa pianta “verde con braccia di dolore” quanto viaggiare, accodarsi alle carovane che “camminano in eterno”, seguire il volo dei gabbiani verso la loro fredda destinazione di sempre.
Eppure gli sembra pur sempre doloroso, nonostante il suo desiderio di volo e di conoscenza di ciò che è più lontano, lasciare i “dolci legami” e le “sabbie […] degli Arabi e dei Greci” dove vivere può essere dolce per sempre. L’agave vuole viaggiare eppure permanere nel suo luogo naturale, portare il proprio destino verso il mare e accrescerlo della sua potenza generata tra la musica e il miele. Il viaggio è necessario – ricorda Cattafi in un altro suo testo aurorale – ma la ricerca che avviene durante il suo corso porta sempre in altri luoghi rispetto a quelli che il desiderio indica.
Come in Timoniere (tratto da L’osso, l’anima che è una delle sue raccolte migliori, redatta tra il 1957 e il 1962):

«Quindi andai da lui e gli dissi / Ti prego accosta a dritta / è quello l’arcipelago del cuore. / Mi guardò e sorrise / mi diede un colpo sulla spalla, / invertì come un fulmine la rotta / e fuggimmo agli antipodi dell’isole / mettendo nelle vele molto vento. / Aveva al timone mani salde, / occhi acuti per tutto, / isole, scogli, cuori. / Comunque ero caduto in tentazione. / Era questo lo scopo delle isole» (6).

Lo “scopo delle isole” è dare un senso alla nostalgia (così come alla poesia).

Note

(1) György Lukács, Teoria del romanzo, trad. it. di Antonio Liberi, con un’ Introduzione di Alberto Asor Rosa, Roma, Newton Compton, 1972, pp. 35-36.

(2) Milan Kundera, L’ignoranza, trad. it. di Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2001: “In greco “ritorno” si dice nóstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale; gli spagnoli dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O, in tedesco, Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commuovente frase d’amore ceca: styská se mi po tobe: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano, e io non so cosa succede laggiù. Alcune lingue hanno qualche difficoltà con la nostalgia: i francesi non possono esprimerla se non con il sostantivo di origine greca e non hanno il verbo relativo; possono dire: je m’ennuie de toi (“sento la tua mancanza”), ma il verbo s’ennuyer è debole, freddo, e comunque troppo lieve per un sentimento così grave. I tedeschi utilizzano di rado la parola “nostalgia” nella sua forma greca e preferiscono dire Sehnsucht: “desiderio di ciò che è assente”; ma la Sehnsucht può applicarsi a ciò che è stato come a ciò che non è mai stato (una nuova avventura) e quindi non implica di necessità l’idea di un nóstos; per includere nella Sehnsucht l’ossessione del ritorno occorrerebbe aggiungere un complemento: Sehnsucht nach der Vergangenheit, nach der verlorenen Kindheit, nach der ersten Liebe (“desiderio del passato, dell’infanzia perduta, del primo amore”)” (pp. 9-10).

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(3) Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, a cura e con un’ Introduzione di Gilberto Finzi, Milano, Mondadori, 199020,
p. 179.

(4) Cfr. Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza , 1996 e Mario Alcaro, L’identità meridionale, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Su questi temi, importanti osservazioni si possono leggere in Filippo La Porta, Narratori di un Sud disperso. Cuntastorie in un mondo senza storie, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000.

(5) Bartolo Cattafi, Poesie scelte (1946-1973), a cura di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1978, p. 47.

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(6) Bartolo Cattafi, Poesie scelte (1946-1973) cit. , p. 100.

 

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.