La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni (parte I)

La lotta di classe in lockdown. L’iocrazia dei padroni

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di Antonino Contiliano

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Nel mondo della produzione e della divisione capitalistico-sociale del lavoro e del suo governo politico-sociale, non di rado il termine populista – letto come se fosse una qualità ‘generale’ a sé stante – è utilizzato per sminuire l’avversario politico e svalorizzare le stesse istanze popolari di cui si fa portavoce. Il termine diventa un capo di accusa, o il trascinarsi di una pura astrazione generale ideologica e propagandistica. Si lascia cadere l’intreccio relazionale che la parola, invece, intrattiene con quella di popolo, popolazione, plebe. Ma i nomi generali sono astrattezze linguistico-logiche elaborate sacrificando la concretezza e la contingenza delle cose e, in un contesto come quello odierno dell’ipercapitalismo tecnologico, non tutti (individui, gruppi, classi sociali) per interessi e bisogni soffrono però degli stessi limiti richiesti dalle definizioni generali.


Nonostante il vecchio concetto di lotta di classe sia andato in disuso, non per questo però la logica della differenziazione della società politica in classi sociali e rapporti di potere gerarchizzati (privilegiati, disagiati, emarginati…) è scomparsa. Il modello capitalistico ha mantenuto la sua identità di potere “Iocratico” oligarchico discriminante e assoggettante (delirio di onnipotenza). E anche quando, al posto delle figure sociali diverse (lavoratore subordinato, indipendente, autonomo, disoccupato, assistito, parassita, emarginato…), ha socializzato la figura unica del prosumer, la sua iocrazia, supportata dalla logica della valorizzazione capitalistica nella forma degli automatismi digitali del linguaggio elettronico (la nuova rivoluzione industriale informatica e telematica), si è solo potenziata e ha contaminato le stesse identità individuali e sociali del vivere insieme. L’interazione storico-sociale dei legami umani, nel contesto dei processi societari (interni ed esterni) dell’iperspecializzazione tecnologica e della telepresenza, non ha finito di essere governata da certi automatismi di potere egemonizzante stili di vita, modi pensare, parlare, agire, comunicare etc. Il modello ha solo spostato la centralità degli uomini a quello degli automatismi delle macchine digito-elettroniche (le macchine intelligenti). Ma le classi, il conflitto sociale e le lotte di classi non sono affatto scomparsi. Basterebbe un’occhiata distratta alle condizioni dei lavoratori odierni della società cybernizzata e liberista; i lavoratori cioè asserviti ad uso e consumo della produzione del plusvalore capitalistico proprietario (generato dalle macchine dell’intelligenza artificiale) e in mano ai colossi dell’imprenditoria della big tecnologia telematica e del telelavoro come Apple, Google, Amazon, o a Uber e Airbnb (fornitori di servizio di trasporto automobilistico internettizato privato che, tramite la rete, mette in collegamento diretto passeggeri e autisti). Questi sono i padroni della nuova economia elettro-automatizzata. Sono loro che continuano a sfruttare la forza-lavoro creativa di ricchezza dei lavoratori nella forma astratta (e monetizzata) della forma-valore per convertirla in profitto, il plusvalore espropriato (il furto di lavoro – lavoro non pagato – di cui parlava Karl Marx). E dove ci sono padroni e capitalisti non possono non esserci individui e classi non sfruttati e subordinati; dove c’è il furto del plusvalore prodotto dal pluslavoro non pagato (tradizionale o non tradizionale sia l’attività lavorativa dipendente e subordinata), non può non esserci contraddizione, lotta di classe e necessità di rivoluzione socio-politica. Le grandi imprese dell’intelligenza artificiale che sfruttano la creatività umana e il saper-fare degli individui, come le «cinque cinesi e cinque americane che (corsivo nostro) spendono per la ricerca una cifra che va all’incirca dai dieci ai dodici miliardi di dollari all’anno a testa»1, non potrebbero disporre di tale ricchezza se non la portassero via (protetti da ordinamenti complici) agli stessi lavoratori che la creano. Né i potentati e amministratori di Google, né Bil Gates (Microsoft) né Jeff Bezos (Amazon) potrebbero avere i miliardi dollari che hanno se non sfruttassero i loro lavoratori dipendenti, che è impossibile non definir classe sociale sfruttata e nei termini del sistema della logica della valorizzazione del capitale o dell’astrazione del forma-valore. Ora è tramite la riduzione della stessa forma-valore agli automi numerici binari e digitalizzati che il potere neocapitalistico e liberistico mette in questione la stessa autonomia dei soggetti, i rapporti delle soggettività e quelli delle soggettivazioni con il mondo delle cose, dell’immaginario e dell’ordine simbolico. Un mutamento complessivo di produzione e produttività che non lascia indenne le vecchie concezioni teorico-pratiche che riguardano le dimensioni etiche e politiche dello stare insieme, e quelle del vivere e dei linguaggi che, astraendo e ridisegnando ideologicamente, rinominano le gerarchie della socializzazione dei rapporti di lavoro. E qui nessuna astrazione neutrale è possibile. Nel mondo delle dipendenze e del controllo digitalizzato della rete web, dirette o indirette siano le azioni delle immagini e dei segni nel loro incrociarsi, intrecciarsi, articolarsi, comunicazioni e informazioni non sono intatte e asettiche concretezze corporee isolate. Lingue e linguaggi per funzionare necessitano di regole, di procedure e di referenze e coerenze sia interne che esterne; e ciò peraltro senza evitare ambiguità, ambivalenze del caso e opportune manipolazioni sovrapposte e sovradeterminate.

Ora, tornando al “populismo”, è facile, dunque, che individui e gruppi nella produzione e nel consumo socializzato degli enunciati discorsivi vi associno qualità e nessi come “demagogia” e “retorica” intese negativamente e senza distinguere tra significanti e significati; cosa che si riversa solo a danno delle classi deboli ma in conflitto. Il conflitto di classe non scompare perché negativizzato o travisato.

Populismo – scrive per esempio Ernesto Laclau, il teorico politico della “equivalenza delle domande” degli elementi eterogenei della popolazione – è il voler essere un popolo della plebe; né nella “logica delle differenze” è meno conflittuale la ricerca di soddisfazione dei bisogni da parte degli stessi soggetti che Voltaire definì plebaglia, il lumpenproletariat di Marx. Neanche “l’iocrazia” – il credersi onnipotenti – degli individualismi della società senza società di Margaret Hilda Thatcher (T.I.N.A: non c’è alternativa, esistono solo gli individui, la società non esiste) e dei ‘prosumers’ della società neoliberista computerizzata e della rete-web mettono in mora o annullano domande e azioni conflittuali contro il potere che amministra e controlla. Nell’organizzazione di una popolazione in popolo nulla va disperso delle energie sociali contrastanti in itinere e delle tensioni organizzative. Anzi! Qui è sempre un insieme di elementi conflittuali con il/i potere/i che egemonizzano l’immaginario e il logos dei soggetti eterogenei e totalizzabili. Perché di soggetti, sebbene fuori la dimensione dell’ontologia sostanzializzata, bisogna pur parlare; di soggetti frammentati e “bucati” (Jacques Lacan direbbe che il soggetto è barrato: un ‘parlêtre’ che è anche un ‘manque-à-ȇtre’). Ed è “barrato”, il soggetto, perché, tra significante e significato, l’ordine simbolico – il linguaggio e la sua codificazione astraente e convenzionale – non ne chiude le faglie inevitabili. Nelle astrazioni codificate le identificazioni significanti non soddisfano le domande di tutti i soggetti. Attese e aspirazioni rimangono inevase, o sono considerate sterili e impossibili. Impossibili come incolmabile è il vuoto, o rimangono nel vuoto come una tendenziale caduta di significato.

Nessun modello può funzionare, però, se non ci sono soggetti diversi che agiscono, pensano, formano, conformano, riformano, rivoluzionano. Lo stare insieme è un relazionarsi che articola l’egemonia di una parte o l’altra della società storica e materiale. Gruppo, insieme o classe sia la parola che determina il conflitto fra le identità eterogenee degli io individuali e sociali, o agonismo e antagonismo sia il nome che definisce i contrasti delle parti in gioco, l’opposizione etico-politica non manca di farsi sentire e agire. E se – come dice Ernesto Laclau – la logica non è più quella della tradizionale lotta di classe (perché la crisi della classe operaia-proletaria come partito universale ormai è irreversibile), ma quella della “equivalenza” delle domande comuni in seno a quella delle “differenze” (gli elementi eterogeni della popolazione), non per questo l’egemonia politica rappresentativa non necessita di soggetti divergenti. Soggetti che vogliono, pensano, decidono, deliberano e agiscono in relazione e interdipendenza di forza e potere discordi (non necessariamente conformi all’ordine costituito del modello dominante). Karl Marx, in una delle sue tesi feubarchiane, ha definito l’uomo come l’insieme delle sue relazioni sociali. Svalorizzare e ridicolizzare le domande sociali degli esclusi, e della massa degli emarginati (il lumpenproletariat di ieri) o degli stessi sfruttati, perché non omogenei all’ordine del sistema amministrato, è cosa perciò che non può cadere nell’accezione populismo come negatività da bandire (una cosa fuori il sistema che minaccia l’identità di un popolo e quella di una popolazione).

Se i populisti sono così una identità estranea all’io del popolo costituito e istituzionalizzato (un’unità già nell’immaginario e nell’ordine simbolico), non è possibile non vedere che si muovono per la costruzione di un altro soggetto e di un’altra logica. Una logica ribelle, sovversiva. Un’azione di rottura e di riconfigurazione che confligge con l’ordine istituzionalizzato ma ormai cristallizzato, irrigidito. Una posizione che giudica le istanze dello strato “basso” della popolazione solo negativamente. Sarebbero – come si dice per riesumare un adagio – il parlar alla/della pancia delle logiche particolari o ‘eterogenee/differenziali’ (logiche differenziali); quelle non integrabili ed omogeneizzabili nella/dalla logica delle ‘equivalenze’ politiche per costruire l’identità del popolo.

Quando si è – scrive Ernesto Laclau – «al cospetto di una società fortemente istituzionalizzata, le logiche equivalenziali dispongono di minor terreno su cui operare. E la conseguenza è che la retorica populista diventa un tipo di merce sprovvisto di qualsiasi profondità egemonica. In questo caso il populismo diventa allora quasi sinonimo di gretta demagogia»2. E qui la rappresentazione non discrimina. Diventa solo una parola d’ordine stereotipata, la ricerca e l’espressione del potere di un facile ascolto per criminalizzare i bisogni avanzati dalla parte degli esclusi, o di ricerca di consenso fra chi in atto egemonizza (dentro o fuori) il governo e l’amministrazione di una comunità politica, mentre osteggia il diverso.

Concretamente, la configurazione di una simile situazione di negatività e ridicolizzazione populistica è possibile visualizzarla – crediamo – nella foto delle “astuzie” capitalistiche che negli anni Trenta del Novecento ne ha dato Bertolt Brecht:

«basso e volgare ciò che è utile a quelli che sono tenuti in basso. Si giudica bassa e volgare la continua ansia di riuscire a saziarsi; il disprezzo per gli onori che vengono fatti balenare davanti agli occhi di colui che dovrebbe difendere il paese in cui soffre la fame; i dubbi nei riguardi di un condottiero che conduce alla rovina; l’avversione per il lavoro che non nutre chi lo compie; il ribellarsi quando viene imposta una condotta insensata; il disinteresse per la famiglia cui l’interesse non servirebbe più a nulla. Quelli che hanno fame vengono insultati per la loro ingordigia, quelli che non hanno niente da difendere per la loro co­dardia, quelli che dubitano del loro oppressore per i loro dubbi sulla propria forza, quelli che vogliono farsi pagare il lavoro che fanno per la loro pigrizia, ecc. […] Non si insegna più a pen­sare e il pensiero viene perseguitato ovunque si manifesti. Ciò nono­stante ci sono sempre dei campi in cui è possibile additare senza pericoli i successi del pensiero; sono quei campi in cui le dittature hanno biso­gno di esso. Per esempio è possibile mostrare i successi del pensiero nel campo della scienza militare e della tecnica. Anche per rimediare, grazie all’organizzazione e all’invenzione di surrogati, all’insufficienza delle riserve di lana è necessario il pensiero. Il peggioramento dei generi alimentari, l’addestramento dei giovani per la guerra, sono tutte cose che richiedono l’uso del pensiero: e questa è una cosa che è possibile descrivere. Si può invece astutamente evitare l’elogio della guerra, dello sconsiderato scopo di tanto sforzo cerebrale; così il ragionamento deri­vante dalla domanda «Qual è il miglior modo di condurre una guerra?» può portare a domandarsi «Ha un senso questa guerra?» e si può appli­care alla domanda «Qual è il modo migliore per evitare una guerra in­sensata?»3.

Altre volte indica qualcosa di indeterminato o vago (privo cioè di postulati, di nomi fondanti, e nomi di problemi concreti e seri), oppure una semplice allarmismo antisistema, sebbene certe puntualizzazioni – come avanti (la riflessione di Bertolt Brecht) – mostrano come nella popolazione l’individuazione dei problemi seri non manca. Una segnalazione che impedisce la riduzione semplicistica del populismo a discorso vago, o demagogico, o retorico, o allarmistico o a una partita di ping pong (in Italia o in Europa tanti e noti sono poi i movimenti/partiti che giocano a ping pong col populismo, che ne tralasciamo i nomi; non dirli non è poi è un gran danno!). Altrimenti detto, semplificando al massimo, è la messa in moto di un meccanismo di potere che, servendosi delle astrazioni dei nomi come concetti generali o de-corporeizzati (in funzione dell’esercizio del potere cristallizzato), giudica bassi, volgari e lazzaroni comportamenti e atteggiamenti rivendicanti legittime soddisfazioni e aperture democratico-popolari rivoluzionarie, e non meno la ri-presa di un ri-lancio per la pratica di un ‘comunismo’ di nuova generazione. È demagogico e retorico semmai bypassare le astrazioni e i nomi generali del logos del capitalismo sostanzializzato, quello cioè che definisce essenze universali le parole della “valorizzazione” e dell’“autovalorizzazione”, lì dove, invece, l’unica e sola verità vera è quella delle molte determinazioni individuali e sociali concrete dei bisogni e dei desideri differenziali delle parti antagoniste. I desideri cioè che, energie eterogenee, si ripetono come il “plus-gioire” del godimento ripetitivo (il godimento come plus-valore individuato da Jacques Lacan).

(Continua…)


NOTE

1 Evgenij Morozov , Per un socialismo digitale , in «MicrOmega», n.7/2020, p.158.

2 Ernesto Laclau, La ragione populista (a cura di Davide Tarizzo), Laterza, Bari 2008, p. 182.

3Bertolt Brecht, Arte e politica (1934-35)- Cinque difficoltà per chi scrive la verità (Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino, 1973, pp. 118 e ss.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.