La donna mancina di Peter Handke. “La scelta di Marianne è la rinuncia all’amore” di PAOLA SORGE

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[Il libro è un piccolo gioiello narrativo. Ve lo consiglio caldamente. Lo stile è semplice e poetico allo stesso tempo. Narrazione essenziale, costruita su dettagli minimi. Di seguito la recensione di Paola Sorge, italianista e germanista, collabora alle pagine culturali del quotidiano la Repubblica. f.s.

La scelta di Marianne è la rinuncia all’amore

di PAOLA SORGE

 

 
“Nel paese dell’ideale: io da un uomo mi aspetto che mi ami per ciò che sono e per ciò che diventerò.” E poi, facendo scorrere il foglio nella macchina da scrivere, Marianne continua a tradurre dal testo originale scritto in francese: “Finora gli uomini mi hanno tutti resa più debole. Mio marito diceva di me: ‘Michèle è forte’. In realtà vuole che io sia forte per ciò che non interessa a lui: per i figli, per la casa, per le tasse. Ma in quello che a me balena come possibile lavoro, in quello mi distrugge. Dice: ‘Mia moglie è una sognatrice’. Se si chiama sognare voler essere ciò che si è, allora voglio essere una sognatrice.” Quelle appena riportate, le affermazioni che lo scrittore e drammaturgo Peter Handke fa pronunciare ad un personaggio esterno al racconto, una donna che evidentemente ha preservato una minima quota di forza psichica e di consapevolezza di se stessa, superiori a ciò di cui, nel corso della narrazione, proprio Marianne si rivelerà del tutto sprovvista.

A ben guardare, infatti, La donna mancina è un titolo suscettibile di varie interpretazioni che aiutano a capire meglio il decorso del racconto. Il primo significato potrebbe alludere al mancinismo vero e proprio, il quale renderebbe così Marianne una donna in possesso di una caratteristica rara (forse tanto quanto lei stessa veramente è come persona). Poi, l’aggettivo “mancino” potrebbe significare che, per qualche motivo, alla donna in questione è stato impedito di usare la parte destra del corpo – a causa di un’amputazione psicologica o di un divieto -, così come avrebbe invece desiderato. La terza interpretazione potrebbe riferirsi al fatto che Marianne, anche se vittima di un impedimento, non vuole usare il lato destro del corpo (dalle neuroscienze sappiamo che l’emisfero destro del cervello presiede alle funzioni emotive e creative), e preferisce vivere una condizione di handicap piuttosto che riappropriarsi di ciò che le spetta di diritto. Tutta questa premessa cerca di spiegare come mai la lettura di un romanzo di neanche 100 pagine, possa diventare un’attività complessa – e non perché l’opera sia fallimentare o di scarsa qualità – ma per una deliberata intenzione dell’autore. Fin quasi dalle prime pagine, difatti, si ha l’impressione di immergersi in un luogo dove l’acqua non scorra e la temperatura sia gelida, preannunciando una lettura poco gradevole e ostica, nonostante la speranza che arrivino zone di calore. Molti tra i dialoghi presenti nel romanzo non impressionerebbero né malati di mente né ubriachi, e in questo aspetto Peter Handke deve aver subito l’influenza del teatro di Samuel Beckett e di Eugène Ionesco. Ma, sopratutto, quella di Albert Camus de Lo straniero, dove, il gelo e l’assurdo, si dipanavano durante il racconto della morte della madre. Qui ne La donna mancina, invece, la madre è una morta in vita: una specie di zombie brancolante tra le pagine del libro, che nessuna fonte di calore – anche in caso sia calore autentico – riuscirà a resuscitare. E l’unica blanda espressione di volontà che Marianne manifesta nell’intero romanzo è la decisione di allontanare il marito dalla loro casa, ma ne vedremo in seguito i risvolti. Il punto di osservazione, come in Camus, potrebbe essere quello di un figlio che assista ad una madre vicina ma allo stesso tempo lontanissima. Andando a leggere la biografia di Handke, scopriamo, infatti, che, da giovane, l’autore ha avuto una madre sofferente di depressione e poi suicida; alla quale, nel 1972 (quattro anni prima della pubblicazione de La donna mancina) ha dedicato un libro dal titolo molto eloquente: Infelicità senza desideri, forse la peggiore delle infelicità possibili, perché una parte decisiva di quel malessere risiede in sé e nell’incapacità di sognare e di cercare ciò che regala piacere, a prescindere dalle condizioni esterne. Ma, riprendendo l’influenza di Camus su Handke, l’autore francese torna ancora – e questa volta con L’uomo in rivolta – quando si leggono le parole di Marianne: “Nel libro che sto traducendo c’è una citazione di Baudelaire: che l’unica azione politica che lui capisce è la rivolta. Di colpo allora ho pensato: l’unica azione politica che capisco io è l’esplosione di furia sanguinaria.” La donna mancina è totalmente annichilita e, non avendo sviluppato nessuno strumento di rivolta o disubbidienza civile, né tanto meno di elaborazione dei suoi possibili desideri, scorge il cambiamento solo in un’azione improvvisa e del tutto distruttiva – forse anche contro se stessa -, trattenendo la negatività su di sé senza fare niente per rispedirla al mittente. Ma i semi di questo atteggiamento da dove potrebbero provenire? Per capirlo è necessario ricorrere alla figura del padre di Marianne e anche a quella di Bruno, il marito. Leggendo il libro sappiamo che il padre è un uomo pronto a stroncare qualsiasi slancio e segno di vitalità in Marianne e che, tra l’altro, è pure una persona “imbranata e impacciata”, come il tipo d’uomo che a lei piace avere vicino. Per quanto riguarda il marito, ad un certo punto Bruno impartisce una lezione di impotenza e indegnità al proprio figlio Stefano, spiegando quale sia il segreto del proprio successo nel ruolo di direttore d’azienda. Quello che dice rivela la chiave del “mancinismo” di cui soffre Marianne: “Stefano, adesso ti mostrerò come faccio paura alle persone che vengono da me in ufficio. (…) Prima di tutto costringo la mia vittima con la sua sedia entro uno spazio molto ridotto, dove si sente impotente. Poi le parlo molto vicino, quasi sulla faccia. E se è una persona anziana (…) allora parlo ancora più piano, in modo che creda di essere già sorda. (…) Bisogna riuscire a crearsi un’aura di mistero; e la cosa più importante allo scopo è una faccia che metta soggezione.” Bruno racconta quello che nel linguaggio contemporaneo si chiama mobbing e, non essendo Dottor Jekyll e Mister Hyde, applica tale metodo indistintamente sia sul luogo di lavoro che a casa, riducendo la moglie all’impotenza. Volendo, inoltre, occorrerebbe pensare anche alla figura della madre di Marianne, assente nel romanzo ma che – proprio per la sua latitanza – non sembra essere mai intervenuta in favore della figlia per opporsi a quell’amputazione operata dal padre. La “donna mancina” ha delle caratteristiche specifiche: le aspirazioni da traduttrice dal francese; la luce che spesso le riempie gli occhi senza motivo; l’esuberanza soffocata che forse ogni tanto emerge; un fascino che provoca il desiderio di uomini sconosciuti incontrati per caso in strada. Ecco gli aspetti della vita di Marianne che il marito annienta con prontezza perché li percepisce come una minaccia. E’ probabile pure che Bruno sia convinto di offrirle il meglio possibile e – visto che è ottuso – non si renda conto di negare i desideri profondi della moglie. Un giorno infatti le dice parole molto belle: “Stasera per me è come se si dovesse adempiere tutto quel che ho desiderato. Come se per prodigio potessi trasferirmi da un luogo di felicità all’altro; senza spazi intermedi. Sento una forza magica, Marianne. E ho bisogno di te. E sono felice. Tutto in me freme, così, per la felicità”. Affermazioni molto appaganti in un contesto da amanti, ma disinteressate alla vita concreta e interiore della persona verso cui sono rivolte. Durante quel breve monologo, Marianne si trova con il marito in un albergo in cui trascorrere una notte d’amore, che lei però rifiuta perchè non vuole passare momenti di intimità con un uomo che, come un parassita, si nutre a proprio piacimento della magia e della forza che lei emana; e inoltre non la stima e non le permette di essere se stessa: la presenza di una donna realizzata e dispiegata in tutta la sua personalità, avrebbe fatto percepire a Bruno ogni sfumatura della propria impotenza. Il passo successivo, l’unica flebile forma di rivolta civile da parte della donna, consiste quindi nel chiedere a Bruno di lasciare la loro abitazione, poiché vuole rimanere sola. In un passaggio particolarmente enfatico lui sfoga la propria rabbia per essere stato allontanato e cerca al contempo di indicarle una via di libertà: “Sei sempre ragionevole tu! Voi donne con la vostra ragionevolezza pidocchiosa! Con la vostra brutale comprensione per tutto e per ognuno! (…) Sai perché non diventate mai nessuno? Perché non vi ubriacate mai da sole. (…) Tu e la tua nuova vita! Non ho ancora visto una donna che abbia cambiato durevolmente la sua vita. Nient’altro che scappatelle e poi di nuovo la vecchia musica. Sai cosa? Quello che tu stai facendo ora, più tardi sarà come sfogliare ritagli ingialliti di giornali, sarà l’unico evento della tua vita!” Ma il problema fondamentale è forse quello che, “ubriacandosi” – anche in modo non alcolico -, Marianne avrebbe espresso aspetti “irragionevoli” di sé, altamente indigesti e destabilizzanti agli occhi del marito. Però avrebbe potuto farlo almeno per se stessa. In questo senso la donna è un po’ complice di quel che le accade: ha vissuto una probabile amputazione metaforica dal padre, che le ha impedito di maturare un adeguato senso di sé e un egoismo sano; ma poi, per effetto di un radar negativo e teso all’autodistruttività, ha cercato un marito capace di andare molto oltre, rendendola non abile a vivere la vita che, in qualche vago momento di lucidità, ha blandamente desiderato. In quella casa vuota, davanti alla macchina da scrivere e con Stefano alle prese con i compiti, Marianne tenta di riappropriarsi di se stessa. La vita, oltretutto, le invia anche un uomo. Si tratta di un aspirante attore che, con un grande slancio, coglie il calore occultato nella donna sotto lo strato di gelo e, portando il romanzo al climax, le dice: “NOI ci redimeremo a vicenda. Vorrei circondarla da ogni parte, sentirla dappertutto, percepire nella mano il calore che viene da lei ancor prima di averla toccata! Non mi derida. Oh, come la desidero. Essere con lei, subito, adesso, forte forte, per sempre!” Ma, né gli assalti embrionali della volontà, né la prospettiva di un uomo che le stia accanto diversamente dal marito, strapperanno Marianne dalla propria impossibilità di amare e vivere.

(“La Repubblica” 30 settembre 2003)

[Peter Handke, La donna mancina, Garzanti, 1999, trad. Anna Maria Carpi, 99 p.,€ 6,20]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.