IL TERZO SGUARDO n.22: Una proposta per il Paese futuro. Alberto Alinovi, “Il Codice Borgia della società italiana”

Una proposta per il Paese futuro. Alberto Alinovi, Il Codice Borgia della società italiana. Antologia di pensieri e scritti per un’Italia più europea: dal familismo amorale al civismo morale attraverso il protestantesimo laico, Parma, Silva Editore, 2010

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di Giuseppe Panella*


Nonostante il titolo che potrebbe risultare opprimente per le sue richieste di assunzione di responsabilità da parte dei cittadini (atto doveroso ma non sempre accettato volentieri e immediatamente), nonostante l’appello a una dimensione – quella della Riforma protestante – che in Italia non ha mai attecchito, nonostante l’ambito sempre vigente della dimensione familistica (“tengo famiglia”), nonostante vizi antichi sempre risorgenti e mali vecchi mai curati, questo di Alinovi è un libro di speranze mai sopite e mai azzerate dal corso di una storia che sembrerebbe smentirle.

E’ anche un libro divertito e divertente – arricchito da vignette spesso ben disegnate e da un filo di sorriso che l’argomento ben grave sembrerebbe voler smentire. Alinovi è un medico dermatologo oggi in pensione – nato a Parma nel 1944, formatosi in America con il professor Albert Bernard Ackerman di New York (che ha firmato, in limine mortis, una bella prefazione al suo volume), già professore associato della sua disciplina a Parma, non è uno scrittore di professione. Non è neppure un esperto di storia contemporanea, anche se le sue pagine allineano un cospicuo numero di letture fatte sul tema della corruzione politica in Italia e del sistema di tipo mafioso su cui si sorregge l’amministrazione nel Belpaese. Si tratta per la maggior parte di libri scritti con taglio giornalistico redatti in questi ultimi anni (le opere dei vari Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Peter Gomez, Marco Travaglio, Gian Antonio Stella ecc.) ma non mancano competenze letterarie più “classiche” (dal padre Dante a padre Manzoni come stelle tutelari di riferimento). Il tema del “familismo amorale” che costituisce il tema principale del volume non è certo nuovo. Il termine lo si deve al sociologo americano Edward C. Banfield e è stato poi ripreso da molti studiosi di antropologia culturale anche italiani come Luigi Lombardi Satriani. O da storici dell’età contemporanea come Paul Ginsborg. E’ un tema antico come l’Italia, probabilmente e non è un caso che Alinovi si rifaccia figure storiche assai malfamate nella coscienza popolare come quella di Papa Alessandro VI Borgia  e dei suoi figli più celebri (Cesare Borgia detto il duca Valentino e Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, i cui costumi piuttosto liberi e la relazione amorosa con Pietro Bembo e con molti altri  hanno più volte fatto stridere i torchi per le ricerche d’archivio e i romanzi storici di cui sono stati l’oggetto). In una vignetta da lui disegnata e che compare pure sulla copertina del suo libro, Alinovi immagina di vedere Leonardo da Vinci bocciato in un pubblico concorso i cui vincitori risultano i membri della famiglia Borgia. Perplesso, il papa lo consola con un ipocrita “Riprova, sarai più fortunato la prossima volta” (quella scritta un po’ fastidiosa che suona beffarda e che compare di solito quando il risultato di un concorso a premi e di un “gratta e vinci” risulta negativo). Chissà quante volte a Leonardo deve essere capitato di essere accantonato per una commissione artistica e architettonica per un’opera pubblica o privata, scavalcato da artisti assai più modesti di lui! Il “familismo amorale”, dunque, è stato il modello critico di riferimento per indagare gli eventi più significativi nella vita pubblica di un paese dell’Italia meridionale nella ricostruzione di Edward Banfield. Nel suo libro certamente più noto, il luogo è indicato come Montegrano (anche se in realtà pare si tratti di Chiaromonte della provincia di Potenza in Basilicata). Banfield aveva una moglie italiana, Laura Fasano (traduttrice di Machiavelli tra le altre sue attività) alla quale deve la conoscenza del luogo e della lingua parlata in esso nonché del funzionamento dei moventi culturali e dei meccanismi socio-economici e politici che la sorreggevano. La cultura della cittadina analizzata in Basi morali di una società arretrata del 1958, la principale opera sociolologica di Banfield, presenta ed evidenzia una concezione fortemente estremizzata dei legami familiari diretti che danneggiano la capacità di associarsi dei cittadini presenti nel luogo studiato e dell’interesse collettivo dello stesso (la capacità di associarsi è la virtù principale dell’ homo civicus secondo Alexis de Tocqueville in La democrazia in America del 1835-1840 ripreso in questa direzione dal Robert  D. Putnam di La tradizione civica nelle regioni italiane del 1993, un libro più famoso per il suo titolo ad effetto che per essere stato letto effettivamente nei suoi contenuti). Gli individui analizzati da Banfield sembrerebbero agire nella direzione di una “massimizzazione” dei vantaggi materiali a breve termine della propria famiglia intesa come nucleo allargato nella presunzione che ogni altro conglomerato familiare faccia lo stesso. Questa sorta di ethos ristretto all’ambito dei propri congiunti sarebbe la causa dell’arretratezza dell’Italia meridionale e, mutatis mutandis, del Sud del mondo rispetto alle società che sono state trasformate dall’”etica della responsabilità” di matrice protestante, giusta l’insegnamento di Max Weber nel suo celebre saggio sullo spirito del capitalismo. L’autore ha denominato questo atteggiamento “familismo amorale”. Il termine “familismo” deriva dal fatto che ogni individuo ricerca soltanto l’interesse della propria famiglia di appartenenza (e degli affini ad essa aggregatasi per via dei matrimoni successivi a quello fondativo della struttura originaria considerata come una sorta di clan) e mai quello della comunità più vasta di appartenenza non riconducibile ai consanguinei diretti. Tale “familismo” è “a-morale” perché, seguendo questa regola di comportamento, le categorie di bene e di male, di privato e di pubblico, di merito e di mancanza di competenza sono applicate solo all’interno e a beneficio del nucleo familiare escludendo dalla possibilità di coinvolgimento del sistema di gestione dei beni pubblici chi della famiglia non fa parte. Tale mancanza di moralità rende intoccabili i membri della tribù o del clan i cui comportamenti interni non sono sottoponibili ad alcuna sanzione. Ciò comporta, ovviamente, la negazione di ogni ethos di tipo comunitario e la morte di ogni relazione sociale tra le famiglie e tra gli individui all’esterno della famiglia che vengono visti come nemici dai quali tutelare i vantaggi o la sopravvivenza del proprio gruppo tribale di riferimento. In sostanza, nulla salus extra familiam e nessuno spazio al talento o merito altrui. Tale atteggiamento inoltre comporta la negazione di ogni possibilità di trasformazione o mutamento sociale profondo perché esso metterebbe in discussione il potere già consolidato della famiglia di provenienza. Alinovi individua in questo atteggiamento di tipo “familistico” l’origine di gran parte dei mali del Paese Italia e la tendenza della sua classe dirigente a consolidarsi in gruppi di potere, in lobby economico-finanziario-politiche, in mafie di carattere professionale e locale, in una parola in una casta (giusta un’espressione fortunata di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo divenuta recententemente di moda quale titolo di una loro inchiesta giornalistica per l’editore Rizzoli). Da queste premesse e sulla loro base acquisita, Alinovi deduce che bisogna trasformare radicalmente l’atteggiamento dei cittadini italiani ormai oppressi e tartassati dai membri di una casta divenuta ormai parassitaria e patologica e liberarsi dalle forme di dominazione psicologica che hanno, per la maggior parte, contribuito a crearla e a consolidarla. Una di esse è l’idea auto-indulgente del “perdono” come forma di rapporto tra colpa e punizione dovuta a secoli di dominazione ideologica di derivazione cattolica (e inesistente nei paesi a impronta luterana); l’altra è la superiorità tutta italica del principio “materno” che giustifica tutto e tutti sulla base di un rapporto di tipo biologico legato alla comunanza biologica iniziale tra figlio/a e madre. La madre, infatti, sembrerebbe voler “perdonare” tutto e accettare ogni infrazione alla Norma che è, invece, alla base del principio paterno della Legge (come ben spiegano le pagine scritte al riguardo sia da Kelsen che da Lacan e originate da una comune riflessione su Totem e tabù di Sigmund Freud). Il predominio del “materno”, dunque, come negazione del principio della responsabilità e la nozione di “perdono” come soluzione dei conflitti interpersonali avrebbero impedito alla società italiana la nascita di un coerente “civismo morale” basato su un “protestantesimo laico” (il primo a lanciare quest’ultimo e a farsene promotore fu Piero Gobetti nel corso della sua troppo breve vita). Recuperare il principio della legalità come fondamento delle relazioni di cittadinanza e di obbligo giuridico che si può peraltro ritrovare ancora integro nelle leggi fondamentali della Costituzione e della meritocrazia fin troppo conculcata nei luoghi dove dovrebbe, invece, trionfare (come la scuola, l’Università e i luoghi di lavoro dove sono all’opera quelle che una volta si chiamavano professioni liberali – l’esercizio della medicina, ad es., o l’avvocatura) sono gli obiettivi che Alinovi propone ai suoi lettori più avvertiti. Il suo libro, dunque, si muove drammaticamente su una linea di trasformazione e di ri-forma dei costumi nazionali (per usare il termine caro al Leopardi autore di un Discorso rimasto a lungo inedito) di cui l’Italia ha fin troppo bisogno. Che essa sia auspicabile è sicuro, che sia poi anche possibile è altra cosa. Ma per Alinovi (come per tutti gli uomini di buona volontà) vale sempre il motto kantiano: “Fai quel che devi, accada quel che può”. Il mondo si può cambiare soltanto con i fatti, mai non con le parole anche se fondate e originate dalle migliori intenzioni. Quella di Alinovi, infatti, vuole essere una terapia, non un’esortazione o una predica.

 

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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.