I LIBRI DEGLI ALTRI n.70: Il “gioco a nascondere” di Francesco De Napoli. Francesco De Napoli, “Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia” ; Francesco De Napoli, “Welfare all’italiana. Epigrammi”

Francesco De Napoli, Carte da giocoFrancesco De Napoli, Welfare all’italiana. EpigrammiIl “gioco a nascondere” di Francesco De Napoli. Francesco De Napoli, Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia, Venosa (Potenza), Osanna Edizioni, 2011 ; Francesco De Napoli, Welfare all’italiana. Epigrammi, Cassino (Frosinone), Mondostudio Edizioni, 2011

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di Giuseppe Panella

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Sono queste le due facce di Francesco De Napoli: da un lato l’epigrammista che sferza e satireggia una società profondamente malata come quella italiana, dall’altro il poeta che si accinge a rievocare la sua infanzia con nostalgia struggente e tenero ricordo del passato.

Del primo scrive bene il bravo prefatore Domenico Cara:

«Francesco De Napoli sceglie intanto, per il sicuro coinvolgimento, l’allusione come categoria del suo pensiero, finge – tra le varianti programmate – il divertimento, ma è azione che giunge dall’ombra di una vita da scriba (senza poteri né perversa vendetta), scrupolosa, sincera, necessaria, come un dovere di vita privata e collettiva nel contingente. Trovo formidabili le sue sapienti sferzate rifilate – e intagliate – adottando un metro misuratamente elastico, vedi la bruciante chiusura “Spaghetti welfare” dell’epigramma che dà il titolo alla raccolta, uno sberleffo pregno di virulenza ineccepibile che restituisce alla loro reale dimensione umana certe esaltazioni deviate del mondo della celluloide (“spaghetti western”), scadute a esagitati fenomeni di in/costume. L’obiettivo primario è spingere la sperimentazione linguistica – non un semplice “gioco di parole”–, condotta direttamente sul parlato, oltre ogni riduttiva e alienata significazione, facendone deflagrare le becere contraddizioni interne con un’im/ mediata capacità di trascrizione»[1].

Si ride, certo, leggendo questi epigrammi di De Napoli, ma si ride amaro visto che i suoi testi brevi e brucianti si chiudono sempre con una punta o una coda (sovente abbastanza prolungata non nello spazio ma nel tempo) di veleno per l’argomento trattato.

Certo sull’Italia odierna c’è molto poco da ridere ma talvolta non resta molto altro da fare che trafiggere, con la lingua tagliente della comicità, vizi e malcostume di un paese in declino.

«WELFARE ALL’ITALIANA. Al Nord / dalla culla / alla bara. // Al Sud / dal bar alla barra. // Spaghetti welfare»[2].

Tutti i difetti del Sud (ma neppure il Nord è, per questo motivo, risparmiato) passano attraverso la penna di questo Giovenale di Cassino che non risparmia niente e nessuno dell’Itaglia contemporaneamente (e Itaglia – si sa – fa rima con canaglia).

Così nel breve testo ironico di De Napoli:

«I / TAGLIA. Un rito antico / che si rinnova / e sempre più s’affina. / Pettegolezzo, / archetipo autentico / del nazional popolar / sollazzo»[3].

E’ il male del tagliare i panni addosso agli altri (senza, ovviamente, fermarsi ad annotare i propri difetti forse maggiori) che il novello Giusti mette alla berlina (ma lo aveva fatto già Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei discorsi degli Italiani) con un’asprezza che non risparmia più nessuno: dalle divette dei reality e degli talk show televisivi, ai politici che si parlano addosso, promettendo mari e monti ai loro elettori senza poi concludere nulla, dai prezzi altissimi dei locali pubblici veneziani mai calmierati dal filosofo Cacciari a Baudo che diventa, trasformato in un personaggio di Umberto Eco, un Baudolino[4], dalla calciopoli di Moggi & compari vari delle diverse grandi squadre presenti nel campionato italiano alla sfruttamento intensivo non certo solo sessuale ma soprattutto pubblicitario del corpo femminile, diventato un feticcio anche per i non-feticisti.

Ma la vena di umor nero di De Napoli spesso poi si scioglie in riflessioni più accorate che amare, scritte con uno stile limpido e fiero della sua chiarezza:

«RI / SCONTRI GEOGRAFICI. L’Occidente finora / è vissuto al di sopra / delle sue possibilità. // L’oriente finora / è vissuto al di sotto / delle sue possibilità. // Il Medio Oriente / metà e metà. //Riscontri: forse scontri / di civiltà»[5].

Il mondo occidentale, dunque, va verso il collasso totale e quello orientale tenterà di impadronirsene come fecero i barbari alla conclusione delle vicende dell’Impero romano : dalle sue ceneri nacque un’altra e rinnovata civiltà, dopo enormi e feroci  urti e distruzioni certo, ma anche in nome di un nuovo modello (quello cristiano) di vita.

E’ forse questo il destino del nostro ormai più che modesto “Welfare all’italiana” ?

Molto più lirico e compatto nella logica dell’evocazione poetica è il coevo Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia. Ripetizione immaginale delle vicende dell’infanzia, il suo tono e il suo taglio di scrittura è certamente assai più disteso rispetto alla dura concisione dell’epigramma mortale dell’altro volumetto. Là dove predominava un’amara risata di scherno, qui ci si attesta sui bastioni del ricordo e del sogno, della rammemorazione filiale e della descrizione scabra e senza inciampi:

« I. E’ un posto che non riconosco / non cerco non so / né dentro né fuori di me / eppure c’è: / sogno vivo d’assopite visioni / che Sud non è. / Queruli sospettosi m’incalzavano / decisi paesani / tra api a sciami e limoni: / “Dicci del tuo paese”. / – Il mio paese ? / I vecchi restavo a guardare / bestemmiare nelle side / a scopone, quei simboli / sfuggenti, a tratti / splendenti, fumosi / su carte da gioco / agitarsi tra i fiaschi / a spintoni. / Tu che scrivi: / “Il Sud”, / sbagli. T’ingannò / il lungo errare. / Pure, s’intreccia / l’abile impastare / viscidi labili indizi / di cartacei semi / col fiero scintillio di versi / tra inestirpabili / primordiali vizi»[6].

E’ una ricerca di identità, una quest del desiderio quella di De Napoli che si prova a ritrovarsi attraverso la ricostruzione di un passato remoto che appare labile e incerto, fatto di in-certezze e di indizi sfuggenti e senza una dimensione precisa. Se non è il Sud la sua patria che cosa lo è, allora?

Probabilmente lo è la poesia, come lui stesso ammette, e la sua genealogia interiore:

«Sinisgalli Fallacara Scotellaro / così incombenti / così assenti. / Mi posseggono ora / m’ossessiona il ghigno / pensoso del calcolo, / la distanza penosa del vero»[7].

La poesia si dispone (come le carte) sul tavolo da gioco della vita e le sue combinazioni possono essere sempre infinite, predisposte da un cartaio metafisico che le mescola e le confonde fino alla fine, senza dare indicazioni di percorso che non siano quelle già note dell’inizio ma senza prefigurarne la conclusione. Come scrive Giorgio Barberi Squarotti nella sua Testimonianza alla fine del libro, anche De Napoli ha bisogno di un punto di riferimento per poter ricordare:

«Il recupero del passato ha bisogno sempre di un interlocutore per meglio ravvivare e riattualizzare la memoria. C’è come un’incredibilità nel raccontare personaggi e luoghi e avvenimenti, quasi che fosse enormemente difficile parlarne, spiegarli, confermarne la concretezza e la realtà, visto che il tempo è irrimediabilmente trascorso, eppure per andare avanti è necessario non perdere nulla di quello che è prima accaduto»[8].

E’ quello che De Napoli si prova a fare: tornare al passato significa per lui attualizzarne i fondamenti su cui è stato costruito attraverso lo scandirsi necessario e lo scorrere impietoso e felice del tempo delle generazioni trascorse.

Come ha scritto Massimo Grillandi nella sua Nota critica al testo di De Napoli:

«Le radici del poeta formano quindi la ragione prima della sua ispirazione e muovono accortamente, ma anche in modo appassionato, le acque di una nostalgia, che non riesce a farsi rimpianto, ma resta sempre sottesa alla necessità di instaurare, con se stesso e con gli altri, un colloquio che abbia un significato inteso a trascendere il privato e a farsi discorso universale e universalmente accettabile»[9].

E’ proprio questa la funzione della lingua poetica per il poeta cassinese: rendere comune a tutti il suo mondo interiore senza ridurlo a lingua ermetica o a gioco dei significanti. Da qui l’assoluta semplicità del dettato che non è povertà del segno ma estremo passo verso la comunicazione del Sé nei confronti degli altri e del loro vissuto, reso così confrontabile con il proprio.

Per concludere con le parole di Mario Santoro, eccellente introduttore all’opera di De Napoli:

«La rievocazione si affida a un linguaggio poetico che sa mantenersi chiaro, lineare, ai limiti del denotativo anche quando evidenzia connotazioni multiple. Si affida quasi ad un conversativo-meditativo nello sforzo di tenere a bada le tensione emotiva e sulla linea di una consapevole umiltà, in un discorso che tende all’orizzontalità, ossia al riflessivo, quasi un parlare poetico che potrebbe richiamare, per certi aspetti, a Cesare Pavese»[10].

Versi posti sotto il segno di Pavese, dunque, ma anche di quella tradizione poetica meridionale alla quale, se non erro, De Napoli fieramente appartiene e i cui ideali ancora persegue con decisione e tensione morale da molti anni.

 


[1] D. CARA, I turbamenti del gioco sociale, Prefazione a Francesco De Napoli, Welfare all’italiana. Epigrammi, Cassino (Frosinone), Mondostudio Edizioni, 2011, p. 4.

[2] F. DE NAPOLI, Welfare all’italiana. Epigrammi,  cit., p. 21.

[3] F. DE NAPOLI, Welfare all’italiana. Epigrammi,  cit., p. 45.

[4] Baudolino è il titolo del quarto romanzo storico, ambientato all’epoca di Federico Barbarossa, di Umberto Eco (Milano, Bompiani, 2000).

[5] F. DE NAPOLI, Welfare all’italiana. Epigrammi  cit., p. 93.

[6] F. DE NAPOLI, Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia, Venosa (Potenza), Osanna Edizioni, 2011, pp. 50-51.

[7] F. DE NAPOLI, Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia cit. , p. 55.

[8] G. BARBERI SQUAROTTI, Testimonianza, in F. DE NAPOLI, Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia cit. , pè

. 68.

[9] M. GRILLANDI, Nota critica, in F. DE NAPOLI, Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia cit. , p. 66.

[10] M. SANTORO, Il percorso poetico-letterario di Francesco De Napoli, Prefazione a  F. DE NAPOLI, Carte da gioco. Trilogia dell’infanzia cit. , p. 7.

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.