I LIBRI DEGLI ALTRI n.14: Infanzia e ricordo. Leonora Sartori, “La forma incerta dei sogni”

Infanzia e ricordo. Leonora Sartori, La forma incerta dei sogni, Milano, Edizioni Piemme, 2010

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di Giuseppe Panella*

 

I ricordi hanno sempre una forma – quelli di Leonora detta Leo in famiglia sono presenti alla sua mente sotto forma di adesivi che sintetizzano in un’immagine vicende storiche di lotte civili, di battaglie morali vinte con la forza della volontà e della solidarietà, di momenti entusiasmanti poi trasformatisi in cocenti delusioni.

L’adesivo che fa scattare la molla dei ricordi di Leo riguarda la vicenda dei “sei di Sharpeville”, una cittadina del Sudafrica in cui nel corso di tumulti per l’ingiustificato aumento del prezzo degli affitti il consigliere comunale nero Dlimini fu ucciso nel 1984 da una persona rimasta non identificata e di cui furono accusati sei partecipanti innocenti alla manifestazione.

La storia della lotta contro l’apartheid in Sudafrica si fonde con i suoi ricordi d’infanzia e le vicende della sua famiglia “alternativa” in cui il babbo e la madre cercavano di evitare in ogni modo l’adesione ai modelli tradizionali borghesi e continuavano a investire le loro migliori energie in lotte politiche destinate, nella maggior parte dei casi, a una sconfitta e a una delusione perenni:

 

«Fare la lotta era un rituale. Mi sentivo come il guerriero di una tribù, scalciavo e fendevo l’aria con i pugni mentre lui faceva versi di battaglia. Quando giocavamo, ci spostavamo in salotto, una stanza spoglia, in cui c’erano solo il pianoforte di mia mamma e un tappeto grigio. A mio papà non piacevano i mobili. Amava le stanze sgombre e spaziose: in quella sala, infatti, si sarebbe potuta fare una gara in bicicletta. “Elena, cos’altro hai preso? Cos’è questa abitudine di comprare cose che non servono?“ diceva mio papà guardando l’armadio nuovo. Poi aggiungeva: “Dovevo vivere nei boschi, io!”. E si metteva a fare la scimmia in giro per casa. Io prima ridevo, poi, se non smetteva, prendevo paura. Mio papà amava le canzoni con dentro la parola rivoluzione e diceva sempre che la gente era tendenzialmente stupida e omologata. Tutti, tranne lui e noi, che eravamo i suoi estimatissimi figli. Anche su mia mamma aveva qualche dubbio delle volte» (pp. 5-6).

 

Anche la protesta a favore dell’innocenza dei “sei di Sharpeville” diventa con il passare del tempo una forma di recupero della memoria dell’infanzia e dei tempi in cui tutto le appariva come un gioco tremendamente serio. Leo si immerge nel passato e da esso recupera una sorta di viaggio nel tempo che ha il sapore della verità rivissuta e ritrovata, della felicità provata allora:

 

«Ma il Sudafrica mi parve senza identità, talmente inutile da chiamarsi solo “parte finale di un continente”. Come se io, anziché abitare in Italia, avessi vissuto in un paese chiamato genericamente Sud Europa. In ogni modo quel paese non m’ispirava fiducia: gente che si ammazzava, uomini in prigione e immense distese di terra senza nome. A me piacevano i luoghi sicuri in cui si poteva correre e saltare sotto l’occhio vigile della mamma.   Preferivo nascondermi dentro a Happy Days, Saranno famosi o al magico mondo dei Puffi. Mi piaceva fingere di fare la segretaria o la maestra in un luogo immaginario in cui tutto era in ordine e i calzini raggruppati per colore» (p. 31).

 

Alla storia di Leo ragazzina e dei suoi genitori si intrecciano, come tanti flashback emersi dal telone opaco di ciò che è stato, le storie dei Sei. Mojalefa Reginald “Ja Ja” Sefarsa, Reid Malebo Mokoena, Theresa Machabane Ramashamole, Duma Joshua Khumalo, Oupa Moses Diniso, Francis Manentsa Mokhesi, altrettante vittime di un regime violento e assurdo, fatto di segregazione, morte e torture atroci ai limiti della sadica gratuità dei carnefici di un passato remoto.

Il romanzo della Sartori è anche la storia della loro resistenza nel carcere, di fronte al terrore di morire e di soffrire atrocemente per il dolore inflitto loro perché confessassero qualcosa che non avevano mai commesso. E’ anche la storia della loro presa di coscienza, del loro accorgersi di essere cittadini di razza inferiore e, per questo, destinati all’emarginazione e al massacro, del loro trovarsi a contatto con un mondo altro, folle e disumano.

L’incontro e l’intreccio delle vite di Leo con quelle dei Sei mostra un mondo che lentamente si rivela al lettore come qualcosa a parte, come l’”arida stagione bianca” del tentativo disperato di impedire il trionfo della verità e della giustizia (il suo simbolo non a caso sarà il grido “Mandela friii” – p. 125). Tutto questo rivissuto con gli occhi di una bambina diventata grande che vuole saperne di più di ciò che è stata e che va a cercare nel corso del suo tempo di adulta il senso che ebbero quelle lotte contro la segregazione e l’ingiustizia per la sua crescita morale e umana. A un certo punto, chiederà al padre ormai anziano e anche lui in vena di ricordi di tempi migliori:

 

« “ […] Ma papà, non ti sei mai chiesto che faccia avessero questi sei? In fondo ti sei sbattuto parecchio per loro”. “Non ha importanza, erano un principio. La faccia in questi casi non conta. Loro erano degli eroi”» (p. 153).

 

La forma incerta dei sogni ha, quindi, tutti i caratteri del “romanzo di formazione” mescolato e rafforzato dal reportage storico-giornalistico e dal pathos di una memoria nello stesso tempo straziante e felice. I Sei ne diventano il simbolo e il progetto narrativo: le loro storie che si innestano in quella dell’Io narrante mostrano l’altra faccia della medaglia di un mondo che allora si considerava libero e civile ma che non lo è ancora diventato. Il Sudafrica di questo libro è quindi una sorta di categoria dello spirito dove il male e la morte vengono sconfitti da uomini di buona volontà di cui oggi non si ricorderebbe più nessuno se non ci fosse la parola della narrazione a permettere che questo non succeda.

 

 

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

 

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.