Gogol, il grottesco crea indimenticabili figure della letteratura

Gogol, il grottesco crea indimenticabili figure della letteratura

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di Domenico Carosso
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Scrive Clemente Rebora, in calce alla sua traduzione del Mantello che «la novella fu per la Russia come una crisalide donde uscì la farfalla dell’arte, una volta concepita dall’originalità nazionale e organicamente addestrata al volo dalla poesia di Puškin. Sulle prime passò quasi inosservata, mentre Gogol´ levava il grande e tragico stormo delle Anime morte».

Il freddo gelido di Pietroburgo si fa sentire, ed ecco che per il mantello da riparare l’umile scrivano Akakij si reca dal sarto Petrovič, che lo prega poi di volerne ordinare uno nuovo, ché il vecchio è ormai inservibile…

«Ah, ecco qua, a te, Petrovič, io… Bisogna sapere che Akakij Akakievič si esprimeva per lo più mediante preposizioni o avverbi, e infine con particelle che non avevano assolutamente nessun significato. Se poi la cosa era molto difficoltosa, egli aveva persino l’abitudine di non terminare le frasi, per cui molto spesso cominciava un discorso con le parole “questo è proprio quello”, e poi non diceva più niente, e lui stesso dimenticava di finire la frase pensando di aver già detto tutto»1.

Ed ecco, per un confronto, la stessa sequenza nella traduzione, letterale ed elegante, barocca e giustamente antiquaria, di Landolfi:

«Ecco, t’ho portato, Petrovič, coso…- Bisogna sapere che Akakij Akakievič parlava sopratutto per avverbi, per preposizioni o comunque particelle senza significato alcuno. Se il discorso poi era imbarazzante, aveva l’abitudine di non finir neppure le frasi, sicché molto spesso, ne cominciava uno colle parole: “Ciò, in verità, senza dubbio…coso”, e poi non veniva fuori altro, ed egli stesso si fermava pensando di aver già tutto detto»2.

Il mantello dunque è il simbolo scelto per questo racconto di espiazione e di purificazione, come lo definisce il traduttore Clemente Rebora, in un saggio ampio e convincente come pochi del 1920. Già dalla nascita sono molte le anime incomprese, delle quali poi, nello svolgimento ulteriore, si salvano soltanto quelle che non pretendono e non aspettano di essere capite per divenire capaci.

Quando viene trascurato o disprezzato e messo da parte dai colleghi d’ufficio, e relegato al suo ruolo di copista, che lui poi preferisce, Akakij non se ne preoccupa, chiede bensì di essere lasciato in pace, e afferma la propria dignità: “io sono fratello vostro”.

L’atteggiamento degli altri, e il loro disprezzarlo, come appena detto, non ha molta presa su di lui, che, pur “dis-graziato”, non è privo di grazia, insomma vive in uno stato di grazia: è uno spirituale, ovvero può determinarsi concretamente.

L’ultimatum del sarto al nostro Akakij di farsi un mantello nuovo, l’impiegato prima lo accetta a malincuore, poi si dedica a risparmiare la somma richiesta, con sacrifici vari, come bandir l’uso del tè la sera, non accender la candela nelle stesse ore, e recarsi invece dalla padrona di casa, quando fosse possibile il farlo, camminando per via muovere i passi più leggermente possibile sopra le pietre e i lastroni».

Infine la proposta del sarto Akakij l’accetta «e comincia a nutrirsi in spirito e d’allora in poi fu come se l’esistenza medesima gli crescesse in certo modo più piena, quasi egli si fosse sposato … e congiunto a una diletta compagna di vita che non era altro che l’amorosa idea del mantello»: in russo il femminile Şinel significa appunto mantello, che aiuta e protegge e condivide la vita di chi lo indossa.

In una notte di gelo, Akakij viene derubato del mantello, perde i sensi, rientra poi a casa, e nel giro di quattro giorni soccombe, ma il suo fantasma continua di notte a battere le vie e le piazze, aggredisce chiunque per recuperare il mantello, «in una guardatura naufragata di morto»3.

Per ben otto anni l’autore lavora, con sospensioni e ritorni al testo, al Mantello, e se Puškin aveva mostrato l’ampiezza delle possibilità della narrativa, Gogol´ne porta all’estremo la tessitura, con frasi incomplete e monche, o costituite da gesti e da fonemi del tutto inconsueti, dunque inevitabilmente ironici, perché valgono non come significato ma come significante, agevole per chi recita le sue pagine con voce da istrione e con rinforzi gestuali, come faceva lo stesso Gogol´ davanti agli amici.

Il tono del processo artistico non è semplice né limitato al contenuto, è bensì acuto, estremamente ironico, e consiste nel fatto che noi parliamo in modo solenne e importante di cose che non meritano che scherno e dileggio – come scrive uno studioso russo nel 1875, Nikolaj Strachov.

Per tornare al Mantello, si deve notare che nel discorso sconnesso e frammentario di Akakij predominano i pronomi, specialmente i pronomi indeterminati, come “questo e quello”, che egli usa – dice il suo traduttore e studioso Bazzarelli – come particelle di indeterminazione, come grida non articolate e soffici, sommesse, dette a mezza voce, o anche meno. Tutto ciò rende il suo discorso, che non è mai tale, a dire il vero, sempre più disarticolato, se non proprio del tutto incomprensibile.

Nuova è dunque, nell’universo formale gogoliano, la sintassi, un complesso periodare – come osserva Serena Vitale – che procede per accumulo di proposizioni subordinate, un discorso che si sviluppa in schegge di correlative disposte in ordine paratattico, come un sinuoso arabesco vegetale.

I nomi più usati, nei racconti e nelle Anime morte, sono anch’essi indeterminati, o meglio determinano e segnalano cose e non persone, insomma persone ridotte a cose, nel mondo dell’oggettivazione o alienazione. Ecco dunque nasi e buchi, cassette e scatole, esempio il cofanetto di Čičikov coi suoi molti cassetti, una strabiliante invenzione:

«L’autore è sicuro che ci son dei lettori talmente curiosi, che vorrebbero perfino conoscere la planimetria e la sistemazione interna del cofanetto. Prego, perché non accontentarli! Eccola la sistemazione interna. Proprio nel mezzo c’era un portasapone , vicino al portasapone sei-sette stretti tramezzi per i rasoi; poi dei cantucci quadrati per il polverino e il calamaio, con uno spazio a forma di barca scavato tra loro per le penne, la ceralacca e le cose lunghe; poi ogni tipo di tramezzi con coperchietti e senza coperchietti che servivan per le cose più corte, pieni di biglietti da visita, di condoglianze, teatrali e così via, conservati per ricordo. Tutto questo cassetto superiore, con i suoi tramezzi, si poteva sfilare, e sotto di essi c’era uno spazio occupato da pacchi di fogli di carta, poi seguiva un piccolo cassetto segreto per i soldi, che si apriva di nascosto dal fianco del cofanetto. Veniva sempre aperto e chiuso così velocemente, in un attimo, dal padrone, che con sicurezza non si può dire, quanti soldi ci fossero dentro»4.

Nell’elenco delle cose, mezzi o oggetti, ci sono poi i contadini che diventano dei samovar, i ballerini delle mosche, e inoltre i possidenti sono degli orsi, le possidenti, come la Korobočka, delle scatolette, le signore si dividono in semplicemente piacevoli o piacevoli da tutti i punti di vista, mentre l’ufficiale arrivato da Rjazan´ sta sveglio tutta la notte a decidere se comprare o non comprare un quinto paio di stivali.

Il possidente, chiunque sia, è fissato dal narratore-creatore in una ellissi narrativa sempre nuova e ossessiva perché su di esso non si esprime un giudizio, si raccontano bensì dei fatti ma straniati e stranianti, portatori come sono di una verità anch’essa capovolta e inclassificabile.

Così il protagonista Čičikov, abile truffatore ma dalle buone maniere per giunta conformi alla legge, viaggia per la Russia, sterminato paese, a comprare dagli avidi possidenti le anime morte, cioè i servi della gleba passati a miglior vita, ma ancor vivi, nel censimento, ai fini delle tasse. Coi quali può poi chiedere che gli vengano assegnate, proprio in proporzione col numero dei servi trapassati, una cospicua estensione di terre.

E per parte loro i possidenti dai quali comprare i servi della gleba hanno tratti comuni, pur nelle loro differenze specifiche: una, la segretaria di collegio, è la scatoletta Korobočka, avida e calcolatrice, Manilov è dolce come lo zucchero, un sentimentale dagli occhi azzurri, Nozdrëv parla e straparla, e arriva a trasmettere ai benestanti della città di NN i suoi dubbi e la verità circa il truffatore Čičikov.

Ma col presidente dell’ufficio contratti dove il nostro si trova per convalidare i suoi acquisti, ecco che proprio Sobakevič mostra di essere entrato nei panni dell’acquirente, e uscito dai propri, arrivando a proclamare le sue anime morte come vive e attive:

«Micheev morto? No, è suo fratello che è morto, lui invece è vivo e vegeto e più in forma che mai. Giorni fa mi ha aggiustato una carrozzella, come non ne fanno neanche a Mosca”.

E non soltanto Micheev vive, anche Probka Stepan, il carpentiere, Miluškin il fornaciaio, Teljatnikov Maksim, il calzolaio, tutti andati, tutti venduti».

Nel grigio e vuoto panorama della lingua e del mondo Gogol´ coglie gli “scherzi della natura”, i dettagli anomali e estranei alla norma che lo spaventa e lo ossessiona ‒ come ben spiega Serena Vitale – e il suo orecchio è attratto dall’insolito (per es. Kovalev prova ad incollarsi il naso ritrovato dalla guardia mentre in calesse si recava Kiev, «ma il naso fave orecchi da mercante e ricadeva sul tavolo con un certo strano suono, come di turacciolo, e il viso di Kovalev si contraeva spasmodicamente»5.

In relazione ad una lingua multipla e divaricata rispetto al “reale”, nei suoi racconti e nel romanzo Anime morte, nei quali emergono indimenticabili figure letterarie, l’autore attinge, di contro al burocratico e “normale” linguaggio della finzione ossificata, ai più diversi apporti e strati linguistici, operando su radici ed etimi inconsueti e pur attivi dietro la superficie delle cose e delle parole, aprendosi così la via all’esibizione di un grottesco e maniaco divertissement, che nel Novecento rilanceranno Belji, l’autore di Pietroburgo, e Bulgakov col suo Maestro e Margherita.

Per Sinjavskij, forse il lettore più attento di Gogol´, del suo poema metafisico che esplora la notte della materia, la futilità e il vuoto nella sua forma assoluta sono il vuoto e la debilitante oziosità della vita, seguita da una morte opaca, che non dice niente della vita cittadina o campagnola, ricondotta, come il mondo intero, con la sua vuotaggine, alla vuotaggine oziosa e opaca della città.

Il processo di straniamento, ossia la dissonanza dell’immagine rispetto al materiale narrativo grezzo, già indagato da Šklovskij, in altre parole il distacco di un oggetto dalla sua percezione convenzionale, è all’opera nelle Anime morte e nei racconti quali Il naso e Il mantello, ma anche negli altri, permette l’imporsi di una maschera acustica, una mimica che accompagna e quasi precede l’articolazione delle parole.

È così all’opera lo skaz, il significante che s’impone al di là delle parole ed esige dai personaggi in causa una recitazione ad alta voce, che non altera le parole ma le carica di una comicità inaspettata, i giochi-calembours, i giochi di parole, l’alterazione del significato a favore di altre parole, che sembrano prive di senso e vengono invece utilizzate per il loro effetto fonico, come accennato.

S’impone dunque l’attenzione esclusiva ai modi, ai ritmi, ai “gesti sonori” di ogni categoria sociale ‒ come fa notare Serena Vitale.

Dei cognomi in Gogol´ ci informa A. Smirnova: «Dedicava ai nomi dei suoi personaggi un’attenzione straordinariamente grande, le andava cercando dappertutto, diventarono tipici; li trovava negli annunci – il cognome del protagonista Čičikov fu trovato suuna casa: prima non mettevano i numeri, ma solo i cognomi dei proprietari, nelle insegne. Per il secondo volume del suo poema trovò il cognome del generale Betriščev nel registro di una stazione di posta e ad un suo amico diceva che al vedere questo cognome gli erano apparse le fattezze e i baffi bianchi del generale»6.

Se tale è lo statuto denominativo dei personaggi, così preciso e inventivo, l’oggetto della narrazione è invece, secondo Andrej Belyj, un luogo e vuoto comune su cui viene tratteggiata una finzione di questo tipo: non più di un’unità, non meno di uno zero. Lo dimostra, insieme a molte altre sequenze narrative, la presentazione del protagonista, un signore né bello né brutto, né grasso né magro, non vecchio ma neanche giovane, ‒ le descrizioni gogoliane presentano sempre questa costellazione, la doppia negazione, che di chiunque come di qualunque cosa esprime un doppio negativo aperto ad un’inaspettata affermazione di là da venire.

I personaggi rispondono dunque a questa logica difforme e insolita, a dir poco, esposti come sono a realtà inaccettabili e pur vere, di una verità interiore e magari folle, com’è il caso del pittore Čartkov, e non di lui solo, che «si siede davanti al mucchio d’oro chiedendosi insistentemente “Non è tutto un sogno?”. Nel rotolo di ducati nuovi fiammanti, ardenti come fuoco, ce n’erano giusto mille…»7.

Così, i personaggi dei Racconti, a cominciare dall’impiegato-copista Akakij, hanno tutti perso la sfida o almeno il confronto con la vita, come dimostrano l’aria che tira in ufficio, dove AA è ignorato da tutti, ma in sé soddisfatto e il notturno attacco di chi lo sveste della mantello nuovo…per Nabokov il processo di vestizione cui indulge Akakij ‒ il confezionare e indossare il mantello – è in realtà la sua vestizione e graduale reversione alla completa nudità del suo fantasma.

La fantasia di Gogol´ presenta la vita come morte e però, per paradosso, risuscita a vita i morti, che sono poi i servi della gleba, che almeno hanno vissuto, per il lavoro se non per i padroni terrieri, i possidenti, mentre gli “homuncoli”, come li chiama ancora Nabokov, sono presene minime, che non toccano né intaccano la sostanza del racconto, esseri evocati come modi o figure letterarie, in un discorso che vede come oggetti le creature umane e umanizza le cose, dando loro un’inaspettata presenza vitale.

Nelle Anime morte compare, nella sua forma estrema, il riso dell’autore, non è una maschera carnevalesca o folklorica, bensì tragica perché espone le possibilità estreme dell’umano-disumano, in forma nichilistica. Ecco perché il testo dell’autore non ha riferimenti o punti d’appoggio esterni, funesti o festevoli, ma piuttosto tragici, perché il grottesco che la muove è senza sbocchi, di redenzione divina e tanto meno umana, è prigioniero di se stesso, per così dire.

Per primo Dostoevskij segnalò «la comparsa della maschera ridente di Gogol´, con la terribile potenza del riso, una potenza che mai si era espressa con tanta forza in nessuno, in nessun luogo, in nessuna letteratura da quando fu creata la terra».

P.S. Il presente saggio deve molto se non tutto alla studiosa Serena Vitale, che qui si ringrazia.


NOTE

1 Gogol, Il mantello, trad. E. Bazzarelli, Rizzoli 1980, pp. 74-75.

2 Id., trad. T. Landolfi (del 1941), Einaudi 1995 , pag. 206.

3 Id., SE, Milano 1990, pag. 71.

4 Anime morte, trad. P. Nori, Feltrinelli, Milano 2005, pag. 58.

5 Il naso, trad. Landolfi, Einaudi 1990, p. 27-28..

6 Boris Ejchenbaum, “Come è fatto il Mantello di Gogol”, ne I formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, pag. 255.

7 Gogol´, Il ritratto, ne I racconti, cit., pag. 51.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.