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a cura di Francesco Sasso
Nell’epistola XIII, scritta per accompagnare l’invio e la dedica del Paradiso a Cangrande della Scala, Dante spiega che il fine del poema è “removere viventes in hac vida de statu miserie et perducere ad statum felicitatis” (salvare gli esseri umani dallo stato di miseria e condurli alla felicità). Credo che sia una delle più belle definizioni di letteratura.
Fin dal principio, la complessità del materiale dottrinale e storico della Commedia dantesca determinarono l’esigenza di spiegare e commentare l’opera. Alcuni commenti del Trecento e Quattrocento sono in latino, ma mi stupisce il lavoro del frate minore Giovanni Bertoldi da Serravalle, il quale si spese molto nel commento e nella traduzione latina della Commedia. Un chiaro esempio di lavoro smisurato, ma inutile. Ecco un libro che non leggerò mai.
Invece un libro che vorrei leggere, e che mai leggerò, è l’Acerba di Francesco Stabili, detto Cecco d’Ascoli (1269-1327), medico e astrologo morto sul rogo come eretico a Firenze. L’Acerba è un poema incompiuto che raccoglie i più vari motivi del sapere magico e simbolico e delle superstizioni popolari. Pare che offra immagini concrete del costume quotidiano del tempo.
Cerco e non trovo le lettere di Caterina da Siena, altro libro che leggerò in una prossima vita. Si vocifera che la lettera a Raimondi da Capua (probabilmente del 1375), in cui Caterina parla dell’assistenza prestata a un giovane condannato alla decapitazione, sia uno dei testi più agghiaccianti della nostra letteratura. Vorrei constatare di persona questa diceria quanto prima.
f.s.
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