ESERCIZI DI LETTURA: In direzione uguale e contraria. Una lettura ponderata di Entropia e arte di Rudolf Arnheim

Rudolf Arnheim, Entropia e Arte, trad. it. Torino, Einaudi editore, 1974; ed. cit. 1989. L’ultima ristampa italiana del saggio è del 2000.

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di Gustavo Micheletti

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Premessa

   Nel 1865 Rudolf Clausius introduceva in fisica il concetto di “Entropia” (il termine deriva da Entropè, che in greco vuol dire cambiamento o evoluzione), con l’intento principale di esprimere in modo nuovo l’esigenza che definisce ogni sistema motore: ovvero il suo ritorno allo stato iniziale alla fine del ciclo, quando il flusso e la conversione del calore si sono compensati.
In un suo famoso saggio del 1944, il fisico Erwin Schrodinger (1887-1961) – insignito del premio Nobel nel 1933 – utilizzava poi il concetto di Entropia per cercare di fornire una spiegazione fisica del fenomeno della vita. Successivamente, un altro fisico, Ilya Prigogine – anch’egli premio Nobel nel 1977, nonché direttore degli Istituti Solvay di Bruxelles e del centro di meccanica statistica e di termodinamica dell’Università del Texas – si è servito del concetto di Entropia per spiegare l’irreversibilità che è alla base di molti fenomeni naturali e della stessa auto-organizzazione biologica.
Nel 1971, inoltre, lo psicologo della conoscenza e storico dell’arte Rudolf Arnheim ha dedicato al concetto di Entropia e alla sua utilità per l’analisi dell’opera d’arte un saggio fondamentale, adatto come premessa teorica e punto di partenza per impostare una ricerca interdisciplinare sulla rilevanza del concetto di Entropia (ma anche di “Disordine”, o “Caos”) nella scienza, nell’arte, nella letteratura – e quindi più in generale nella cultura – dell’ultimo secolo del secondo millennio. Lo scritto presente intende fornire, come esercizio di lettura, una sintesi ragionata di quest’ultimo testo: Rudolf Arnheim
Entropia e Arte, trad. it. Torino, Einaudi editore, 1974; ed. cit. 1989. L’ultima ristampa italiana del saggio è del 2000. Non mancheranno, o almeno è quanto auspichiamo, spunti di riflessione che, prendendo spunto da questo breve saggio, che è a nostro parere fondamentale per comprendere l’arte degli ultimi due secoli, potranno forse arricchirne la comprensione. Il numero delle pagine riportato di volta in volta fra parentesi, sarà da intendersi riferito ad esso.

1 – L’entropia, la forma e l’arte.

   Il concetto di Caos, di Apeiron (indefinito) riveste un ruolo importante nella storia della filosofia e della scienza fin dai loro inizi. Anassimandro lo considerava il principio di tutte le cose e gli sviluppi di tale concetto sono intrecciati nella cultura occidentale con il progressivo avvento del Nous e del Logos, ovvero della razionalità discorsiva e argomentativa, che in quanto principio ordinatore può essere considerato complementare e speculare rispetto al “disordine” originario. Il fatto che, nel suo breve saggio del 1971, Rudolf Arnheim abbia dimostrato la pertinenza e l’utilità del concetto fisico di “entropia” anche rispetto alla psicologia della conoscenza e all’analisi dell’opera d’arte, testimonia una volta di più la vitalità delle peculiari categorie di ordine e disordine, permettendo di cogliere un nesso interdisciplinare ulteriore tra le scienze umane e quelle naturali.

   Dopo aver notato che le forze fisiche tendono ad assumere, nelle condizioni di “campo”, le configurazioni più equilibrate possibili e che “esse non possono cessare di ridisporsi finché, raggiunta la condizione di equilibrio, ciascuna di esse non blocchi il movimento di ciascun’altra” (pp. 10-11), Arnheim osserva che “l’immagine di tale armoniosa tendenza all’ordine di tutta la natura viene contraddetta in modo alquanto inopportuno da una delle leggi di più vasta influenza sul comportamento delle forze fisiche, e precisamente dal Secondo Principio della Termodinamica” (p.11). In base a questo principio, è impossibile una qualsiasi trasformazione di calore in energia meccanica senza che questo “cada” da una sorgente a temperatura più alta a una temperatura più bassa; ovvero, il calore non può passare spontaneamente da un corpo freddo a uno caldo. Nella trattazione matematica della termodinamica l’Entropia è definita come il rapporto tra la quantità di calore ceduta o assorbita da un corpo e la sua temperatura assoluta, per cui, utilizzando la nozione di Entropia nella formulazione del “Secondo principio della termodinamica”, questo può assumere la seguente ulteriore forma: l’Entropia di qualsiasi sistema isolato può solo aumentare o mantenersi costante. Se mettiamo infatti un cubetto di ghiaccio in un bicchiere pieno d’acqua calda, il calore passa dall’acqua al ghiaccio e lo fonde; non potrebbe invece accadere il contrario, e cioè il passaggio di calore dal ghiaccio all’acqua che avesse come conseguenze l’ebollizione dell’acqua stessa e l’abbassamento della temperatura del cubetto sotto zero, perché in questo caso diminuirebbe l’entropia del sistema acqua-ghiaccio.

   Nel passaggio di calore che abbiamo menzionato, le parti che prima erano separate e a temperature diverse tendono a mescolarsi fino a raggiungere una temperatura omogenea, provocando un maggior disordine microscopico nel sistema in esame. La scoperta che il disordine microscopico (o entropia) di un sistema e del suo intorno non decresce spontaneamente – scoperta che ha poi indotto a definire l’entropia come la misura quantitativa del grado di disordine di un sistema – ha posto per qualche tempo la scienza moderna di fronte ad una apparente contraddizione: da un lato la natura, sia organica che inorganica, tende ad uno stato ordinato (e le azioni umane sembrano governate da un’analoga tendenza); dall’altro “i sistemi fisici tendono ad uno stato di massimo disordine” (p.12).

   Qual è dunque il rapporto tra queste due opposte tendenze cosmiche, “quella volta al disordine meccanico (principio dell’entropia), e quella volta all’ordine geometrico (nei cristalli, nelle molecole, negli organismi, etc”)? (p.15)
Prima di analizzare più da vicino questa contrapposizione, Arnheim si sofferma sia sulla rilevanza che il concetto di “disordine” assume nelle arti (specialmente in quelle visive), sia sul contributo che su questo tema viene fornito dalla “psicologia della forma”, teoria che è del resto sottesa a gran parte della sua produzione saggistica. Secondo gli psicologi della Gestalt, la configurazione delle parti di una struttura, di una forma (Gestalt appunto), sia essa un disegno molto semplice o di un’opera più elaborata e complessa, viene colta dal soggetto che la percepisce non parte dopo parte, ma innanzi tutto nella sua globalità. In un famoso esperimento dei gestaltisti – tra i più noti dei quali possiamo citare M. Wertheimer, K. Koffka e W. Kohler – è possibile scorgere nel disegno di un vaso la figura di due profili umani contrapposti. L’aspetto interessante dell’esperimento consiste nel fatto che chiunque guardi il disegno potrà percepire l’una o l’altra figura – il vaso o i due profili – e mai entrambe contemporaneamente, cosa che non avrebbe ragione di accadere se la forma complessiva fosse percepita sommando i suoi tratti costitutivi. Viceversa, l’esito dell’esperimento sembra costituire una prova del fatto che noi non percepiamo le forme elemento per elemento, tratto dopo tratto, ma ne percepiamo la struttura globale rispetto a uno sfondo, e che la percezione di una forma esclude che possa verificarsi nello stesso tempo quella dell’altra.

   Nel saggio in questione Arnheim fa riferimento alla teoria della Gestalt citando W. Kohler, secondo il quale “il disordine non è l’assenza di qualsiasi ordine, ma piuttosto lo scontrarsi di ordini privi di mutuo rapporto” (p.19). Per la psicologia della Gestalt infatti, come abbiamo detto, il soggetto umano non coglie i componenti di una struttura (linee, forme, oggetti) prima della loro forma globale, ma viceversa, la forma globale, o se vogliamo l’ordine strutturale complessivo, prima dei singoli elementi. Già a livello della percezione, quindi, ciò che viene colto non è una sommatoria di dati individuali, ma una giustapposizione di strutture.

   Riferendosi poi a due tendenze stilistiche apparentemente opposte che attraversano l’arte contemporanea Arnheim nota che da un lato vi è l’esibizione di una semplicità estrema, “quadri che si limitano a poche strisce parallele, tele coperte uniformemente da un solo colore, nude scatole di legno o metallo”; dall’altro il trionfo del disordine, accidentale o deliberatamente proposto.
In entrambi i casi, tuttavia, l’effetto voluto sarà conseguibile solo tenendo conto del fatto che l’apprensione del quadro da parte di un ipotetico spettatore è appunto di tipo globale, e che unitamente agli aspetti più caotici o disordinati la percezione dello spettatore tenderà spontaneamente a ricostruire un qualche ordine e a evidenziare la struttura interna della composizione. Quindi, in ogni caso si tratterà, da parte dell’artista, di saper comunque far leva su questa attitudine naturale della percezione.

   Nella pittura moderna vi sono spesso “chiazze o spruzzi di colore più o meno controllati, nella scultura l’affidarsi a tessiture casuali, a strappi o intrecci di materiali diversi, nonché ad oggetti trovati”. In altri rami dell’arte, v’è l’uso di sequenze di parole o di pagine a caso nella letteratura o di esecuzioni musicali che non offrono altro che silenzio, in modo che l’uditorio possa ascoltare i rumori che si verificano fuori, nella strada”, come accade in una famosa composizione di John Cage (18).

   Alcune opere dell’espressionismo astratto, come quelle di Jackson Pollock, consistono in “una distribuzione spaziale di pigmento spruzzato e spalmato controllato dal senso di ordine dell’artista” (34), e possono costituire un valido esempio del libero gioco delle due tendenze prima citate da Arnheim. Analogamente, quando Jean Arp sperimentava le leggi del caso lasciando talvolta che le forme cadessero su una superficie e studiandone il risultato, nondimeno operava con estrema cura sulle distribuzioni così ottenute. In una serie di rilievi in legno del 1942, Tre costellazioni delle stesse forme, egli offrì una interpretazione visiva dell’aspetto casuale, ponendo un certo numero di forme autonome su uno sfondo vuoto in modo tale che esse non si adattassero ad alcuno schema compositivo generale, ma venissero tenute in equilibrio unicamente dalle loro mutue relazioni di peso e di distanza. Anche mostrando che medesimi elementi possono essere montati in tre modi diversi ma parimenti validi, egli sottolineava la natura fortuita del loro combinarsi: ma lo faceva con quel delicatissimo controllo dell’ordine la cui indispensabilità era giunto a riconoscere” (34-35).

2 – Entropia e informazione                  

   Secondo Arnheim, tuttavia, “il casuale carosello delle particelle elementari non risponde alla definizione di disordine fornita da Kohler” (20), perché appunto le particelle possono essere equiparate a elementi singoli, e non a strutture formali in grado di evidenziarsi a vicenda. Il concetto di entropia infatti definisce l’ordine come una disposizione improbabile degli elementi, “senza tener conto se la forma macroscopica di tale disposizione sia strutturata armoniosamente o invece deformata nel modo più arbitrario; e chiama disordine il dissolversi di tale improbabile disposizione” (22). In un universo disordinato, infatti, trasmettere informazione significa introdurre ordine: quantità di ordine e quantità d’informazione sono direttamente proporzionali. Viceversa, più una situazione è probabile, maggiore è la sua entropia, e meno è probabile che un evento si verifichi, maggiore informazione rappresenta il suo verificarsi.
In assoluto, tuttavia, la sequenza di eventi meno predicibile, e in grado pertanto di apportare il massimo d’informazione, sarà una sequenza totalmente disordinata, perché di fronte al caos “non potremo mai predire cosa succederà nell’istante successivo” (22). Ciò che ne scaturisce è di nuovo un’apparente contraddizione: perché il disordine totale offre il massimo d’informazione e l’informazione è misurata dall’ordine, il massimo dell’ordine verrebbe trasmesso da un massimo di disordine (23). All’origine di tale “babelica confusione” vi sarebbe secondo Arnheim la diversa accezione del concetto d’ordine quand’è riferito ad una struttura globale e dello stesso concetto quale è usato nella teoria dell’informazione.

  Si supponga per esempio di osservare il prolungarsi di una linea retta: in un mondo di pura casualità, dove tutto è sempre ugualmente possibile, “la probabilità che la linea prosegua nella medesima direzione è minima”, mentre in un mondo strutturato da certe regole o leggi possono esistere notevoli probabilità che la linea retta continui come tale. Dal punto di vista della teoria dell’informazione – che non si occupa del contesto globale delle possibilità – una linea retta che continui a rimanere tale dopo un certo punto dato è un esempio di ridondanza statistica, perché ripete e prolunga quanto è già stato senza fornire nuove informazioni. Viceversa, dal punto di vista della struttura, “la regolarità della forma non è ridondanza”, non riduce cioè l’informazione. Prendiamo per esempio le linee tracciate da un geometra o un architetto su un foglio di carta: la loro regolarità è necessaria affinché vi possa essere qualche informazione utile per il cantiere, e senza di essa nessuna informazione sarebbe possibile.
In altre parole, se noi partiamo, come fa implicitamente il teorico dell’informazione, dall’esame di ogni singolo sviluppo della linea, l’informazione decresce con l’aumento della sua regolarità. Se cioè consideriamo solo una linea delle tante possibili, se cerchiamo di stabilire solo per essa il grado di ordine-disordine, ordine e informazione sono inversamente proporzionali, ovvero, più la linea sarà regolare e meno informazione apporterà. Al contrario, da un punto di vista macroscopico – com’è quello di un teorico dell’entropia – qualsiasi regolarità, in quanto prodotta nel contesto globale di tutti i suoi possibili sviluppi, è tanto più ricca d’informazione quanto più è accentuata, ovvero ordine e informazione sono direttamente proporzionali, perché in questo caso maggior ordine significa anche minore probabilità, e pertanto maggiore informazione

Per comprendere bene questo rapporto tra probabilità e informazione potremmo per esempio valutare il grado d’informazione che ci aspettiamo dal fumo prodotto da un incendio e confrontarlo con quello, scandito da intervalli regolari, che usavano gli indiani d’America per inviarsi dei messaggi: è chiaro che il secondo ci fornisce maggiori informazioni proprio in quanto il suo andamento è ad un tempo di gran lunga più ordinato, e pertanto più improbabile. Una maggiore regolarità, un ordine maggiore, non sembrerebbero quindi necessariamente da abbinarsi ad una maggiore ridondanza statistica e ad una minore informazione, e certe opere d’arte ce ne forniscono una prova. Per esempio, “la processione di figure umane quasi identiche sulle pareti di Sant’Apollinare nuovo di Ravenna non sono ridondanti” (25), non colpiscono lo spettatore come un’immagine troppo probabile o scontata, ma semmai per il suo elevato grado di regolarità-improbabilità, per la sua regolarità persino eccessiva e prolungata, e perciò abbastanza carica d’informazione da poter attrarre l’attenzione di chi guarda e suscitare in lui un certo stupore, a sua volta in grado di veicolare un messaggio estetico o culturale.

   La soluzione della contraddizione cui abbiamo accennato sopra può dunque dipendere secondo Arnheim dal chiarimento della differenza significativa che intercorre tra la teoria dell’informazione e il principio d’entropia. Il teorico dell’informazione investiga la probabilità del verificarsi di una sequenza di elementi: per esempio, egli si domanda quanto “sia probabile che una melodia di Mozart prosegua in un certo modo date le sequenze musicali conosciute scritte da Mozart precedentemente. Meno la sequenza è predicibile, maggiore informazione si dirà che essa trasmette” (28), con la conseguenza che, se continuiamo ad identificare l’informazione con l’ordine, si verificherà il paradosso che la sequenza meno strutturata – cioè meno predicibile e meno ordinata – verrà definita anche la più ordinata.

  “La teoria dell’entropia, d’altro lato, non si occupa della probabilità di successione in una serie di elementi, bensì della distribuzione generale dei tipi di elementi in una distribuzione data”. Quanto meno tale distribuzione sarà casuale, tanto minore sarà la sua entropia e più alto il livello d’ordine. “Ciò implica la seguente differenza tra i due modi di affrontare il problema: si dirà che una sequenza altamente casualizzata reca molta informazione perché l’informazione si occupa della probabilità di tale sequenza particolare; mentre una distribuzione similmente casualizzata verrà detta altamente probabile e pertanto di ordine basso da parte del teorico dell’entropia, perché possono verificarsi innumerevoli distribuzioni di tale tipo” (28). Il livello d’ordine della stessa sequenza sarà quindi inversamente proporzionale in relazione al fatto che noi la consideriamo singolarmente, valutando il suo ordine o disordine interno, piuttosto che nel contesto di tutte le altre possibili sequenze di quel tipo. Ad esempio, un certo sviluppo regolare e un po’ banale di un tema musicale potrà sembrarci molto probabile e povero d’informazione sulla base degli sviluppi di altri temi dello stesso autore, mentre nel contesto di tutti i possibili sviluppi esso potrebbe apparire poco probabile, e pertanto ricco d’informazione, proprio grazie alla sua eccessiva regolarità.

   Prendiamo ora in considerazione un altro esempio: una sequenza qualsiasi di carte ben mescolate, così da renderla altamente casualizzata. Dal punto di vista del teorico dell’informazione essa ne reca molta, in quanto molto “disordinata”, e ciò per lo stesso motivo per cui è altamente improbabile la sestina di numeri casualmente assortita che ci accingiamo a giocare al Superenalotto. Dal punto di vista del teorico dell’entropia, viceversa, quest’ultima reca poca informazione, perché egli la considera come appartenente a una tipologia – ovvero a una struttura sequenziale – il cui verificarsi è invece molto probabile. Da questo punto di vista, i giocatori abituali adottano inconsciamente il criterio del teorico dell’entropia, perché quasi mai prescelgono una serie, per esempio, di sei numeri consecutivi, sebbene essa abbia in sé la stessa probabilità di uscire di qualsiasi altra, prediligendo invece serie più “disordinate”.

   In altre parole, il teorico dell’informazione considera il grado di probabilità degli elementi di una sequenza singola. Per esempio, dopo che ha visto cento cigni bianchi, considera probabile, e al tempo stesso povera d’informazione, la vista di un altro cigno bianco, mentre riterrebbe improbabile e ricca d’informazione la scoperta di uno nero. Viceversa, il teorico dell’entropia considera lo stesso fenomeno dal punto di vista della sua struttura o conformazione generale, ovvero ritiene che, potendosi incontrare cigni di molti colori, il vederne cento tutti bianchi sia altamente improbabile, e quindi portato a considerarlo come un evento ricco d’informazione.

Per un teorico dell’informazione una sequenza di cinquanta palle bianche seguita da cinquanta palle nere “contiene molta ridondanza, poca informazione, ordine di livello basso, se si verifica in un mondo ordinato; ma l’opposto sarà vero per una sequenza casuale di palle bianche e nere. Il teorico dell’entropia, d’altro canto, chiamerà del tutto ordinata la prima distribuzione, perché ha una scarsissima probabilità di verificarsi per caso. Dirà, invece, a proposito di quella casuale, che possono verificarsi innumeri distribuzioni di quel tipo e che, pertanto, essa presenta un basso livello di ordine e un alto livello di entropia” (29). Ciò che il primo considera ridondante è dunque l’ordine interno alla serie, mentre il secondo traccia implicitamente un confronto tra quella serie e tutte le altre possibili. Il primo partirebbe quindi da uno sfondo ordinato, dove ogni ordine che si riproduca apporterebbe scarsa informazione; il secondo da uno sfondo globale virtualmente disordinato, dove ogni serie ordinata apporterebbe un’elevata informazione.

  “La differenza, pertanto, – scrive Arhheim – è dovuta al fatto che il teorico dell’entropia non si occupa di insiemi di singoli elementi. Egli tratterebbe tali insiemi come microstati, i quali non costituiscono altro che singole configurazioni (complexions) di situazioni generali. La natura particolare di uno qualunque di tali stati non ha importanza. La sua unicità strutturale, il suo ordine o disordine non contano, né è possibile misurarne l’entropia. Ciò che conta è la totalità di tali configurazioni innumerevoli, che si sommano in un macrocosmo globale (29).

   Da quanto detto, Arnheim desume che la teoria dell’entropia è stata “un primo tentativo per affrontare il problema della forma globale” (30); pur non essendosi occupata della struttura di tale forma, come fa invece la psicologia della Gestalt.


3 – L’equilibrio

  Un accrescimento dell’entropia è seguito spesso da uno stato di equilibrio. Se togliamo la lastra che separa le due parti di un recipiente contenenti diverse quantità d’acqua, questa prima oscillerà mescolandosi – accrescendo quindi l’entropia globale del sistema – e poi, a poco a poco, si calmerà livellandosi, trovando un equilibrio stabile. Ora, scrive Arnheim, “l’equilibrio è l’opposto del disordine. Un sistema è in equilibrio quando le forze che lo costituiscono sono disposte in modo da compensarsi vicendevolmente, come i due pesi posti all’estremità dei bracci della bilancia. L’equilibrio determina quiete: non può verificarsi alcuna azione ulteriore, se non in seguito ad una influenza esterna. Esso rappresenta la più semplice struttura che il sistema può assumere in condizioni date. Il che equivale a dire che il massimo di entropia attingibile attraverso una ridistribuzione viene raggiunto quando il sistema si trova nell’ordine migliore possibile” (37). In altre parole, quando un sistema muta verso una nuova dimensione alla ricerca di un ordine potenziale maggiore, la sua complessità esigerà un ordine corrispondentemente modificato.
In questa prospettiva, le strutture caratteristiche degli stati di disordine tenderebbero a creare “tensioni volte a realizzare un ordine potenziale” (38) Per questo motivo, Arnheim ritiene che l’aumento dell’entropia sia correlato con due tipi di processi diversi. Il primo consiste in una tendenza alla riduzione della tensione, e quindi alla diminuzione dell’energia potenziale del sistema in esame (39). È quanto W. Kohler chiama “legge della direzionalità dinamica”, ovvero il principio cosmico tendente alla massima semplicità e regolarità possibile, nonché, quindi, al massimo di ordine e di equilibrio. La termodinamica vi fa riferimento chiamandolo “entropia negativa”, mentre Arnheim lo definisce “tendenza anabolica” e lo considera “il principio cosmico della costruzione della forma, che dà conto della struttura degli atomi e delle molecole, della possibilità di legare e di sciogliere” (46). Tale principio – scrive ancora Arnheim – “fa simbolicamente il proprio ingresso nel Libro della Genesi, quando il creatore separa le acque dalla terra asciutta” (46).
La seconda tendenza fondamentale è invece definita da Arnheim “effetto catabolico”. Si tratta di una “categoria ampia”, che comprende tutti quei processi – naturali o indotti dall’uomo – che conducono ad una distruzione della forma, quali, ad esempio, fenomeni come l’erosione, lo sgretolamento, la ruggine, l’attrito. Quando i fisici parlano dell’entropia come di una tendenza al disordine sembrano concentrarsi secondo Arnheim su tale distruzione catabolica della forma (43), e in effetti, se teniamo conto che l’entropia comporta una certa trasformazione di energia facilmente utilizzabile in “energia degradata”, tale definizione appare appropriata.

   È interessante notare a questo punto come tali tendenze naturali possano venire a confliggere entro sistemi dati fino a raggiungere un punto di equilibrio. “Il fisico Sir Joseph J. Thompson – scrive Arnheim – illustrò una volta l’equilibrio dei corpuscoli in un piano mediante il comportamento di aghi magnetizzati infilati in dischi di sughero galleggianti sull’acqua. Gli aghi, essendone i poli puntati tutti nella stessa direzione, si respingono mutuamente come i corpuscoli atomici”. È facile immaginare come, lasciando le cose a questo punto, regni tra gli aghi un grande disordine. Questo è però destinato a risolversi nel proseguo dell’esperimento. Infatti, “al di sopra della superficie dell’acqua è posto un potente magnete, col polo inferiore di segno opposto a quello dei poli superiori dei magneti. In tali condizioni gli aghi, che si respingono l’un l’altro ma sono attratti dal magnete grande, si disporranno dell’acqua intorno al centro di attrazione nella forma più semplice possibile: se sono tre, in triangolo; se sono quattro, ai vertici di un quadrato; se sono cinque, a quelli di un pentagono” (9), e in cerchio se sono molti.
L’esperimento di Thompson, oltre ad illustrare in maniera efficace il gioco antagonistico di forze opposte, può anche rendere visivamente chiara la relazione tra le due tendenze sopra menzionate, sebbene dobbiamo ricordare che l’entropia non è una forza (come potrebbe suggerire l’accostamento con l’esperimento di Thompson), ma soltanto il grado di disordine provocato in un sistema dall’energia che si va degradando. Possiamo pertanto riassumere quanto detto con le stesse parole di Arnheim quando, per definire il rapporto tra le due tendenze cosmiche che abbiamo visto all’inizio – quella volta al disordine meccanico (principio di entropia) e quella volta all’ordine geometrico (nei cristalli, nelle molecole, negli organismi, etc.) dice che ogni “forma organizzata esige il mutuo gioco fra il tema strutturale, che la tendenza anabolica produce, ed una seconda tendenza cosmica, che punta alla riduzione della tensione così ottenendo la semplicità della regolarità” (50). Sebbene il principio di entropia – e quindi la tendenza ad una distribuzione catabolica – non possa descriversi adeguatamente come tendenza al ‘disordine meccanico’”, né in senso stretto la tendenza anabolica sia capace in se stessa di creare un “ordine geometrico”, tuttavia la Legge della “direzionalità dinamica” di Kohler “offre al principio di entropia un aspetto di ordine cosmico”, in quanto in base a tale legge la tensione potenziale di un sistema dato (ricorda per esempio quella che può sussistere tra i liquidi contenuti in due parti di un recipiente quando venga tolta la lastra che li separa) si ridurrebbe non solo dissipando o degradando energia, bensì organizzandola secondo la struttura più semplice, più omogenea e più equilibrata tra quelle possibili nel sistema dato.


4 – Principio del Piacere e principio di Stabilità

   Il XIX secolo ha prodotto, insieme al principio di entropia, anche teorie che sembrano evidenziare un principio ad esso opposto, cui Arnheim ha fatto riferimento sotto il nome di tendenza anabolica. Se la teoria darwiniana ha presentato il progresso del regno animale dalla forma organica più semplice a quella più elaborata, asserendo che il mondo della vita è passato, attraverso la selezione naturale, dal semplice al complesso, Spencer individuò nella natura processi antagonisti di concentrazione o integrazione da un lato, e diffusione o dissipazione dall’altro (54-55). Secondo Spencer infatti, “accanto ad un procedere dalla semplicità verso la complessità, si ha un procedere dalla confusione verso l’ordine: dalla disposizione indeterminata alla disposizione determinata. Lo sviluppo, non importa di quale specie, presenta non soltanto un moltiplicarsi di parti dissimili, ma anche un accrescimento della precisione con la quale tali parti sono contraddistinte l’una rispetto all’altra” (57).
Rendendosi conto del fatto che l’eterogeneità non poteva tuttavia aumentare indefinitamente e che esisteva “un grado che la differenziazione e l’integrazione di materia e moto non possono oltrepassare”, Spencer riteneva che il cosmo tendesse verso uno stato di equilibrio stabile, verso un’armonia che poteva essere considerata come “l’instaurarsi della massima perfezione e della più completa felicità” (57).

   Nei suoi Principi di psicologia Spencer considerò poi i sentimenti estetici – ovvero quelli legati alla produzione o fruizione di un’opera d’arte – caratterizzati dalla sottrazione di ostacoli all’apparato sensoriale, in modo da renderlo più efficiente possibile. Successivamente un suo allievo, Grant Allen, definì esteticamente bello “ciò che consente la Massima Stimolazione col Minimo Sforzo o Dissipazione”, considerando quindi esteticamente piacevole tutto ciò che poteva comportare un risparmio di fatica per il nostro apparato sensoriale (59).
Sulla scia dell’impostazione positivistica ed economicistica che può essere fatta risalire a Spencer e che tende ricondurre il piacere estetico ad una diminuzione dell’energia necessaria per compiere lavoro nel sistema nervoso, tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo uno psicologo e naturalista neolamarkiano – Gustav Theodor Fechner – colse nella natura un Principio di Stabilità per il quale anche il progressivo adattamento delle specie, e quindi la loro evoluzione, era da ricondurre non tanto alla selezione naturale e al ruolo in essa giocato dal caso, come volevano i darwinisti, quanto al fatto che le parti degli organismi viventi tendevano a condurre altre parti, e dunque il tutto, ad uno stato durevole e stabile. In questo modo, ovvero sostenendo che un sistema debba continuare a mutare finché non raggiunga la completa stabilità, Fechner in qualche modo parafrasava una conseguenza del Secondo Principio della Termodinamica, conseguenza che può analogamente venire riscontrata nelle sue riflessioni sul piacere e sul dolore. Egli asseriva infatti che qualsiasi eccitazione psicofisica capace di oltrepassare la soglia della coscienza era investita dal piacere nella misura in cui si approssimava alla completa stabilità, e dal dolore quanto più se ne allontanava.

   Questa teoria di Fechner era destinata a riscuotere un certo successo, o almeno tale successo venne a manifestarsi dopo che Sigmund Freud la citò all’interno del suo Al di là del Principio del Piacere. In questo saggio del 1919 Freud faceva infatti propria l’istanza fondamentale della teoria fechneriana ponendo in stretta relazione il principio di piacere con quello della riduzione di tensione. Come precisa opportunamente Arnheim, il parallelo diretto con il Secondo Principio della Termodinamica non sfuggì ai discepoli di Freud. Uno di loro, Siegfried Bernfeld, si esprime a tal proposito in termini molto chiari: “i sistemi fisici per i quali vale il principio di entropia si comportano come se possedessero la tendenza a ridurre le proprie interne quantità di tensione entro il sistema considerato come un tutto” (62). Sebbene non si conosca un riferimento diretto da parte di Freud al principio di entropia, secondo Ernst Jones – uno dei più autorevoli allievi del padre della psicoanalisi – Fechner è l’unico psicologo da cui Freud abbia preso qualche idea. Ciò che del resto Freud tende a dimostrare in Al di là del Principio del Piacere – scrive Arnheim – “è che lo sforzo di mantenere la tensione a livello minimo, o di eliminarla interamente, costituisce la tendenza dominante di un’esistenza psicofisica (principio del Nirvana). Tale riduzione di tensione viene concepita da Freud come dissolvimento catabolico. Gli istinti sono pulsioni dell’organismo vivente a ritornare allo stato inorganico: obbiettivo della vita è la morte (63)”.
Secondo Arnheim Freud avrebbe individuato nello sforzo per ridurre la tensione “l’unica tendenza primaria dell’organismo” (63). In quest’ottica, gli istinti non costituirebbero impulsi vitali, pulsioni tendenti a realizzare sviluppi superiori, quanto piuttosto reazioni a dei disturbi o a degli ostacoli. Sulla scia di Schopenhauer – nei cui riguardi riconosce il proprio debito – Freud avrebbe quindi adottato un’impostazione filosofica essenzialmente negativa e statica, interpretando anche il lavoro e l’amore come attività di fatto estensive del principio di entropia, in quanto volte a realizzare il principio di Minima azione già anticipato da Leibniz, Maupertuis e Lagrange, e successivamente ripreso e sviluppato da Max Plank (63-64).

  Intorno al 1930, un ulteriore contributo a questa tendenza interpretativa della fisiologia umana venne avanzato da Walter B. Cannon, il quale ipotizzò l’esistenza di un principio di Omeostasi idoneo a regolare sia la temperatura che il rifornimento più opportuno di ossigeno, acqua, zuccheri alle varie parti dell’organismo. Cannon tuttavia – ricorda Arnheim – “distinse accuratamente l’omeostasi, che offre un rapporto ottimo tra uscita ed ingresso, dalla tendenza incontrastata alla riduzione di tensione. Ben lungi dal rappresentare uno sforzo verso il dissolvimento della morte, la tendenza all’omeostasi è comparsa nell’evoluzione biologica come mezzo per preservare la vita. Al posto del ristagno creato da uno stato di massima entropia, il sistema aperto dell’organismo ha costituito una stabile corrente di energia assorbita e spesa” (66). In tal modo la teoria omeostatica di Cannon – che pur si prestava ad essere interpretata come un contributo favorevole alla tesi della natura essenzialmente conservatrice delle pulsioni umane adottata da Freud sulla scia di Fechner – denunciava il riduttivismo implicito in ogni interpretazione dell’equilibrio organico come ordine finalizzato a conseguire una mera riduzione della tensione.


5 – L’ordine e il bisogno di complessità

Nel tentativo di riassumere brevemente la tesi generale di Entropia e Arte, è forse opportuno citare ancora una volta le parole di Arnheim. Ciò che l’autore ha inteso dimostrare con il suo breve saggio è che “la tendenza dell’uomo verso l’ordine, della quale l’arte non è che una delle manifestazioni, deriva da una consimile tendenza universale presente in tutto il mondo organico, e trova pure un parallelo, anzi forse un’origine, nella tendenza verso lo stato di struttura più semplice, presente nei sistemi fisici. Ho affermato” – continua Arnheim – “che tale tendenza cosmica verso l’ordine va distinta nettamente dal dissolvimento catabolico, che affligge tutte le cose materiali e conduce al disordine o, più generalmente, alla distruzione, infine, di ogni forma organizzata” (68).
La regolarità in se stessa non è tuttavia sufficiente secondo Arnheim “a dar conto della natura dei sistemi organizzati in generale, o di quelli creati dall’uomo in particolare. La pura regolarità conduce ad un crescente impoverimento, ed infine al livello strutturale più basso possibile, che non può più chiaramente distinguersi dal caos, cioè dall’assenza di ordine. Occorre una contropartita, un principio rispetto al quale la regolarità sia secondaria. Esso deve offrirci ciò che va ordinato. Ho descritto tale contropartita come creazione anabolica di un tema strutturale, la quale precisa ‘a che miri la faccenda’, sia essa un cristallo o un sistema solare, una società o una macchina, una concezione ideale o un’opera d’arte. Soggetto alla tendenza verso la struttura più semplice, l’oggetto, o l’evento, o l’istituzione assume una forma ordinata e funzionante. Sul piano pratico, esistono ottime ragioni per mantenere il più semplice possibile un tema strutturale, e per ridurre al minimo il dispendio di energia. Tuttavia, quando si giunge al complesso dell’esistenza umana, il cui unico scopo è la propria pienezza, il tema strutturale non soltanto deve essere presente, ma deve essere pure il più ricco possibile” (68-69). In fondo, per fare il massimo di cose che può, anche Dio ha bisogno di leggi naturali che siano le più semplici possibili, e d’altra parte è proprio grazie a tali leggi che è in grado di dare forma ad un universo estremamente complesso.

  Anche le arti hanno sempre risposto ad un’esigenza di pienezza e complessità, e ciò è testimoniato dal fatto che gli stili artistici propri delle diverse culture sono – talvolta nonostante le apparenze – tutt’altro che semplici: “il Partenone non è semplice, né semplici sono gli edifici di Le Corbusier” (70). Anche nelle sculture intagliate africane vi è “un’inesauribile invenzione formale che presenta variazioni sempre nuove della forma umana fondamentale” (69). Persino per un autore come Winckelmann – che può per altri versi essere considerato un cultore della semplicità classica – la tensione visuale che anima la forma umana in certe statue ellenistiche si rivela non meno indispensabile alla bellezza della semplicità o della quiete.

  Ma come conciliare dunque l’istanza di semplicità che pare essere presente tanto nelle creazioni umane che nelle leggi naturali con il bisogno di pienezza e complessità testimoniato da molte opere d’arte?  Secondo Arnheim si può rispondere a tale interrogativo solo “distinguendo fra regolarità ed ordine” (71). Se la pura regolarità diminuisce la tensione e accresce l’entropia (e ciò sebbene non sia vero l’opposto, in quanto non ogni aumento di entropia deriva da un aumento della regolarità) fino a raggiungere un massimo di omogeneità (si pensi sempre al liquido contenuto nelle due sezioni dello stesso recipiente: una volta che venga tolta la lastra che li tiene separati si mescoleranno nel modo più regolare ed omogeneo possibile) (71-72), tale omogeneità costituisce soltanto il livello più semplice di ordine. Una struttura può infatti essere più o meno regolare a qualsiasi livello di complessità, e ordini di livello più complesso possono essere costituiti dal tipo di struttura più semplice possibile per un dato insieme di condizioni. “L’incremento di entropia – precisa ancora Arnheim – è dovuto a due specie diverse di effetti: da un lato un impulso verso la semplicità, che promuoverà la regolarità e l’abbassamento del livello dell’ordine; dall’altro, il dissolvimento disordinato. Ambedue conducono alla riduzione di tensione” (73). Nell’arte, a bilanciare e integrare questa tendenza è “il tema”, che rappresenta ciò a cui l’opera mira: “quando se ne indebolisce l’influenza, può accadere una delle due seguenti cose: nel primo caso, il bisogno di semplicità non sarà più controbilanciato dall’esperienza complessa e dall’invenzione” e nell’opera ci si accontenterà di una struttura minima a basso livello d’ordine, fino al caso estremo dell’omogeneità. “Oppure, nel secondo caso, la struttura organizzativa soccomberà semplicemente alla disintegrazione, o per corrosione ed attrito, o per la pura incapacità di tenersi insieme” (74), col risultato che, in entrambi i casi, l’opera correrà il rischio di risultare più o meno illeggibile per l’occhio.

   È per questo motivo che nell’esperienza artistica ed estetica l’ordine si rivela per Arnheim “una condizione necessaria, benché non sufficiente”. A tale conclusione pare sia giunto anche Jean Arp, il quale, in un periodo cruciale della sua vita, aveva deciso di comporre quadri di carta strappata a mano nell’intento di assecondare ed evidenziare quel dissolvimento della forma cui la tendenza catabolica e il principio della riduzione della tensione parevano ammiccare.
“Perché affannarsi a raggiungere la precisione, la purezza – si chiedeva Arp – quando non le si può raggiungere mai. Lo sporco uomo dalle sporche dita punta e imbratta un dettaglio del quadro. Da quel momento quel punto è marcato di sudore e di grasso. Egli è colto da entusiasmo selvaggio e cosparge il quadro di saliva. Un delicato collage di carta acquarellata va perduto. Anche la polvere e gli insetti sono efficaci per la distruzione (…). L’opera va a pezzi, muore. La morte di un quadro non mi spingeva più alla disperazione. Avevo stretto il mio patto con il suo trapassare” (75).

  “Fu l’opera della sua compagna artista, la moglie Sophie Tauber, che gli mostrò – scrive Arnheim – il fine equilibrio tra sopra e sotto, luce ed ombra, eternità e transitorietà”, tanto da indurlo in seguito a credere di nuovo, come nella sua gioventù, “che il ritorno ad un ordine essenziale, a un’armonia, sia necessario per salvare il mondo da una confusione senza limiti” (76).  Da questo passo dei suoi scritti si può forse desumere che Jean Arp aveva scoperto, nell’ambito concreto e diretto della sua esperienza artistica, ciò che Arnheim doveva giungere a sostenere al termine del suo saggio: ovvero che non ci si può contentare di chiedere ad un’opera d’arte di raffigurare il disordine dell’ambiente circostante o del proprio cervello, come avviene in certi prodotti dell’arte contemporanea. Sebbene questi possano talvolta essere considerati come effetti del bisogno quasi disperato di trarre l’ordine da un ambiente caotico (77), l’interpretazione dell’arte che dimostrano di adottare o assecondare si rivela debole e per lo più sterile, almeno quanto quella che tende a contrapporre ideologicamente allo stesso disordine il vuoto dell’omogeneità.


Indicazioni bibliografiche supplementari per chi voglia approfondire, anche in direzioni a prima vista insospettabili.

R. Arnheim, Verso una psicologia dell’arte, Einaudi, 1969.

E. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte, Einaudi, 1967.

A. O. Lovejoy, La grande catena dell’essere, Feltrinelli, 1966 (esaurito; reperibile eventualmente in qualche grossa biblioteca).

R. Laing, L’Io diviso, Einaudi, 1969.

M. Perniola, L’estetica del Novecento, Il Mulino, 1997.

F. Nietzsche, La nascita della tragedia; Adelphi; (varie ristampe).

M. Godelier, Razionalità e irrazionalità nell’economia; Feltrinelli; 1970 (esaurito; reperibile eventualmente in qualche grossa biblioteca).

W. Kohler, La psicologia della forma; Feltrinelli; (varie ristampe)

E. Schrodinger, Cos’è la vita; Adelphi; 1995.

S. Freud, Al di là del principio del piacereIntroduzione alla Psicoanalisi“; L’InconscioL’Io e L’Es; (Opere tutte pubblicate in Italia da Boringhieri, in varie ristampe).

C. G. Jung, L’Io e L’inconscio; Boringhieri; (varie ristampe).

E. Jones, Vita e opere di Freud; Il saggiatore; 1962.

J. Monod, Il caso e la necessità; Oscar Mondadori (varie ristampe).

J. Gleick, Caos; Sansoni; 1996.

I. Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza; Einaudi; 1981 e 1993.

H. Arendt, Le origini del totalitarismo, edizioni Comunità, 1967.

F. Neumann, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario; Il Mulino, 1973.


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Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.