ELOGIO DELLA LENTEZZA. Paul Valéry e la forma della poesia di Giuseppe Panella

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ELOGIO DELLA LENTEZZA. Paul Valéry e la forma della poesia  

di Giuseppe Panella

«La calma nell’azione. Come una cascata diventa nella caduta più lenta e sospesa, così il grande uomo d’azione suole agire con più calma di quanto il suo impetuoso desiderio facesse prevedere prima dell’azione»

(Fredrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I)

 

 

1. La soluzione etica della poesia

Fedele ammiratore della snella levigatezza della danza, Valéry teme la fretta e la concitazione della corsa, ha timore della frenesia concatenata alla perdita di sensibilità del moto senza tregua.

Più che dal vuoto (1), appare atterrito dal movimento infinito e senza senso che incontra ad ogni pie’ sospinto: il rifiuto di “ogni prodigioso incremento di fatti e di ipotesi” (2) compare in quasi tutte le sue opere. Basteranno alcuni specimina a dimostrarlo:

« – Vuole dire che più si trova, più si cerca ; e che più si cerca, più si trova ?

   –  Esatto. Certe volte mi sembra che fra la ricerca e la scoperta si sia formata una relazione paragonabile a quella che i stabilisce fra la droga e l’intossicato.

   – Molto curioso. E allora tutta la trasformazione moderna del mondo…

   – Ne è il risultato; e ne rappresenta, del resto, un altro aspetto … Velocità. Abusi sensoriali. Luci eccessive. Bisogno dell’incoerenza. Mobilità. Gusto del sempre più grande. Automatismo del sempre più “avanzato”, che si manifesta in politica, in arte, e … nei costumi» (3).

L’idea fissa, dialogo tra il Narratore ed un medico, è del 1931 (4) mentre in quella raccolta di études de circonstance che è il volume Regards sur le monde actuel (1945) spicca proprio un articolo, “Propos sur le progres”, che insiste sul carattere “terroristico” della velocità e della fretta.

Consapevole del fatto che la nozione di progresso come evento positivo e la sua negazione come “nuova barbarie” siano entrambi luoghi comuni, Valéry ritiene il progresso e la morte inestricabilmente connessi. In un passo che sembra anticipare Theodor Wiesengrund-Adorno nei Minima Moralia (5), l’atteggiamento astorico della velocità del cambiamento viene coniugato con la consapevolezza (che ad esso è collegata) della sicura caducità del mondo:

«L’un des effets les plus sûrs et les plus cruels du progrès est donc d’ajouter à la mort une peine accessoire, qui va s’aggravant d’elle-même à mesure que s’accuse et se précipite la révolution des coutumes et des idées. Ce n’était pas assez que de périr ; il faut devenir inintelligibles, presque ridicules ; et que l’on ait été Racine ou Bossuet, prendre place auprès des bizarres figures bariolées,  tatouées, exposées aux sourires et quelque peu effrayantes, qui s’alignent dans les galeries et se raccordent insensiblement aux représentants naturalisés de la série animale» (6).

Se il progresso come tale implica la sempre più veloce erosione del passato, se la capacità di consumo della bellezza diventa sempre più elevata e l’illeggibilità del mondo una consuetudine, è anche vero che la sintesi che l’impetuoso sviluppo produttivo delle risorse disponibili impone serve ad unificare ciò che apparentemente sembrerebbero quantità inconciliabili : potenza e precisione (7).

Il discorso finora abbozzato non deve servire soltanto a mostrare un aspetto del Valéry polemista, analizzatore delle vicende a lui contemporanee e partecipe in misura critica di modificazioni che non sempre arriva ad accettare (anche se si tratta pur sempre di una sfaccettatura della produzione valéryana che non sempre è stata tenuta nel giusto conto (8), sacrificandola alla retorica del “puro canto dell’ Io” e del “linguaggio più puro della tribù” (9)).

L’azione poetica consiste sempre per il poeta autentico in lente progressioni, in circonvoluzioni avvolgenti, in avvicinamenti circospetti e, tuttavia, ambiziosi: Valéry vuole sempre giungere alla totalità e alla totalità sacrifica la possibilità, permettendo ad essa di rifluire in quella, coinvolgendole entrambe nella stessa dinamicità.

La verità si coglie attraverso la linea serpentina della bellezza (10), la “lunga impazienza” (11) durante la quale si tessono “i leggerissimi sistemi” della creazione artistica (12), non certo mediante la malia ansiosa della  facilité.  Artefici sono ragni e serpenti, platani e palme, filatrici e ballerine (13).

I poeti sono rigorosi costruttori di improbabilità, coloro che sanno procedere per paragoni e analogie (14), coloro la cui intelligenza si rivela dans un ordre insensé (15), coloro che sanno improvvisare senza smettere di pianificare o di pensare.

Il fare poetico coincide con il pensiero e l’intelletto si palesa come poesia. Per questo motivo, le immagini della poesia coincidono con quelle della mente e le parole non possono che essere subordinate ad esse.

Ha scritto Chateaubriand che “si dipinge bene il proprio cuore soltanto attribuendolo a un altro” (Memorie d’oltretomba). Il proposito di Valéry, tuttavia, pur essendo simile a quello dello scrittore romantico, sembra quello di sostituire coeur con cerveau (16) e, soprattutto, di attribuire al proprio tutti i cervelli altrui possibili.

Il suo punto di partenza è sempre quello con cui si chiude la narrazione della vita intellettuale di Monsieur Teste:

«Si tratta di passare da zero a zero. – E’ la vita – Dall’incosciente e dall’insensibile all’incoscienza ed all’insensibilità. Passaggio impossibile a vedersi, poiché esso passa dal vedere al non vedere dopo esser passato dal non vedere al vedere. Il vedere non è l’essere, il vedere implica l’essere» (17).

Da ciò si può intravedere, allora,  l’importanza del progresso étonnant […] que a fait la lumière (18), la fondamentale necessità della visione netta e precisa per la composizione ed il tratto, l’amore mai sopito per “la precisione” e “la certezza” che emanano dalle figure delle ballerine (19).

Il passaggio dallo zero allo zero non è la fine o la cancellazione totale della visione, come, a prima vista, si potrebbe intendere (oppure mera eco del Descartes della Diottrica (20) ), ma una sua estensione,

la sicurezza che il vuoto del visibile aiuti o annunzi il di più che viene colto e conosciuto mediante l’atto della visione:

«Étrange pouvoir de l’absence ! – Plus je te forme et te ressens, plus je souffre – Plus je suis maître de ton image, plus esclave de celle-ci ; et plus elle est vrai, plus est vaine » (21).

L’assenza, il vuoto, la mancanza non sono gli aspetti negativi della visione, ciò che la rendono impossibile; sono, invece, ciò che la sostanza visibile mostra di sé insieme a quello che viene veduto. Così l’apparente mancanza di sforzo delle ballerine dei quadri di Degas mostra ciò che nasconde mentre rivela la fatica aerea del rimanere sempre in movimento e mai poter riposare – ciò che per Socrate accomuna lo spirito alla danza.

Allo stesso modo, “il male dell’attività ” che coglie il dottore in L’idea fissa è reso per simulazione:

«Riassumendo, appena mi sento assegnare un’ora, un luogo, un atteggiamento del corpo o dello spirito ai fini dello svago, tutto il mio essere protesta: sbadiglia, fugge…Mi metto a pensare agli affari miei, ai miei malati, al mio mestiere, a una cosa qualsiasi…» (22).

Il dottore “simula” di perdere tempo per non doverlo fare per davvero (ha detto precedentemente di dormire a teatro, di essere esasperato al cinema, di stancarsi viaggiando, di trovare insopportabili i romanzi) (23) ; in questa modo, si stanca artificialmente quando non può farlo sul serio. Lo stesso avviene per l’attività artistica dove lo sforzo della creazione non può essere rivelato se non nel momento in cui è già in atto. La costruzione compiuta, solo apparentemente ricoperta dal fascino della facilità dell’invenzione, si rivela alla visione come assenza e, contemporaneamente, come affermazione di ciò che comporta in termini di sforzo e fatica.

La danza, come la poesia, emerge attraverso il suo prevalere sull’assenza e per la prepotenza della sua tensione ideale rispetto al vuoto che caratterizza la massima tra le mancanze: la vita. La danza (ancora come la poesia) costruisce su un vuoto (che è quello della vita ordinaria) la sua piramide di esaltazione e di ebbrezza:

«Fedro. Ma da parte mia, Socrate, la contemplazione della ballerina quante cose mi rende concepibili, e quanti legami di cose che sul momento si mutano nel mio proprio pensiero e in qualche modo pensano in luogo di Fedro. Sorprendo in me bagliori che non avrei per nulla ottenuto dall’unica e sola presenza della mia anima» (24).

Ma la poesia (come la danza) non è soltanto esaltazione ; è, al fondo dell’azione creativa, riflessione, consolidamento, destino.

In una parola, produzione consapevole a partire dalla capacità di costruzione del nesso (o di nessi plurimi, possibili) tra parola e sensazione, tra idea e sua trasformazione in opera. Valéry sintetizza questo procedimento, arricchendolo delle sue valenze deduttivo-epistemologiche, in un neologismo: l’implexe (25).

« […] l’ Implesso non è attività. Tutto il contrario. E’ capacità. La nostra capacità di sentire, reagire, fare, comprendere – individuale, variabile, più o meno percepita da noi – , e sempre in maniera imperfetta, e sotto forme indirette (come la sensazione di fatica), spesso ingannevoli. A ciò bisogna aggiungere  la nostra capacità di resistenza …[…] Riassumendo, intendo per Implesso ciò in cui e per cui siamo eventuali … Noi, in generale ; e Noi, in particolare …» (26).

Eventualità coincide con possibilità e, inevitabilmente, con opportunità. L’Implesso non solo individua ciò che è necessario nel momento in cui lo è (tropismo dell’ Implesso), ma prova a trasformarlo in qualcosa che possa sempre essere attirato ed utilizzato al momento giusto. La sua funzione produttiva, dunque, diventa sostanzialmente gnoseologica portandosi al limite estremo della conoscenza per afferrare quel “residuo nascosto” che è il margine delle possibili verifiche alla sua operatività. L’ Implesso valéryano rende possibili conoscenze che altrimenti, in quello stesso momento, tenderebbero a rendersi a loro volta méconnaissables.

La ragion d’essere dell’implexe è, dunque, tutta nella sua capacità di sviluppare le potenzialità (espresse o inespresse che siano).

« L’Implesso, infatti, è definito come una memoria potenziale o funzionale proprio in opposizione alla memoria storica, legata cioè ai  ricordi personali […] . Poiché il passato ha valore solo come elemento d’avvenire, le reliquie della vita vissuta sono del tutto prive d’interesse: per Valéry, ciò che conta davvero è l’eventuale, l’implicito. Ed è per questo che il rifiuto della sensibilità, avviato nel 1892 e realizzato sia in Teste  sia in Gladiator con la sostituzione di un essere puro ad un essere storico, si attuerà pienamente in Napoleone, l’individuo sovrastorico padrone del futuro» (27).

Per la sua capacità di “secernere il domani” (28), nel suo abbandono pieno ed incondizionato al “male dell’attività”, Napoleone viene rappresentato da Valéry come il modello dell’uomo moderno, che non vive se non nell’anticipazione del futuro, attraverso il presente, non ponendosi il problema del passato. La sua figura attraversa continuamente la ragnatela dei rapporti che produce e, pur essendo sempre presente nell’insieme delle relazioni che senza di lui non potrebbero essere, non si risolve completamente in essi. In ciò è singolarmente vicino all’esperienza (spirituale e corporea insieme – di fusione totale, quindi) che la danza trasmette e produce. Come continua Valéry :

« – […]  Dottore, sa che Napoleone ne ha dato una definizione splendida ?

  – Ancora Napoleone?

  – Ogni tanto. D’altronde è il modello dell’uomo moderno, dell’uomo che ha perduto il tempo, visto che non sapeva perdere il proprio.

 – E cosa ha detto Napoleone?

 – Un giorno, in una lettera, ha scritto: “Io vivo sempre due anni in anticipo”. Per quest’uomo il presente non esisteva.

 

[…]

– […] si tratta di sapere cosa dia la sensazione di vivere di più, se la presenza estrema …dell’istante, o la presenza estrema … del possibile» (29).

La danza, in misura maggiore delle altre attività artistiche dell’uomo, concede questa sensazione “estrema del possibile”. In nome della vita che sempre vuole rinnovarsi per poter ritrovare se stessa, “misterioso moto che col giro d’ogni evento mi trasforma senza tregua in me stesso” (30), la danza partecipa della realtà e, nello stesso tempo, se ne distacca serenamente ed aerodinamicamente per ritornarvi poi ed essere restituita alla terra.

Tra danza e vita esiste un rapporto lieve, fatto di una rassomiglianza impalpabile, eppure immediatamente riconoscibile:

«La vita è una donna che danza – dice Socrate ad Erissimaco, nel dialogo L’anima e la danza – e che finirebbe divinamente d’esser donna se lo slancio che la solleva, potesse lei obbedirvi sino alle nuvole. Ma come noi non possiamo andare all’infinito, né in sogno né in veglia, egualmente lei torna sempre se stessa: termina d’esser piuma, uccello, idea, e insomma ogni cosa in cui al flauto piacque di tramutarla, in quanto la terra medesima che la respinse ora la richiama e la restituisce anelante all’indole sua di donna e all’amato» (31).

La figura di questa esperienza al limite può essere individuata in quel geniale repertorio della danza e delle sue artefici mirabili che costituisce l’opera pittorica di Degas (32) e la sua ratio sistematica nel volumetto che Valéry dedicò al grande pittore parigino (33).

Ma prima di passare ad esaminare le ragioni estetiche dell’implexe e della loro comunicabilità attraverso un’esperienza artistica che sembra raggiungere la propria acme in una sorta di velocissima immobilità figurale, sarà opportuno interrogare le ragioni etiche che spingono Valéry a subordinare la fretta ed il parossismo della velocità contemporanea alla lentezza delle “secrezioni” delle possibilità.

E’ indubbio che, per Valéry, esista una specie di “imperativo categorico” dell’estetica e del fare poetico senza del quale non sarebbe possibile creare o, per lo meno, aspirare a pro-durre arte e letteratura. Tale necessità “imperativa” impedisce di negare, da un punto di vista esclusivamente estetico, la fatica e la pesantezza della costruzione di ogni opera d’arte ed esperimenta l’esistenza di un ostacolo di natura etica, il quale, come avviene spesso nella sfera delle opzioni morali, nasce da una scelta opposta a quella del simpatetico aderire alle flessuose curvature dell’esistenza.

La bellezza della ballerina (sempre in movimento, apparentemente senza fatica, nella sospensione dell’attimo della felicità estatica) si contrappone alla volontà e alla scelta della vita come rottura dell’equilibrio creato da quell’attimo, come mossa volontaria che rimette in volo la freccia ferma della conoscenza.

La scoperta della lentezza annulla l’ idea fissa della continua attività come auto-realizzazione così come la comprensione della suprema armonia dell’accordatura del mondo annulla la necessità di un continuo moto atto e ostinato nell’intento di poterla raggiungere.

Lentezza e perfezione si sposano in una ininterrotta attesa dell’opportunità del possibile, nella paziente ricerca della zona di confine e del margine adeguato a far transitare il noto nell’ignoro, la vita nell’arte, la scelta di essere sempre e comunque al posto di quella di sprofondare nel suo oblio naturale.

2. Rimanere pur sempre in gioco : nonostante Zenone

Maria Teresa Giaveri traduce il celebre secondo emistichio del primo verso della strofa XXIV del Cimetière marin con bisogna tentare di vivere ! ; Manlio Dazzi, invece, volge lo stesso verso in Tentiamo di vivere ! ; Beniamino Dal Fabbro, ancora, spezza l’emistichio in due ulteriori tronconi con Bisogna tentare di vivere ! . Infine, Mario Tutino, nella sua traduzione del 1963, scrive : E di nuovo, la vita ! (34).

Non si tratta qui di dare torto o ragione o compilare le pagelle di merito per alcuno degli interpreti di un testo stilisticamente e linguisticamente così arduo : tutti coloro che si sono cimentati con Il cimitero marino (comunque si siano prodigati a risolvere gli enormi problemi di resa testuale che gli si ponevano dinnanzi) hanno dato di questo verso cruciale per tutta la poesia del Novecento un’interpretazione apparentemente simile, sicuramente corretta sintatticamente, ma pur sempre diversa da un punto di vista grammaticale (35).

Dall’enunciato imperativo della traduzione Dal Fabbro (Bisogna tentare…) all’esortazione morale di Dazzi (Tentiamo di vivere) all’enigma gnoseologico proposto da Tutino (E di nuovo,  la vita!) alla costruzione di un programma esistenziale nel bel calco, sobrio e liricamente più efficace, della Giaveri (e non è poi il caso di proseguire con l’esame di tutti gli altri traduttori del Cimetière marin, perché sono ancora legione), tutti i dettati delle traduzioni lette concordano su un punto.

L’appello alla vita intesa come slancio e come rifiuto delle “pagine del libro” non è proponibile in termini di programma etico, ma va ridotto a “tentazione” della soggettività, di quell‘ Io che rifiuta l’esatto in nome del confuso e variegato mondo mortale.

La proposta etica di Valéry è diversa, anche se parrebbe confondersi con l’empito vitalistico dell’ufficiale di marina che trascorre, insaziato, il mare aperto alla ricerca consapevole di ciò di cui ancora non ha consapevolezza.

Il Vivere dobbiamo del Cimetière non ha nulla a che vedere con il navigare necesse est, non vivere della tradizione di Ulisse e non comporta neppure l’ossequio a quella tradizione umanistica della ricerca che si fa un merito di aver portato il proprio cervello al di là dell’ostacolo.

Per Valéry, non si tratta tanto di scoprire, quanto di trovare. E ogni invenzione si può paragonare ad una produzione, è, in realtà, una forma di produzione. Si trova, solitamente, ciò che si sa già come cercare e si cerca quello che è consueto, prevedibile e previsto, già atteso.

Non si attende ciò che non si saprebbe definire, ciò cui non si saprebbe dare forma.

Nel verso di Valéry, esortazione e descrizione si giustappongono nell’emissione della massima, nella serena mancanza di difficoltà dell’apodissi (36).

Non solo traduzione, tuttavia, quanto conclusione, cercata con l’aiuto della tradizione, proposta sulla base di una necessità : quella di rimettere in moto il meccanismo della vita stratificato, congelato, irretito dalla dinamica stagnante del paradosso insoluto che si trasforma in rompicapo e via senza uscita.

La “necessità” del vivere non nasce dall’elogio della dimensione ludica dell’esistere né dallo sfogo vitalistico di anti-intellettualismo quanto da una forma superiore di sapere, da una capacità più alta di conciliare il paradosso dell’essere e del pensare, del sapersi destinato ad una sapienza imprecisa ed inseguirla costantemente.

L’infedeltà del sapere è quello che costringe Monsieur Teste alla sua continua ricerca di verità concettuali. Negli Estratti del giornale di bordo del signor Teste, infatti, si può leggere:

«Quel che io vedo mi accieca. Quel che odo mi assorda. Ciò che io so mi rende ignorante. Io ignoro in quanto e per quanto io so. Questa illuminazione davanti a me è una benda e copre una notte o una luce più … Più che cosa? Qui si chiude il cerchio d’uno strano capovolgimento: la conoscenza come nebbia sull’essere ; il mondo illuminato quale macchia della vista ed opacità. Togliete tutto affinché ci possa vedere» (37).

E ancora, più avanti, con accenti socratici, ma senza lo stesso pathos platonico della Ricerca della Verità:

«Quel che io porto d’ignoto a me mi rende me stesso. Quel che io ho di inabile, d’incerto è pure me stesso. La mia debolezza, la mia fragilità… Le lacune sono la mia base di partenza. La mia impotenza è la mia origine. La mia forza viene da voi. Il mio moto va dalla mia debolezza verso la mia forza. […] Se io ne sapessi di più, forse, invece di questo caso, vedrei una necessità. Ma vedere tale necessità è già cosa distinta … Ciò che mi spinge non è me» (38).

La percentuale d’impossibilità del signor Teste è la prova della sua esistenza. Teste è un paradosso e, come tale, non può essere superato se non a livello superiore, attraverso uno scatto metafisico. Per scavalcare Teste e andare otre d lui, occorre vivere.

Il cimitero marino è la risposta necessaria ai dubbi del signor Teste. Risposta oltremodo problematica, d’altronde. Il problema fondamentale di Teste, infatti, è:

«Che cosa può l’uomo? Io combatto tutto – tranne le sofferenze del mio corpo, oltre una certa dimensione. Proprio di lì tuttavia dovrei cominciare ad affondare in me stesso. Perché soffrire significa dare a qualcosa un’attenzione suprema, ed io sono un po’ l’uomo dell’attenzione […] Chi mi parla, se non mi prova qualcosa, è un nemico. Preferisco il rilievo del più piccolo fatto  accaduto. Io sto esistendo e sto vedendomi; sto vedendomi vedere e così di seguito … Pensiamo con precisione. Ci si addormenta su qualsiasi argomento… Il sonno continua qualsiasi idea …» (39).

La risposta di Valéry al suo self fittizio arriverà molti anni dopo e solo per contrasto con la fuggente e nostalgica malia del serpente  che avvolge con le sue spire il mondo incontaminato della Jeune Parque.

Il cimitero marino nasce dall’attrazione mai repressa in Valéry per una poesia di immagini e di azioni (non di parole o di atteggiamenti psicologicamente astratti o stereotipati), per una lirica che non sia pura espansione di uno stato d’animo, ma riflessione e risposta al suo problema.

Nonostante l’accusa di cliché (40) (e nonostante la conferma un po’ ironica dello stesso poeta già nelle lettere degli anni Quaranta), continuo a credere che l’ultima strofa dell’ode sia effettivamente la conclusione di una ricerca non solo poetica.

Il “bisogna pur vivere” della poesia di Sète non serve soltanto a chiudere definitivamente il “libro” (con tutte le suggestioni che l’idea del Libro potrebbe suscitare nel lettore dell’ultimo Mallarmé), ma a chiudere il conto con “il vero tarlo, il verme inconfutabile”, il quale “vive di vita, e mai non mi lascia !” (41); serve soprattutto a tacitare quel “dente segreto” (42) che “vede, vuole, sogna, tocca !” (43).

E’ qui che Valéry, non casualmente, esige di dare un nome possibile alla sua “assenza pregna” (44), alla futura e “magra immortalità nera e dorata” (45).

Il tarlo (o dente) segreto è quello del paradosso: Zenone prima, Achille e la tartaruga poi compaiono come elementi di una serie cui non si può mettere fine, se non troncandola.

Il principio di contraddizione che è alla base dei paradossi temporali degli stoici (e che Valéry evoca poeticamente) non può essere tolto perché i paradossi che lo esibiscono non ne partecipano compiutamente. Nelle parole di Gilles Deleuze:

«La forza dei paradossi risiede in questo: non sono contraddittori, ma ci fanno assistere alla genesi della contraddizione. Il principio di contraddizione si applica al reale e al possibile, ma non all’impossibile da cui deriva, cioè ai paradossi o, piuttosto, a ciò che rappresentano i paradossi» (46).

I paradossi, solitamente, non possono essere risolti e ricondotti alla doxa; possono essere superati solo in nome del buon senso o della reductio ad absurdum.

Valéry evita il paradosso dello “spietato Zenone” (47) sulla base del buon senso e della dimostrazione pratica della sua impossibilità (“Il suono mi dà vita e la freccia mi uccide” (48)), ma non può che far ricorso ad una logica superiore per superare le insidie (“l’ombra di tartaruga per l’anima” (49)) del secondo paradosso.

Il ricorso è all’ “era successiva” (50), al superamento della “forma pensosa” (51) e l’approdo ad una conoscenza piena, che eviti la domanda di Monsieur Teste sulla potenzialità e la trasformi in descrizione: la teoria dell’ Implesso, appunto, o la vasta, tenace, fittissima, incontrovertibile, incorruttibile ragnatela dei Cahiers (52) o dei saggi raccolti nei diversi volumi di Varieté.

Il paradosso scatta quando urge una forma superiore di conoscenza (è, peraltro, questo uno degli insegnamenti maggiori di “maestri in paradossi” quali Pascal o Kierkegaard che se ne sono costruiti un’affilatissima arma dialettica).

Di fronte all’impossibilità di tener fede alla promessa di Monsieur Teste o di seguire dettagliatamente il metodo appreso studiando l’opera di Leonardo da Vinci (“mi propongo di immaginare un uomo di cui sarebbero apparse azioni così distinte che se mi soffermo a supporre dietro di esse un pensiero, non riesco a vederne di più estesi. E impongo a lui un sentimento della differenza delle cose così vivo, che le avventure di tale sentimento potrebbero benissimo denominarsi analisi. Mi accorgo che ogni cosa lo orienta: è all’universo cui egli costantemente pensa, e al rigore” (53)), Valéry sceglie la strada della composizione.

Anch’essa è un’altra vita da vivere, dopo quella dell’astrazione e del paradosso. Ma non credo neppure che l’inserzione  (seppure essa sia stata animata da un sentimento di assoluta libertà) dei paradossi del moto sia stato evento casuale o frutto di un movimento intellettuale repentino (il caso dell’onda marina che scuote lo scafo della nave, richiamato da Valéry stesso, è emblematico di un simile modo di pensare comune) : i due “falsi” modelli di moto sono il simbolo di ciò che blocca, ferma, impedisce la vita e il pensiero in maniera definitiva e, come tali, sono proprio “quello che l’uomo non può” in quanto ne negano ogni potenzialità ed ogni opportunità costitutivamente.

“Tentare di vivere” significa, forse, ritornare a pensare la totalità: con lentezza, con pazienza, con la convinzione che non si raggiunge definitivamente l’obiettivo se non costruendolo.

Anche di questo, tuttavia, consiste l’avventura estetica.

3. La scelta estetica : la poiesis

Valéry ha dedicato molte pagine in quasi tutti i suoi libri all’elogio della danza.

Lo ha fatto sia descrivendola direttamente, sia dedicandosi all’analisi del pittore che ha legato il suo periodo migliore alla rappresentazione delle sue forme plastiche, Edgar Degas (54).

In L’idea fissa, ad esempio, la danza è chiamata in causa per giustificare la natura “funzionale” dell’idea e la sua necessità “organizzativa”: la danza come simbolo dell’istantaneità della durata.

«E’ infinitamente più difficile sostenere qualcosa che non affaticarsi spostandosi. La durata costa cara. Si direbbe che la specializzazione prolungata ripugni al nostro sistema vivente. Ci richiama energicamente allo stato di libera disponibilità… Per esempio, Dottore, io soffro realmente nel vedere una ballerina che si alza sull’alluce…» (55).

Lo scarto di sensibilità prodotto dal patire è reso necessario per poter reggere appieno il peso della sofferenza: la ballerina con il suo “dito che sorregge tutto il suo corpo” (56) è simbolo dell’instabilità dell‘”Implesso” e della sua capacità potenzialmente restauratrice dell’equilibrio alterato dalla sofferenza o dallo sforzo.

La figura della ballerina che si spinge verso l’alto con la sola forza della sua muscolatura e, nello stesso tempo, conserva la sua eleganza e la sua flessuosità affascina Valéry sino a farne il segno della poesia “autentica”.

La danza, secondo un celebre paragone di Malherbe, è simile alla poesia mentre la marcia, invece, ricorda la prosa. La differenza più marcata tra marcia e danza è data dall’apparente mancanza di scopo che contraddistinguerebbe quest’ultima: marciare significa andare dritti verso una meta, danzare significa cercare il proprio obiettivo in se stessi.

Proprio questo sembra che facciano le ballerine avvitate intorno al proprio corpo quando campeggiano al centro dei quadri di Degas.

Valéry ha scritto a proposito di Mallarmé e dell’attrazione che provava per la sua poesia che uno degli aspetti che sempre lo avevano affascinato maggiormente nel poeta parigino era il carattere di sfida della sua scrittura poetica. L’esigenza intellettuale che la lettura dei suoi poemi comportava era tale da renderne la “risoluzione istantanea” pressoché impossibile, pur essendo consegnata ad uno stile cristallino.

«Chi non rifiutava i testi complessi di Mallarmé, si trovava costretto, inavvertitamente, a imparare di nuovo a leggere» (57).

Il rifiuto della facilità si sposava alla certezza di star componendo qualcosa che sarebbe cresciuto come “una figura nel tempo” (58) ed invitava alla sfida ed allo sforzo.

«Lo sforzo più splendido – scrive sempre Valéry – degli umani è di mutare il loro disordine in ordine, e le probabilità in potere ; questo è il vero prodigio. Mi piace chi è duro verso il proprio genio» (59).

E conclude:

«Quanto a me, confesso che non afferro quasi nulla d’un libro che non mi opponga resistenza» (60).

Lo stesso avviene al poeta di Sète quando contempla le figure dipinte da Degas. Anch’egli, come Mallarmè,

«rifiutava la facilità, come rifiutava tutto quello che non fosse l’unico oggetto dei suoi pensieri. Non sapeva augurarsi che d’approvare se stesso, ossia d’accontentare il più difficile, il più duro e incorruttibile dei giudici. […] M’ero fatto di Degas l’idea di un personaggio ridotto al rigore di un duro disegno: uno spartano, uno stoico, un giansenista artista. Avevo scritto poco tempo prima la Serata col signor Teste, e quel piccolo studio d’un ritratto immaginario, sebbene fatto di notazioni e relazioni verificabili, precise quanto potei, non è escluso che più o meno sia stato influenzato, come si dice, da un certo Degas che mi figuravo» (61).

Degas è un altro dei personaggi “mitici” che fondano l’universo poetico e teorico di Valéry, popolandolo con le loro aspirazioni alla perfezione, con la loro ricerca incessante, con la loro volontà di essere precisi fino all’annullamento del dubbio, con la loro capacità di annullare l’ Io a favore dell’opera.

Il signor Teste racchiude molti di questi tratti eponimi, ma la descrizione di Degas è forse quella che si avvicina di più all’ideale.

Proprio perché realizzata sulla figura di un uomo realmente esistito, la trasformazione in sagoma mitica riesce più facilmente. Leonardo da Vinci era troppo lontano nel tempo e troppo regolarmente e metodicamente interpretato, smitizzato, anatomizzato, per non risultare l’insieme dei diversi frammenti in cui la critica specializzata lo ha ridotto. L’ Introduzione al metodo non investe che di sfuggita il suo oggetto-Leonardo ; Degas Danza Disegno illumina pienamente l’ambito di lavoro e la ragion d’essere dell’opera di Degas.

Nessun compiacimento biografico, nessun bozzettismo, nessuna tentazione al “ritratto in miniatura”: Degas si identifica con il tratto ed il disegno e questi ultimi fanno quadrato insieme alla danza. La danza rappresentata nei quadri di Degas, infatti, non è simbolo o allegorica prefigurazione dell’essenza della vita ; ne è, invece, l’anima.

Per Valéry, infatti, la danza coincide con la forma più “nobile” di entropia. La gioia, la collera, l’ansia, l’angoscia, lo stesso sforzo del pensiero producono un dispendio di energia che non viene indirizzata da nessuna parte, che si disperde nello spazio e non viene concentrata nel tempo.

«Ma esiste una forma degna di nota d’un tale dispendio delle nostre forze : consiste nell’ordinare o nell’organizzare i nostri movimenti di dissipazione. Abbiamo detto che in questa sorta di movimenti lo spazio non era che il luogo degli atti: esso non contiene il loro oggetto. Adesso, è il tempo ad aver la parte maggiore. E’ il tempo organico quale lo si ritrova nel regime di tutte le alterne funzioni fondamentali della vita. Ciascuna d’esse s’effettua con un ciclo d’atti muscolari che si riproduce, come se la conclusione o il perfezionamento di ciascuno generasse l’impulso del seguente. Su tale modello le nostre membra possono eseguire una serie di figure che si concatenano le une alle altre, e la cui frequenza produce una sorta d’ebbrezza che va dal languore al delirio, da una sorta d’abbandono ipnotico a una sorta di furore. Lo stato di danza è creato» (62).

Non diversamente Socrate aveva descritto la forza del legame tra danza ed oblio della condizione umana, tra divina esaltazione del gesto e rifiuto della pesante staticità dei mortali.

Degas coglie la danza nel momento del distacco, quando tra consapevolezza tecnica basata sulla conoscenza dei gesti e slancio verso l’abbandono totale non c’è che un minimo diaframma.

Il disegno accurato e teso fino a cogliere il minimo particolare gli permette di rappresentare nel “volo” delle ballerine, nei loro movimenti aggraziati e spontaneamente costruiti, nel loro essere sempre consapevoli della bellezza del loro gesto e contemporaneamente nel loro essere sempre del tutto insoddisfatte di esso, il miracolo della durata.

Lo sforzo, la fatica, il peso del corpo da sostenere durante l’azione vengono annullate dai tratti del suo pennello e del suo carboncino in nome di una simmetrica ripetizione di movimenti che partecipano dell’incomprensibilità e del fascino della musica.

Degas è il grande pittore della musicalità: riesce a rendere con tocchi pittorici ciò che gli strumenti permettono di ascoltare durante la performance del concerto.

Degas è il poeta della danza proprio perché è in grado di rappresentarla senza scomporla, di mostrarla senza falsarne l’armonia, di metterne in luce le potenzialità senza paralizzarla.

Per questo motivo, “il disegno non è la forma, ma la maniera di vedere la forma” (63).

Questo assioma tanto caro a Degas (il quale lo considerava una sorta di definizione generale del suo lavoro) potrebbe, nonostante le differenze strutturali nell’attività artistica da descrivere, essere utilizzato per mostrare la dimensione poietica della poesia in Valéry.

L’arte nasce, infatti, dalla “produzione artificiale di uno stato poetico”; ciò che la caratterizza e, in primo luogo, caratterizza la poesia è la compresenza di fare poetico e farsi della poesia che procedono di pari passo realizzandosi attraverso quella strategia di caso e ferrea volontà che ne sono la sostanza.

«Che l’artista sia un giocatore che tenta la fortuna è stato felicemente detto da Valéry, il quale proprio perché accentua il “calcolo” può concedere tanto posto al “caso”; e che l’artista sia in fondo soltanto spettatore della propria opera è sostanzialmente idea, certo meno felice, di Alain» (64).

Ma proprio nel caso dell’opera poetica di Valéry non si può fare a meno di rilevare come il poeta sia tanto più “spettatore” di se stesso che produce quanto più questa sua produzione sia stata propiziata dal carattere di evento che essa vuole assumere. Ogni opera d’arte, di conseguenza, in quanto evento, ha il suo destino, che è il frutto della pratica lenta e creativa del poièin di cui è portatrice.

Se del farsi dell’opera d’arte gli artisti conoscono compiutamente il prezzo, non altrettanto può dirsi della genesi che ha permesso loro di realizzarla.

Come Sergio Givone sintetizza efficacemente, individuando il dire cela, sans savoir quoi che informa la pratica poetica di Valéry:

«Si tratta dunque di scoprire qual è l’organo e quale l’origine del processo di formazione e di esecuzione dell’opera; per riconoscere, poi, sia la funzione dell’organo […] sia la collocazione dell’ origine […] e per determinare di entrambi, conseguentemente, l’intrinseca storicità […]. Egli distingue l’ “emozione poetica” dall’ “emozione comune”, contrapponendo all’universalità di quella la particolarità di questa e caratterizzando la prima come dotata di una sensation d’univers, cioè di una forma di percezione originaria (perception naissante), essenzialmente musicale, in quanto capace di cogliere l’accordo tra il soggetto e l’oggetto (tra le sensazioni e le rappresentazioni) e tra gli elementi dell’oggetto (esseri, cose, eventi e atti, che si compongono in un sistema completo di rapporti) » (65).

E’ alla base di questa ripartizione estetica la celebre descrizione del modo tenuto da Valéry nel comporre il testo definitivo del Cimitière marin (66).

Ma tutto questo non basterebbe egualmente se non si tenesse conto del carattere di attività continua che attraversa sempre l’emozione poetica e la spinge a diventare fatto poetico, rimettendosi in gioco come sensazione per trasformarsi in costruzione.

E’ il carattere di poiesis quale gli è stato riconosciuto da Hans Robert Jauss, ma è anche qualcosa di più, dato che la lunga fatica dell’artefice non si esaurisce (o, comunque, non può esaurirsi soltanto) nell’esperienza estetica  “produttiva” e in quella “ricettiva”.

Scrive Jauss:

«Ciò che del “metodo” di Leonardo affascinava Valéry e che egli cercava di chiarire come radice comune tra le entreprises de la connaissance et les opérations de l’art, era la “logica immaginativa” della costruzione, vale a dire di quella forma di prassi che ubbidisce al principio del faire dépendre le savoir du pouvoir» (67).

Credo, tuttavia, che il tentativo valéryano vada oltre la logica della costruzione e che, insieme ad una “poietica”, comporti l’esistenza di una “pragmatica”.

Il grande matematico (e teorico delle catastrofi) René Thom ha “ridotto” il piano di lavoro di Valéry trasportandolo nello spazio e disponendolo su tre dimensioni. In questo modo :

«

   Philosophie

  ↕            ↕

Science ↔ Art

[…]

L’originalité du projet de Valéry consiste à réaliser la fléche horizontale, court-circuitant ainsi la philosophie ; par là se manifeste sa profonde méfiance à l’égard de tout ontologie. Il croit trouver dans la pragmatique – les “actes” – la possibilité de réaliser une synthèse entre la science, collection de recettes efficaces, et l’art, qui est essentiellent une “poiétique”» (63).

L’importanza della modellizzazione di Thom è data proprio dal fatto che la filosofia viene “cortocircuitata”  nella pratica artistica e, quindi, le ragioni dell’arte sono coassiali a quelle della spiegazione del perché sono tali, del perché avvengono.

Ragione dell’evento e ragione del fatto non sono subordinate l’una all’altra, ma sono conseguenti.

La possibilità di analisi espressa dalla proposta di Valéry è, allora, quella che nasce dalla capacità di spiegare invece di descrivere, di mostrare i meccanismi in atto piuttosto che limitarsi ad analizzarli post factum. E’ questa, come si è visto, la ragione dell’ implexe; sarà questa, in conclusione, la ragione della scelta di una critica della ragione poietica in nome dell’attività artistica.

Thom poi continua:

«Comment Valéry a-t-il pu concilier la nécessité de la continuité avec sa philosophie opérationnnaliste ? Je pense – ce fu là son grande drame – qu’il n’a pas pris conscience du caractère contradictoire qu’il y avait entre son mathématisme […] et sa philosophie opérationnaliste, philosophie qu’il ne cesse de proclamer tout au long des Cahiers, par example : “La science n’est que des actes. Il n’y a de science que des actes. Tout le rest est Littérature» (69).

Nella consapevolezza pragmatica dell’attività poietica (nella coscienza sempre viva, cioè, della necessità della costruzione appoggiata alla sicurezza dell’aleatorietà di quella costruzione stessa) riposa il concetto valéryano di destino. Ed è in quest’ultimo che l’arte trova la sua ragione d’essere, la conferma della sua esistenza.

Non si tratta, tuttavia, di una opzione ontologica quanto della scelta (ancora una volta) della potenzialità dell’essere, potenzialità che esclude, infatti e di conseguenza, la pura presenza sull’orizzonte artistico.

La dinamicità dell’opera nasce dall’intrecciarsi delle sue variabili e queste variabili sono “actes”, azioni e non soltanto fatti, dato che a ciascuna di esse è concessa una potenzialità infinita. Non solo:

«Nessuno può dire – scrive Valéry – che cosa domani sarà morto o sarà vivo in letteratura, in filosofia, in estetica. Nessuno sa quali idee saranno perdute e quali proclamate. L’impossibilità nasce dal fatto che il futuro si genera dal presente in cui coesistono opposti contraddittori, sicché il presente “è nulla, per quanto un nulla infinitamente ricco”» (70).

La possibilità concessa dall’ Implesso si fa, allora, costruzione lenta e laboriosa di azioni dai risvolti multipli, in un continuum mentale (quale è quello prospettato da René Thom) che conosce l’indeterminazione della conoscenza e l’assolutezza del destino. Che è poi quella di produrre in nome dell’ hostinato rigore di leonardesca ascendenza la leggerezza della danza e “l’orgoglio del labirinto” (71). Quanto di più solido e di meno resistente compaia : «come colui che pensa, // la cui anima intende // a crescere se stessa dei suoi doni» (72).

Le immagini della poesia si fanno nel suo straordinario progetto di poetica atti del pensiero e vanno oltre le parole: nel rifiuto della poesia come puro momento verbale risiede la geometrica proposta valéryana della scrittura come capacità di rastremare il concetto e affilarlo in vista della sua realizzazione lirica.

Pensatore del labirinto, l’infinita possibilità dedalica non atterrisce se non il suo lettore, a sua volta costretto alla lenta fatica di un percorso comune.

Note

(1) Il rimando è alla splendida analisi condotta da Valéry sulla base del frammento di B. PASCAL che consiste in  “Le silence éternel de ces espace infinis m’effraie” (lo si trova in Pensées, III, 206 dell’edizione a cura di Léon Brunschvig).

Cfr. P. VALÉRY, “Variazioni su una pensée“, in Varietà, a cura di S. Agosti, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 101-108.

(2) P. VALÉRY, L’idea fissa o due uomini al mare, trad. it. e cura di V. Magrelli, Roma-Napoli, Theoria, 1985, p. 45. Sui temi contenuti in questo straordinario dialogo filosofico di Valéry, cfr. quanto ne dice lo stesso Magrelli nel suo Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002.

(3) P. VALÉRY, ibidem.

(4) La prima edizione del dialogo è del 1932 (per le edizioni dei Laboratoires Martinet di Parigi) ; la seconda edizione, che reca la celebre frase d’esordio: “Questo libro è figlio della fretta”, è del 1933 (per Gallimard di Parigi).

(5) L ‘allusione non è tanto al saggio “L’artista come vicario” (in T. WIESENGRUND-ADORNO, Note per la letteratura I, trad. it. di E. De Angelis, Torino, Einaudi, 1979) quanto ad alcuni “cammei” presenti nei Minima Moralia (in particolare, cfr. T. WIESENGRUND-ADORNO, Minima Moralia, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 19742, pp. 153-154). Sul rapporto Adorno-Valéry, cfr. A. TRIONE, Valéry. Metodo e critica del fare poetico, Napoli, Guida, 1983, pp. 19-20 e passim.

(6) P. VALÉRY, Regards sur le monde actuel, Paris, Gallimard, 1945 e sgg. , p. 147.

(7) P. VALÉRY, Regards sur le monde actuel cit. , p. 148. Pur apprezzando molto gli sforzi titanici dei traduttori di Valéry, mi guardo bene dal provare a tradurlo in proprio. La prosa di Valéry è troppo chiara per poter essere resa facilmente comprensibile a tutti.

(8) Interessanti eccezioni a questo destino, oltre ai volumi di Magrelli e di Trione già citati, mi sembrano E. DI RIENZO, Il sogno della ragione, Roma, Bulzoni, 1982 ; R. VIRTANEN, “The Egocentric Predicament. Valéry and Some Contemporaries”, in “Dalhousie French Sudies”, (III), 1981, pp. 99-117 ; M. E. BLANCHARD, “Paul Valéry, Walter Benjamin, André Malraux. La littérature et le discours de la crise”, in “L’Esprit Créateur”, (XXIII), 4, 1983, pp. 38-50. Ma tutto il problema del Valéry  ” politico” mi sembra ben lungi dall’essere esaurito.

(9) Nonostante la miriade di scritti sui rapporti Valéry-Mallarmè (cfr., ad esempio, il bel libro di E. NOULET, Suites. Mallarmé, Rimbaud, Valéry, Paris, Nizet, 1964), il miglior saggio su Mallarmé mi sembra pur sempre il  “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” dello stesso Valéry  (cfr. P. VALÉRY, Varietà cit. , pp. 241-257). Sull’argomento cfr. la recente raccolta di scritti di Valéry,  Mallarmé et moi, a cura di E. Durante, Pisa, ETS, 1999. Di notevole interesse il contributo di Y. BONNEFOY su “Valéry et Mallarmé” in Aa. Vv. Valéry: le partage de midi. “Midi le juste”, Atti del Convegno internazionale (Collège de France, 18 novembre 1995), a cura di J. Hainaut, Paris, Champion, 1998, pp. 59-72.

(10) L’allusione alla linea sinuosa quale simbolo della bellezza compiuta è nel trattato settecentesco di W. HOGARTH, L’analisi della bellezza, pubblicato nel 1753 (la linea serpentinata compare sul frontespizio dell’opera). Sul pensiero estetico di Hogarth, cfr. l’ ancora ottimo saggio di  Filiberto Menna, William Hogarth. L’analisi della bellezza, Salerno, Edizioni 10/17,  1988 (su cui rimando alla mia recensione pubblicata in “Belfagor”,  (XLIV), 3, 1989, pp. 356-358).

(11) P. VALÉRY, “Disegno di un Serpente”, in Poesie, trad. it. e cura di B. Dal Fabbro, Milano, Feltrinelli, 19692, p. 128.

(12) P. VALÉRY, “Disegno di un Serpente”, in Poesie cit., p. 126. Sul tema del serpente in Valéry come simbolo del potere della natura e della sua potenza dispiegata quale forma della bellezza, la letteratura secondaria è numerosa. Cfr. A. R. CHRISHOLM, “Valéry’s Ébauche d’un serpent“, in “Journal of Australasian Universities Language and Literature Association”, 1961, 15, pp. 19-29 ; J. M. COCKING, “Towards Ébauche d’un serpent. Valéry and Ouroboros”, in “Australasian Journal of French Studies”, 1969, 6, pp. 187-215 ; H. LAURENTI, “Le monstre valéryen”, in “Bulletin des études valéryennes”, 1974, 2, pp. 23-48 ; J. R. LAWLER, “The Serpent, the Tree and the Crystal”, in “L’Esprit créateur”, (IV), primavera 1964, 4, pp. 34-40 e M. SCOTTI, Ces vipères de lueurs. Il mito ofidico nell’immaginario valéryano, Roma, Bulzoni, 1996. 

(13)  ” Toute araignée m’attire ” (scrisse una volta Valéry a Gide – cfr. André Gide – Paul Valéry, Corrispondance 1890-1942, Paris, Gallimard, 1955, p. 390). Gli altri personaggi dello “scenario mentale ” di Valéry sono tratti dal “Disegno di un Serpente”, da “Al Platano”, da “Palma” (nel volume di versi Charmes del 1922), da “La filatrice” e “Le vane ballerine” (nel volume Album de vers anciens 1890-1900, stampato nel 1920) e, naturalmente, dall’opera pittorica di Edgar Degas. Sul “primo periodo” dell’opera di Valéry, senpre utili i volumi di M. T. GIAVERI, L’ “Album des vers anciens” de Paul Valéry. Studio sulle correzioni d’autore edite e inedite, Padiva, Liviana, 1969 e G. A. BRUNELLI, Paul Valéry “giovane poeta”, Roma, Bonacci, 1987 e

(14) “Signorina de l’Espinasse. No, sentite, dottore ; mi spiegherò con un paragone, che è forse l’unica forma di ragionamento delle donne e dei poeti… “(D. DIDEROT, Sogno di D’Alembert, trad. it. di  P. Campioli, Milano, Rizzoli, 1967, p. 41). L’interlocutore della signorina de l’Espinasse (il cui vero nome era, però, Julie de Lespinasse), per tutta la vita compagna di letto e di attività culturale di D’Alembert, è il dottor Théophile Bordeu che sarà una delle autorità mediche dell’illuminismo francese prima e dell’idéologie poi propugnando fino in fondo, insieme a Paul-Joseph Barthez, la teoria del “vitalismo” organico in medicina.

(15) ” Une se lève d’elle-même, et se met à la place d’une autre ; nulle d’entre elles ne peut être plus importante que son heure. Elles montent, originales ; dans un ordre insensé ; mystérieusement mues jusque vers le midi admirable de ma présence, où brûle, telle qu’elle est, la seule chose qui existe ; l’une quelconque” – è la conclusione del frammento ooetico-narrativo Agathe del 1898 (un testo mai terminato da Valéry e che, con il titolo Manuscrit trouvé dans une cervelle, doveva costituire la continuazione di Monsieur Teste). Sulla fondamentale importanza di questo breve scritto per l’evoluzione del pensiero del poeta francese, cfr. P. VALÉRY, Oeuvres, I, Paris, Gallimard (Bibliothéque de la Pléiade), 19772, pp. 1388-1393 ; S. AGOSTI, “Pensiero e linguaggio in Paul Valéry”, Introduzione a P. VALÉRY, Varietà cit., in particolare alle pp. 14-15 ; M. BLANCO, “Ninfe su fondo nero. Note su Agathe e Cantate de Narcisse di Valéry” in Aa. Vv. Valéry : la philosophie, les arts, le langage, a cura di R. Pietra, in “Cahiers du groupe de recherche sur la philosophie et le langage”, 11, Grenoble, Université de Grenoble, 1989, pp. 239-248 ; N. CELEYRETTE-PETRI, “Agathe” ou “Le manuscrit trouvé dans une cervelle” de Valéry. Genèse et exegèse d’un conte de l’entendement, Paris, Minard, 1981 ; M. TSUKAMOTO, “L’écriture et la simulation dans Agathe“, in Paul Valéry. L’Avenir d’une écriture, Atti del Convegno internazionale di Montpellier (2-4 novembre 1994), in “Rémanances”, 1995, 4/5 (numero speciale su Valéry), pp. 131-140 e, infine,  M. HONTEBEYRIE, Paul Valéry. Deux projets de prose poetique: “Alphabet” et “Le manuscrit trouvé dans une cervelle”, Paris, Minard, 1999.

(16) Cfr. S. S. NIGRO, “Tra Montaigne, Valéry e Freud: la biografia per paradossi”, in “Sigma”, (XVII), 1-2, 1984, pp. 112-115, che affronta il problema attraverso coordinate generali di indubbia importanza. Sempre su Valéry, cfr. il bel saggio di A. MAZZARELLA, La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria (Roma, Donzelli, 2004) che contiene notevoli pagine proprio sul tema della soggettività e del sogno nel poeta francese (su di esso, mi permetto di rimandare alla mia nota di recensione apparsa su “Comparatistica. Annuario italiano”, (XIV), 2005, pp. 203-208.

(17) P. VALÉRY, Monsieur Teste, trad. it. di L. Solaroli, a cura di G. Agamben, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 101. Sulla figura di Monsieur Teste appare rilevante il saggio di J. STAROBINSKI, “Monsieur Teste face à la douleur”, in Aa. Vv.  Valéry, pour quoi ? , Paris, Les Impressions Nouvelles, 1987, pp. 93-120.

(18) P. VALÉRY, Regards sur le mond actuel cit. , p. 149.  Significativamente Walter Benjamin aveva già posto l’accento su questo testo di Valéry nel suo “Paul Valéry. Per il suo sessantesimo compleanno”, ora in W. BENJAMIN, Avanguardia e rivoluzione, trad. di  A. Marietti  Solmi, Torino, Einaudi, 19732, p. 46.

(19) P. VALÉRY, “L’anima e la danza”, in Poesie cit. , p. 173.

(20) Non a caso, Giorgio Agamben nella sua Introduzione (” L’Io, l’occhio, la voce”) all’ed. it. di Monsieur Teste già citata pone l’accento sull’importanza della Dioptrique cartesiana per i futuri sviluppi teorici dell’impresa intellettuale di Valéry. E, d’altronde, anche ne “L’anima e la danza” si legge: “Gli inganni, le apparenze, i giochi della diottrica intellettuale scavano e animano la misera sostanza del mondo” (p. 193). Visione ed essere, immagine e sostanza si inseguono continuamente nella ricerca valéryana della totalità.

(21) P. VALÉRY, Cahiers, II, Paris, Gallimard, 1974, p. 253. Sono debitore di questa citazione in relazione alla lettura dell’ottimo saggio del compianto G. GABETTA, “La costruzione dell’ “Immemoriale” in Paul Valéry “, in “Nuova Corrente”, (XXXII), 1985, pp. 485-510. Di Gabetta va tenuto presente, inoltre, “La scepsi verso la storia.  Sul Valéry di Löwith”, in “aut-aut “, 222 (1987), pp. 39-50,  significativamente dedicato alla rilettura del miglior libro finora dedicato a Valéry “filosofo” (cfr. K. LÖWITH, Paul Valéry, trad. it. di G. Carchia, Milano, Celuc Libri, 1986).

(22) P. VALÉRY, L’idea fissa cit. , pp. 63-64.

(23) Sul medico come “maschera” in Valéry, cfr. V. MAGRELLI, “La figura del medico nell’opera di Paul Valéry”, in “Saggi e ricerche di letteratura francese”, (XXIX), 1990, pp. 203-214. Interessanti anche gli spunti di riflessione contenuti in A. PIZZORUSSO, “Valéry e l’idea di soggetto”, in Aa. Vv. Figure del soggetto, Pisa, Pacini, 1996, pp. 93-121.

(24) P. VALÉRY, “L’anima e la danza” cit. , p. 188.

(25) Sull‘ Implesso, cfr. G. GABETTA, “La costruzione dell’ “Immemoriale” in Paul Valéry” cit. e R. VIRTANEN, “Valéry’s Reflections on Discovery and Invention”, in “Kentucky Romance Quarterly “, (XXVII), 1980, pp. 105-119. Buoni spunti anche in H. KAAS, “Der Dämon der Möglichkeit. Bemerkungen zui Methode Valérys”, in “Akzente”, (XXVII), 1, 1980, pp. 47-56. Importante per l’insieme di tutta questa tematizzazione nell’ambito della poesia di Valéry è il volume di N. BASTET, Valéry à l’extrême. Les au-de-là de la raison, Paris, L’Harmattan, 1999.

(26) P. VALÉRY, L’idea  fissa cit. , pp. 78-79.

(27) V. MAGRELLI, Introduzione a P. VALÉRY, L’idea  fissa cit. , p. 16. Lo scritto introduttivo di Magrelli, pur essendo molto chiaro e spesso assai perspicuo nella ricostruzione storica e teorica, manca, tuttavia, il confronto “filosofico” (e decisivo !) con Il Cimitero marino.

(28) P. VALÉRY, L’idea  fissa cit. , p. 64.

(29) Ibidem.

(30) P. VALÉRY, “L’anima e la danza”, in Poesie cit. , pp. 172-173.

(31) Ibidem.

(32) Per una buona introduzione all’opera di Degas, cfr. D. CATTON RICH, Degas, Milano, Garzanti, 1960 (con un’amplissima appendice iconografica). Per aneddoti e notizie biografiche su Degas, cfr. M. SÉRULLAZ, Degas. Donne, Milano, Mondadori, 1959 (che raccoglie tutti i ritratti di donna dipinti da Degas).

(33) Cfr. P. VALÉRY, Degas danza disegno, trad. it. e cura di B. Dal fabbro, Milano, Feltrinelli, 1980.

(34) Le citazioni precedenti sono tratte rispettivamente da: P. VALÉRY, Il cimitero marino, trad. it. e cura di M. T. Giaveri, Milano, Il Saggiatore, 1984, p. 66 ; Valéry tradotto da Manlio Dazzi, Firenze, Collana bilingue di poesia dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, 1968, p. 35 ; P. VALÉRY, Poesie cit. , p. 139 ; P. VALÉRY, Il cimitero marino, trad. it. e cura di  M. Tutino, Torino, Einaudi, 1966, p. 23.

(35) Sulla numerosa schiera dei traduttori del Cimetière marin, cfr. la pertnente analisi di Corrado Pavolini, autore – con il foscoliano pseudonimo di Jacopo Darca – di una “Nota per sette traduttori italiani del Cimitero marino” : Folco Gloag, Corrado Pavolini, Maria Algranati, Beniamino Dal Fabbro, Mario Praz, Renato Poggioli, Oreste Macrì “, in “Poesia”, 7, 1947. Ma l’elenco è sicuramente più folto: oltre quelli già citati, vanno aggiunti Diego Valeri e Mario Luzi.

Particolarmente rilevante la trad. it. di Oreste Macrì, autore anche di un bel libro sul poema di Valéry (Il “Cimitero marino” di Paul Valéry, Firenze, Sansoni, 1947, poi  Firenze, Le Lettere, 1989).

(36) Potrebbe trattarsi (come acutamente propone la Giaveri) della traduzione poetica di un verso di Pindaro : ταν δ’ έμπρκτον αντλεί μαχανάν. Su questa proposta di lettura, cfr. P. VALÉRY, Il Cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 132. Ma ciò non esaurisce certo la riflessione sul significato della proposta contenuta nel verso di Valéry.

(37) P. VALÉRY, Monsieur Teste cit. , p. 61.

(38) P. VALÉRY, Monsieur Teste cit. , p. 63.

(39) VALÉRY, Monsieur Teste cit. , p. 45.

(40) Sulla trasformazione quasi immediata dell’emistichio in oggetto in un cliché, cfr. le Note al testo in P. VALÉRY, Il cimitero marino, versione e commento di M. Tutino.cit. , pp. 49-50. Gide utilizzò il verso come chiusura di una parte del suo Journal ; Archambault lo riprese in un articolo su Gide, attribuendolo a Gide stesso. Nella sua lettera di risposta a Gide che gli esponeva queste vicende, Valéry affermò che il verso era stato ” une émission spontanée, sans difficulté, donc … sans père”.

(41) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 64.  Si tratta dei versi 112 e 114.

(42) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 66, v. 116.

(43) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 66,  v. 118.

(44) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 64 ,  v. 101 (Ma présence est poreuse – scrive Valéry con una ellissi poderosa assai difficile a rendersi in italiano).

(45) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 64 ,  v. 103.

(46) G. DELEUZE, Logica del senso, trad. it. di  M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli, 19792, p. 72.

(47) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 67, v. 121.

(48) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit.,  v. 124.

(49) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , vv. 125-126.

(50) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 64 ,  v. 127.

(51) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di  M. T. Giaveri cit. , p. 64 ,  v. 128.

(52) Sulla fitta tessitura di rimandi e di intuizioni dei Cahiers di Valéry, cfr. almeno il saggio pioneristico di A. PASQUINO, I “Cahiers” di Paul Valéry. Una scienza in forma di metafora, Roma, Bulzoni, 1979.

(53) P. VALÉRY, “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci”, in Varietà cit. , p. 32.

(54) ” E se parlassi un po’ della danza, a proposito del pittore delle ballerine ?” (P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 29).

(55) P. VALÉRY, L’Idea fissa cit. , p. 50.

(56) Ibidem.

(57) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 243.

(58) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 245.

(59) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 251.

(60) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 242.

(61) P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 20 e p. 26.

(62) P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 31. Sulla densità ipnotica della danza e dell’apparition (in riferimento sostanzialmente alla Lulu di Frank Wedekind e alla sua interpretazone teorica, anche se con accenti e punti di riferimento assai diversi dai miei), rimando a R. GENOVESE, Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva, Napoli, Liguori, 1983, pp. 48-49.

(63) P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 110.

(64) L. PAREYSON, Estetica. Teoria della formatività, Bologna, Zanichelli, 19602, p. 284. Cfr. anche e in vista di un più ampio inquadramento teorico, p. 55 e sgg.  Sullo stesso arco dinamico di problemi, cfr. altrsì L. PAREYSON, L’esperienza artistica, Milano, Mursia, 1974 ; E. PACI, Relazioni e significati, III. Critica e dialettica, Milano, Lampugnani Nigri, 1966 ; F. MASINI, “Nota sulle poetiche di Paul Valéry”, in “Letterature moderne”, (X), 1, 1960; A. TRIONE, Valéry. Metodo e critica del fare poetico cit. e  ID. ” Oltre il simbolismo”, in  A. TRIONE – M. T. GIAVERI – G. PANELLA – G. LOMBARDO, Paul Valéry e l’estetica della poiesis, a cura di M. T. Giaveri, Palermo, Aesthetica Preprint 23, 1989, pp. 5-23.

(65) S. GIVONE, “Il destino dell’arte secondo Paul Valéry”, in Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento, Milano, Mursia, 1974, p. 24.

(66) Sulla genesi arbitraria e del tutto fortuita del Cimetière marin, cfr. le narrazioni (certo non del tutto attendibili) poi esibite da Valéry stesso e riportate in “A proposito del Cimitero marino” in Varietà cit. , pp. 261-272 e le testimonianze raccolte nel prezioso commento di M. T. Giaveri alla sua edizione del poemetto  (Il Cimitero marino cit. , pp. 35-55).

Ne riporterò soltanto una: “Nel Cimetière marin , ricordo di aver formato delle strofe come si combinano masse, colori, o atomi (in una molecola). Strofe suggerite, nella loro tonalità, dall’equilibrio generale, voluto tanto da me quanto dall’opera al momento T (che si componeva allora di quel che era già “fatto” e di quel che poteva – doveva – sembrava di essere fatto, il DA FARSI ” (in  P. VALÉRY, Cahiers, tomo XXIII, Paris, Éditions du C. N. R. S. , 1961, p. 205).

(67) H. R. JAUSS, Apologia dell’esperienza estetica, trad. it. e cura di C. Gentili, Torino, Einaudi, 1985, p. 22.

(68) R. THOM, “La modélisation des processus mentaux : le “Système” valéryen vu par un théoricien des catastrophes”, in Aa. Vv. Fonctions de l’esprit. Treize savants redécouvrent Paul Valéry, Paris, Hermann, 1983, p. 194.

(69) R. THOM, “La modélisation des processus mentaux : le “Système” valéryen vu par un théoricien des catastrophes”, in  Aa. Vv. Fonctions de l’esprit. Treize savants redécouvrent Paul Valéry  cit., p. 203.

(70) S. GIVONE, “Il destino dell’arte secondo Paul Valéry”, in Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento cit. , p. 33. La citazione da Valéry è in Oeuvres, I, Paris, Gallimard, 19772, pp. 990-991.

(71) P. VALÉRY, “La giovane Parca”, in Poesie cit. , p. 71.

(72) P. VALÉRY, “Palma”, in Poesie cdit. , p. 146.

 

 

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Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.