Dall’”Introduzione” a “Come per una congiura. Il carteggio Contini-Sinigaglia” a cura di Gualberto Alvino

Gianfranco Contini-Sandro Sinigaglia, Come per una congiura. Gualberto AlvinoGianfranco Contini-Sandro Sinigaglia, “Come per una congiura. Corrispondenza (1944-1989)”, a cura di Gualberto Alvino, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2015.

_____________________________

di Gualberto Alvino

.

La corrispondenza tra Gianfranco Contini e Sandro Sinigaglia[1] — iniziata nel 1944 e protrattasi quasi ininterrottamente fino al 1989, a pochi mesi dalla scomparsa d’entrambi — costituisce una vistosa eccezione nel folto epistolario del Domese, scaturendo non già, come negli altri casi, da ragioni d’ordine letterario o professionale, ma da un’attrazione indomabile, un’amicizia virile durata mezzo secolo senza l’ombra d’un attrito e scoccata da un «gesto» altrettanto istintivo che disinteressato compiuto all’insegna del pericolo e dell’avventura in uno dei frangenti più dolorosi della nostra storia nazionale.

Ottobre 1944: dopo sole cinque settimane la Libera Repubblica dell’Ossola — di cui Contini è magna pars quale segretario del Partito d’Azione, membro del Comitato di Liberazione, infaticabile propagandista politico con saggi articoli appelli al calor bianco — sta per cedere sotto i colpi delle truppe italo-tedesche; il filologo è costretto a un precipitoso rientro con gli anziani genitori a Friburgo, nella cui università insegna dal 1938, per sfuggire alle rappresaglie e alle razzie dei cinquemila fascisti locali — muniti di tre cannoni, cinque carri armati e dieci autoblindo — che stanno rapidamente riconquistando l’intero territorio. Prima di riparare anch’egli in Svizzera il ventitreenne Sinigaglia, fuoricorso di Lettere alla Statale di Milano e partigiano della neonata Brigata Matteotti, riesce, non richiesto, a porre in salvo l’ingente biblioteca dell’amico («migliaia di opere in edizione unica, per me destinatario, nate in un’illusoria sicurezza», l. 2) nel Convento dei Padri Rosminiani al Monte Calvario di Domodossola trasportandola su un carretto con l’aiuto di due chierici; qualche ora dopo la casa di via Vagna 4 viene saccheggiata e completamente distrutta.

Scrive Contini, tra meraviglia e riconoscenza per l’inatteso «atto gratuito»:

Mio caro, con quel tuo gesto d’amicizia mi hai cucito a te: me, che non hai avuto modo di conoscere, che non sono quasi esistito per te, al quale hai voluto bene fiduciariamente, fuori d’ogni mio merito. Reagisco a un tuo atto gratuito. Il tuo gesto vale naturalmente all’infuori del suo contenuto e d’ogni mio senso di proprietà. Oggettivamente, era meglio salvare l’accendigas, lo specchietto di cucina; le cose care ai miei. E qui vorrei poterti scrivere a lungo e disperatamente su questo tema: che sono contento di quello che ho fatto, che ricomincerei, che non me ne pento; che era indispensabile che, come individuo pubblico, agissi così; ma mi domando se, come individuo privato, avevo poi tutti i diritti di avere quel dovere […]. Scusa, tu solo, proprio per la materia di quello che hai fatto, potevi ricevere questo sfogo […]. Spero che l’Italia e l’umanità abbiano molta gente come te. Questa è, dopo tutto, l’esistenza di Dio, che io abbia amici di questo genere. [l. 1].

Il carteggio si apre con una lettera di Sinigaglia datata 3 ottobre 1944: è a Bellinzona, costretto a letto da un ascesso, in attesa d’esser destinato a un campo di quarantena; evidentemente Contini deve avergli offerto il proprio aiuto per la sua definitiva sistemazione in Svizzera se gli scrive: «Ti dirò di “ungere” quando le pratiche cominceranno ad avere una parvenza almeno embrionale». Venti giorni dopo viene trasferito al campo Francesco Soave presso il Collegio dei Padri Somaschi della capitale ticinese: snervato dal tedio e dal torpore dell’isolamento, rende al corrispondente un asciutto ragguaglio dei suoi ultimi giorni ossolani, deplorando con veemenza l’inadeguatezza dei capi partigiani e l’«insufficienza morale» dei loro uomini durante la ritirata:

Dopo averti lasciato, e dopo aver provveduto ai tuoi “De-Pisis” (restavano due scaffali di libri che i chierici del Rosmini mi promisero di ritirare l’indomani) ho raggiunto Sandro Beltramini a Miggiandone. Da Miggiandone sono cominciate le mie peripezie, che si sono concluse, dopo un accerchiamento e dopo sfibranti ed insulse marcie forzate, sabato 21 al Passo S. Giacomo. Esperienza negativa sotto tutti i punti di vista: altro non è emerso se non la somma insipienza dei capi, l’insufficienza morale degli uomini, la disgustosa coreografia della ritirata. Rimpiango di non averti seguito l’indomani oltre Sempione. Oggi non mi sono presenti che le mie ossa rotte, il ricordo di un bagno forzato nel Toce, uno sparuto e lercio corredo di profugo. Si distende infatti davanti a me, la noia opprimente del campo di quarantena che, per esperienza diretta, mi sa assopire in un letargo inumano e passivamente indegno. Posso solamente sperare che la burocrazia si sia sveltita e che le pratiche di liberazione seguano un ritmo più spedito di quello dello scorso ottobre, e poi tengo, come un bambino, nascosta, la fede in un “miracolo fatale” che tolga improvvisamente fiato alla macchina tedesca. [l. ii]

Contini non cessa un istante di seguire con apprensione paterna (gli è maggiore di ben nove anni), mista a senso di colpa per la propria condizione privilegiata, le vicende del giovane amico («in questo momento […] un sacerdote ha chiesto a tuo nome di me, consegnandomi […] buste cartoncini e sigarette», l. ii). Il 25 ottobre, dopo giorni d’ansia e «terrore», apprende da terzi dell’avvenuto passaggio in Svizzera e gli comunica da Friburgo la propria esultanza, dichiarandosi pronto a garantire per la sua liberazione (l’internato nei campi elvetici poteva vivere in regime di semilibertà a patto di depositare presso la Banca Popolare Svizzera la somma di 5000 franchi o di produrre l’avallo d’un garante disposto a farsi carico del suo mantenimento):

finalmente (e del resto contemporanea di altre tristi) una buona notizia. Avevo sguinzagliato sicarî in tutti i punti strategici a speculare tue nuove. Aveva funzionato l’agente dell’Alta Leventina, segnalandomi, dietro informazioni d’un prete che ti conosce (don Gaudenzio?), che tu non eri ancora entrato: mio terrore al «non ancora». Poi funzionò telefonicamente l’agente di Bellinzona, l’arcigno (io credevo) tipografo Salvioni […]. Ma stai sicuro che verrò a raggiungerti appena ci sia una possibilità fisica (me ne informerai, vedi sopra indirizzi); e chiedimi, ti prego, di fare qualcosa per te. Una garanzia? Non oso sperare che tu voglia farti liberare a Friburgo: servirebbe, per molte ragioni, a me; ma certo con tua noia. [l. 1]

Intanto, per alleviargli il più possibile la pena, non potendo raggiungerlo di persona («Se tu fossi assolutamente visibile, correrei», l. 2) lo affida alle cure dei proprî emissarî («Se rimani un po’ a B. [Bellinzona], per qualunque cosa ricorri al Salvioni», l. 1), gl’invia ogni settimana libri, generi di prima necessità, versi[2] e soprattutto scritti politici appena licenziati, cui il rifugiato — come lui infiammato da passione civile — aderisce plenariamente:

Coraggio invece mi rivela più di tutta la poesia che mi hai recapitato il tuo «manifesto programma». Mi pare che veramente schiuda la sola possibilità di un ultimo sforzo europeo, e che, proprio perché impegnativo di tutta la complessità della nostra vita, possa ancora parlare alla dignità almeno di noi europei. Forse non mi spiacerebbe di vedere teoricamente legati e magari anche subiettivamente illuminati gli impegni riassuntivi dell’ultima parte, o di potere leggere una conclusione che ribadisca la fede, nel conquistato amore, di una tua posizione immanentistica e rigoristicamente unitaria. Ed altro non posso aggiungere, se non l’identità perfetta del mio punto di vista, o meglio la mia platonica esperienza attraverso la tua sistematica ed ordinata esposizione. [l. v]

Il 29 ottobre Sinigaglia lo ringrazia della garanzia che ha voluto offrirgli: se ne gioverebbe volentieri «se la bigotta Friburgo non la dovesse cedere alla lacustre Neuchâtel, per certa obbligazione nei riguardi del mio garante» (l. iii). I documenti prodotti per il trasferimento non sono però ritenuti sufficienti dalle autorità svizzere e a dicembre è sbalzato a Lugano: un internamento, rispetto alle recenti esperienze dei campi, nientemeno che «gaudioso», avendo ancora le caratteristiche «delle misure precauzionali adottate da una polizia prebellica» (l. vi). Ma poco dopo una notizia drammatica: la Zentralleitung (Direzione centrale delle case d’internati) ha stabilito senza appello che la prossima destinazione sarà un campo di lavoro. Non che cedere alla disperazione («ho una repellenza eccessiva per tutto ciò che sa di campo d’internamento» aveva scritto nella l. iii), il ragazzo medita di lasciare la Confederazione per entrare in clandestinità e passare all’azione «come oggi si richiede»:

Intanto, ma per carità! prescindendo da qualsiasi intolleranza fisica per questo intermezzo che si prolunga, comincio a sentirmi sobillato pensando al ritorno. Se uno se la sente, laggiù c’è da fare. È una sorta di agnizione che sgretola la passività degli argomenti razionali, ed anzi si incendia di tutto l’odierno e giustificato pessimismo. [l. ix]

L’inerzia di qui comincia ad essere difficilmente scontabile, e non sarei alieno dal troncare l’avventura svizzera (è una vera e propria avventura dei nervi nel vuoto) per iniziarne una nuova almeno più immediatamente pericolosa. Anche per parlare con te di ciò, ho bisogno di vederti, e poi per altre cose, per ritrovare infine un po’ di spirito, o più esattamente lo “spirito”. [l. x]

Il nuovo anno si apre sotto migliori auspici: la mise en liberté sembra imminente:

Ho nel frattempo ricevuto quei famosi moduli del fese, che subito ho spedito. Dunque stavolta…! E poi il 24 si avvicina, e per questa data la lettera d’accompagnamento del fese, mi ha assicurato di adempiere a tutti i suoi impegni. / Fra qualche giorno sarò dunque da te, a Friburgo. Ti abbraccio, mio caro, e coraggio, mi pare cominci a fare difetto un po’ dappertutto. [l. xii]

Ma, a fine gennaio, l’irrevocabile decisione del salto:

Sono […] convinto e soddisfatto di prendere il mio posto là, dove penso di poter godere il privilegio di vivere come oggi si richiede. […] Questa avventura, se mi sarà concesso di viverla […] potrebbe essere anche un reagente contro certi incantesimi della mia irresoluta e pertinace adolescenza, contro la mia paura della Poesia. […] Non vedo l’ora di poter schizzar via di qui. Mi pare che i Russi possano arrivare prima di me, ed un simile ritardo francamente mi seccherebbe. [l. xiii]

se parto tu sai che è anche perché ti voglio bene veramente. E me ne vado, caro Gianfranco, racchiudendo tenacemente nel cuore la speranza di incontrare qualcosa di valido come l’esperienza dell’adolescente, l’incremento di un amore, una tendenza spirituale. A questi atti non possiamo rivolgerci con diverso intendimento. Fa dunque voto che una sorta di abitudine e di languore — quanta familiarità con la pigrizia! — se i giorni che dovrò contare laggiù minacciassero ancora di coprire le nostre speranze, non possa scomunicarmi, accusando magari di egotismo le mie intenzioni. È tanto difficile la nostra odierna posizione, ed anche tanto ambigua, che se propio dovessimo toccare che solamente il rumore della battaglia ha sollevato il nostro tumefatto intellettualismo, come le donne sentono un fremito quando vedono i soldati andare alla guerra, dovremo un giorno maledirci e sentirci definitivamente perduti. […] Si, Milano, che attendo di scoprire come un marinaio, le case rotte, il clima torrido, gli uomini nudi, tutta la bava di questo terrore mi fanno impressione, ma propio vorrei attutire simili sensazioni sino a ridurmi alla modestia del compito, alla vigile attesa di maturare la nuova forza che attendiamo. E sono felice di poterti francamente dire che parto con naturalezza e senza esitazione. [l. xiv]

ho trovato, stamattina, una lettera “fatale” di Carletti. Il professore, a quest’ora, sarà ormai a M. [Milano], ed ha aperto la strada. Io dovrei chiudere la serie, ed essere a Lugano il 9 per saldare definitivamente il conto della penitenza, di domenica, l’undici. E va bene. E classifichiamo pure l’altro codicillo della lettera che mi ingiunge, per un circostanziato caso di eccezionalità, di prendere la strada dei monti, per raggiungere una formazione. [l. xxiii]

Sennonché, l’annuncio d’un refoulement e insuperabili ostacoli di natura burocratica pongono fine a ogni progetto di resistenza clandestina. Il 5 febbraio scrive amareggiato da Neuchâtel (dove rimarrà fino a maggio inoltrato): «con l’ultima parte del mio viaggio, ho smobilitato tutte le mie cariche» (l. xviii).

In primavera l’esercito tedesco abbandona definitivamente l’Italia settentrionale. Sinigaglia rimpatria e accetta a malincuore di dirigere una delle officine dell’industria paterna di gemme sintetiche per orologi rinunciando all’attività letteraria a tempo pieno che ha sempre desiderato («Mi si vuole a far buchi, pare, a raddoppiare, a triplicare ed io che avevo sperato di tornare con l’inverno a quelli ragazzoneschi per i quali solo mi sento nato», scriverà più tardi nella l. cxix). L’Italia è allo sbando: il sogno della «estrema socialistica libertà» che i due hanno sempre condiviso rischia d’infrangersi contro il riflusso, la cieca violenza di massa, l’individualismo:

Come trasale in odio, quasi bollente, quello stratificato e sostanzioso amore che ci riempiva la carne, a spasso, nei dintorni di Friburgo! Ah! che v’è già tempo per riguardare quelle speranze! Ho visto troppi dei compagni che non eran vanesii con l’occhiello della giacca deflorato parlare troppo sguaiatamente di giustizia, e c’è intorno un sentore di vizio sommosso e sbandierato che si respira con mostruosa facilità. […] Ti aspetto, caro Franco, dirti di me, ora, non vale. Faccio l’isolato tra le seghe diamantate che tagliano l’agata ed i cartellini dei più capricciosi costi di produzione. [l. xxx]

io e gli amici nostri ci sentiamo battuti e disarmati, da tanta impudenza, ma così assurda, così inaudita da rimanere perplessi, interroganti, sbalorditi fino al ridere. Anche i contatti vanno diradandosi; vien meno l’amore, la forza di fare, e ciascuno si allontana per ritrovare il suo nido d’una volta. [l. xxxi]

La persuasione che solo Contini possa riaccendergli fiducia e speranza sul piano sia politico che personale si fa via via più radicata («Da qui ti dico, con lo stesso eroico affanno dei tempi di Friburgo e Neuchâtel, che ti attendo, come per una congiura», ivi), mentre l’affetto diventa amore esclusivo, poco meno che morboso, per presto sublimarsi in vera e propria venerazione: «Mio rifugio rifugio rifugio nido notturno» (l. xx); «solamente tu mi puoi aiutare» (l. xxii); «Volevo dirti che c’è una sorta di fedeltà più forte ancora di tutto il bene che ti voglio» (l. xxxviii); «Tu sei la Fortuna della mia esistenza!» (l. lix). Frattanto cerca in ogni modo di sottrarre al lavoro qualche momento («Tengo fede all’impegno della fabbrica, e sono oramai così cabalisticamente posseduto da non poter differire un solo mattino», l. xxxiii) per leggere di politica e letteratura, comporre versi (accolti con entusiasmo dall’altra sponda: «Se tu non avessi fretta per i tuoi prodotti di poivhsi~, vorrei sistemarteli bene», l. 6; e più tardi: «Facesti male a lasciare gli ultimi minuti per l’esame dei ‘prodotti’, i quali erano di ottima confezione. Probabilmente sei il solo surrealista d’Italia», l. 27), «sbrigare» gli ultimi esami e attendere alla stesura della tesi di laurea, che Contini gli suggerisce di svolgere su Piero Gobetti:

in questo quasi orgasmo mi ci hai messo tu; e dovevo crederlo prima, che quanto mi proponevi doveva riuscire a una cosa così affascinante. […] forse di comunicare attraverso il presentimento delle mie deficienze, di arrivare a Gobetti attraverso la mia debolezza, mi pare sia una posizione perfettamente equilibrata: e tale romanticismo si può anche giustamente difendere. Poi verranno anche i tuoi lumi [l. lii]

Malgrado le insistenti esortazioni di Sandro, che lo vorrebbe ai vertici del Paese nella delicata fase ricostruttiva:

pensavo quanto fosse assurdo che tu dovessi attendere un’occasione per conoscere il comandante A. mentre sarebbe stato così naturale che il comandante A. attendesse da te proposizioni e concrete ispirazioni. E se anche quella che io chiamo «la giovialità» di Capitini, che pure mi ha completamente conquistato, agisce direttamente in chi ascolta meglio della tua estrema lucidità, non ho potuto tralasciare di mettere a confronto il suo discorrere e le tue precisazioni ben più stringenti e quelle che sarebbero anche le tue differenti capacità tattiche. Io non conosco i grandi che si danno da fare in questo momento, ma non credo di sbagliarmi se, tranne i pochi che attraverso te ho conosciuto, il manipolo principale si compone di molti professori Loria. […] quando Terracini, alla casa d’Italia di Lugano qualche volta, richiesto del suo punto di vista si è lasciato andare a farci la storia del suo punto di vista, ho pensato che solo il tuo contradditorio poteva reggere, e largamente, il peso della sue convinzioni. Ora che verso di te si faccia dell’ostracismo mi pare cosa da non potersi tollerare, e francamente mi stupisce che gli amici del PdA non abbiano, in fondo, mai pensato a te. [l. li]

nel ʼ46 Contini, deluso dall’ingratitudine dei compagni dell’ala sinistra del Partito d’Azione, dall’incipiente «spartizione dei poteri»[3] e dalle ingenuità del suo antico sodale, il teorico della non violenza Aldo Capitini («l’esperienza più decisiva è quella che feci con Aldo Capitini — dirà nel 1988 in una lunga intervista —. […] quando l’Italia fu liberata, […] l’orientamento di Capitini non mi soddisfece più, nei riguardi dei partiti in particolare. […] Sarà che, evidentemente, non sono adatto alla vita politica nel senso partitico»[4]), comincia a dubitare seriamente di voler prolungare l’impegno sociale attivo[5]:

La tua lettera mi ha gettato nel più profondo imbarazzo. Hai certamente ragione in un punto, che i paglietta del PdA potevano utilizzarmi, invece d’ignorare totalmente la mia esistenza. Se io fossi entrato o entrassi mai nel P.C., puoi star certo che si servirebbero di me, nel limite delle mie possibilità tecniche. Ma io, che comincio a capire che significhi una tecnica in letteratura e, diciamo così, in scienza, ho perfetta coscienza di essere uno scolaretto, in politica. Forse, se me n’occupassi tutto il giorno, qualcosa riuscirei a combinare, ma l’imbecillità ambiente ed endemica può rialzare il mio valore relativo, non assoluto. E c’è qualcosa di più grave. Non sento la necessità del mio operare nei miei due citati settori professionali: ti par possibile che con l’umiltà si possa raggiungere qualche risultato in politica? […] Capitini […] ha mandato a me e a qualche altro amico un manifesto per il giornale, che in realtà è un manifesto per il suo chiodo del momento, il Piano sociale. È un documento d’ingenuità allarmante, costernante. Gli ho esposto le mie obiezioni, assolutamente eversive, in una lunga lettera. [l. 25]


NOTE

[1] Alessandro Sinigaglia nasce il 28 aprile 1921 a Oleggio Castello (Novara) da padre lombardo e madre di Masserano (Biella), figlia del medico condotto, nella cui biblioteca il piccolo Sandro trascorrerà ore felici («Conobbi il fascino orroroso della patologia, la famiglia immane dei polisarcidi e degli splenomegalici, gli idrocefali, le contratture della paralisi agitante, la malattia di Recklinghausen, la porpora, il mixedema, la leucemia linfatica, lo scorbuto, il beriberi, l’aneurisma gigantesco dell’aorta, […] la realtà della parola come cosa verbale in sé e per sé autonoma, m’era entrata dentro», Breve anàmnesi). Compie gli studî ginnasiali ad Arona e liceali a Novara. Nel 1939 si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia della Statale di Milano, ma lo scoppio della guerra lo costringe a lasciare gli studî. Antifascista, nel biennio 1943-44 partecipa alla guerra di liberazione dell’Ossola militando nelle Brigate Matteotti. Nel 1944 ripara in Svizzera. Accantonata a malincuore l’idea di una tesi su Piero Gobetti suggeritagli da Contini, nel 1947 si laurea in Estetica con Antonio Banfi su Italo Svevo, quindi entra nell’industria di gemme sintetiche per orologi diretta dal padre Luigi assumendo la direzione di uno degli stabilimenti. Nel ʼ54, per la mediazione di Contini, pubblica nella «Biblioteca di Paragone», diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, la sua prima raccolta, Il flauto e la bricolla, che passa completamente inosservata. Sempre grazie a Contini insegna italiano e latino al Liceo scientifico del Collegio Mellerio Rosmini di Domodossola fino al 1960. Nel 1968, con l’introduzione degli orologi al quarzo, l’azienda subisce un tracollo e Sinigaglia si trasferisce con la famiglia a Milano, dove Contini gli trova un impiego prima alla De Agostini, nella redazione dell’Enciclopedia Universale, poi alla Fabbri Editori, infine, nel 1974, presso la casa editrice Ricciardi di Raffaele Mattioli, dove il poeta lavora intensamente alla collana dei «Classici italiani», al Folengo e al Pascoli, curati rispettivamente da Carlo Cordiè e Maurizio Perugi. Nel 1979 si dimette per stabilirsi definitivamente ad Arona, nella casa di Corso Cavour 90. Il 12 settembre 1990 muore di cancro polmonare, appena sette mesi dopo la scomparsa di Contini. Tutti i suoi versi, inclusa Breve anàmnesi, sono raccolti in Poesie, introduzione di Silvia Longhi, testi e glossario a cura di Paola Italia, Milano, Garzanti, 1997.

[2] La produzione poetica edita di Contini (un’infima quota dell’inedita) è ora raccolta in Id., Poesie, a cura di Pietro Montorfani, Torino, Nino Aragno Editore, 2010.

[3] «I partigiani, certo, entusiasmavano la popolazione, perché si riconosceva nei suoi figli, era liberata dai suoi figli… Ma il ritorno fu poi troppo politicizzato: la spartizione di poteri, che ora abbiamo naturalmente con altre percentuali, era vivace anche allora… Ricorderà la divisione in cinque o sei… paritetica!» (Diligenza, pp. 83-84).

[4] Ivi, pp. 81-82.

[5] «feci il mio mestiere e cercai di farlo il meno male possibile. Forse questo è già un’attività pubblica e, in qualche modo, un’attività politica» (ivi, p. 85).

[contact-form][contact-field label=’Nome’ type=’name’ required=’1’/][contact-field label=’E-mail’ type=’email’ required=’1’/][contact-field label=’Sito web’ type=’url’/][contact-field label=’Commento’ type=’textarea’ required=’1’/]


[/contact-form]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.