Crepuscolo del berlusconismo: e poi?

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di Giuseppe Panella

«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»
(Carl Schmitt, Teologia politica)

Le dimissioni di un premier non sfiduciato dalla maggioranza che lo sostiene in Parlamento sono, nell’ambito di una repubblica parlamentare non presidenziale, un caso anomalo e comunque di estrema rarità: un simile evento presuppone e profila l’esistenza di uno “stato d’eccezione”.  E’ quanto è accaduto in Italia quando il 12 novembre del 2011 il Premier è salito al Quirinale per rassegnare il proprio mandato istituzionale nelle mani del Presidente della Repubblica.
Pur non avendolo proclamato in maniera ufficiale, l’evento prodottosi con le dimissioni del Capo del Governo non era altro che la conseguenza “naturale” della proclamazione di uno “stato di eccezione” dovuto, tuttavia, non a una crisi politica ma alla Grosse Krisis economica dell’ inizio del nuovo secolo. A sfiduciare Berlusconi, di conseguenza, non sono stati i parlamentari dell’opposizione e/o della sua maggioranza quanto i mercati finanziari che sancivano in questo modo la rimessa in discussione della politica economica attuata in maniera inadeguata dal suo governo. A che cosa preluda tutto questo non è ancora facile definirlo e delinearlo con sicurezza; si possono fare, tuttavia, delle facili previsioni. Dato che sarà impossibile nel periodo breve rilanciare il modello di sviluppo del Paese ancora basato sull’industria meccanica (le automobili FIAT, ad es., ma anche tutto il comparto siderurgico) e sostituirlo con qualcos’altro, la soluzione verrà non a livello di incremento produttivo ma a livello di gestione finanziaria con la conseguente estorsione di nuovi capitali a mezzo di tassazioni straordinarie, tagli alla spesa pubblica, riduzioni di salari e stipendi e pensioni, sostanziale smantellamento del welfare e di riduzione dei diritti generali (alla sanità, allo studio, alla cultura) previsti precedentemente. Questo carico di nuovi balzelli e di riduzioni di reddito effettivo si accoppiano a qualcosa che è ugualmente inedito nel panorama della storia politica della Repubblica Italiana: la caduta di un Presidente e l’investitura di un altro che lo sostituisca è avvenuto non attraverso il coinvolgimento dell’opinione pubblica e il suo consenso (rappresentata in Europa e da sempre a partire dall’età moderna dall’intervento dei partiti che della Public Opinion si sono fatti gestori nell’ottica di una rappresentatività diffusa e accettata dai loro rappresentati) ma come arbitrato di carattere presidenziale, di una figura terza (per dirla sempre con Carl Schmitt) che ha imposto una figura altrettanto terza.
La crisi di legittimazione dell’organo rappresentativo del paese, il Parlamento, non avrebbe potuto essere più esplicita. Strumento legislativo regolarmente eletto e quindi legittimo, la sua legittimità è venuta meno pur non mancando la sua legalità istituzionale (legalità e legittimità – come è noto – sono i due termini della riflessione sulle istituzioni statali che caratterizzano le pagine di Economia e società di Max Weber relative all’analisi del potere e delle sue forme all’interno degli organismi statuali). L’atto intervenuto con le dimissioni imposte dal Presidente della Repubblica al Capo del Governo, allora, pur mantenendo intatta la legalità del Parlamento in carica, ne ha vulnerato la legittimità in quanto imposta da eventi esterni e non dalla sua dinamica interna. Si è trattato – come si diceva prima – di uno “stato d’eccezione” imposto da eventi non riconducibili alla sfera della dialettica parlamentare ma esterni (anche se consustanziali) ad essa.
Come è potuto accadere questo senza che nessuno (o pochi) si levassero a contestare un atto che pure risulta formalmente e giuridicamente accettabile (anche se di questo costituzionalisti di chiara fama non appaiono molto convinti, a partire dall’emerito Gustavo Zagrebelsky)?
Il fatto è che questo atto richiede una riflessione sui limiti della democrazia italiana così come è venuta configurandosi a partire dai primi anni Novanta con la cosiddetta “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, già industriale d’abord del comparto edilizio e tycoon potente e consolidato nel settore delle comunicazioni commerciali di massa. Sulla sua ascesa in questo settore, il bel documentario Videocracy – Basta apparire del 2009 di Erik Gandini, non a caso un film di produzione svedese girato con materiali di repertorio spesso rari o poco divulgati che mostra in azione il metodo utilizzato dal suo principale protagonista (Berlusconi) per ottenere consenso attraverso la vendita della politica come merce di consumo.
Ma non è ancora questo il punto: la politica ridotta a merce comporta che i suoi protagonisti siano a loro volta in vendita. Ciò inficia il principio fondamentale della forma su cui si regge la gestione politica del Paese – la dipendenza degli attori della sfera pubblica dall’opinione pubblica che le elegge e li conserva e non da figure più o meno oblique, moralmente discutibili e giudiziariamente intatte che li gestiscono per i propri fini personali, di potere e di guadagno potenzialmente illegale.
E’ quello che in un suo libro recente (Che cos’è il berlusconismo. La democrazia deformata e il caso italiano, Roma, ManifestoLibri, 2011) Rino Genovese ha chiamato per l’appunto “democrazia deformata”. Questa definizione è in certa misura convincente anche se poi la sua analisi non appare granché centrata. Anziché disperdersi in rituali riferimenti al bonapartismo (Marx, Trotskij), alla psicologia delle folle (Le Bon, poi Freud) e alla personalità autoritaria di Adorno-Horkheimer, forse sarebbe stato più opportuno prendere come punto di riferimento lo Habermas di Storia e critica dell’opinione pubblica del 1961 – anche se la traduzione italiana è di dieci anni dopo (dove opinione pubblica traduce, per l’appunto, un termine-chiave della terminologia hegeliana e cioè Öffentlichkeit una volta meglio noto come spirito oggettivo).
Ma, a prescindere da questa “critica delle fonti”, quello che è veramente interessante è verificare se la democrazia italiana sia stata veramente “de-formata” a partire dalla fine degli anni Settanta in poi oppure no. Che sia stata “bloccata” dagli anni della gestione del Paese da parte di Bettino Craxi  è sicuro (e lo dimostra quella che all’epoca fu la decisa conventio ad excludendum nei confronti del Partito Comunista guidato da Enrico Berlinguer). Che sia stata de-formata successivamente in maniera sostanziale e reboante è possibile ma sarà necessario verificare le modalità di tale de-formazione. Quest’ultima è avvenuta in maniera lenta ma inesorabile proprio per effetto della trasformazione della sfera dell’opinione pubblica in arena della “società dello spettacolo” (giusta la classica definizione di Guy Debord nel 1967) prima e poi nel luogo della smodata soddisfazione degli interessi di chi avrebbe invece dovuto guidare la res publica in un’ottica di contemperamento delle proprie esigenze personali e delle lobbies interessate e spesso sotterraneamente collegate al proprio programma di gestione (e saccheggio) del Paese invece di pensare al c.d. “bene comune” della nazione. La caduta di ogni logica di governo generale allargato e la sua sostituzione con quella dell’interesse personale proprio e dei suoi ha portato ad annullare la valenza “pubblica” del Parlamento e alla sua sostituzione con una logica di tipo esclusivamente privatistico. Da cui la sua de-formazione d’uso e la fine della sua centralità come luogo di incontro-scontro tra le diverse componenti dell’opinione pubblica del Paese. Dopo che tutto questo era accaduto tanto a lungo e tante volte da trasformarsi in prassi consolidata, quanto è accaduto successivamente e la logica da eccezione politica che lo comportava è stato qualcosa che è scaturito quasi naturalmente e senza grandi proteste da parte di nessuno. Che cosa succederà ora? Lo strappo consumato una volta si ripeterà ancora o l’opinione pubblica conculcata potrà riprendersi i propri diritti precedenti – anche se duramente inclinati da decenni di corruzione e di “decisionismo” prima implicito e poi esplicito?

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FONTE IMMAGINE:  http://www.improntalaquila.org/wp-content/uploads/2011/11/berlusconi-monti.jpg

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.