SPECIALE GUIDO MORSELLI N.6: “ANTONIO PORTA LEGGE GUIDO MORSELLI. Quattro recensioni”, a cura di Francesco Sasso

di Francesco Sasso

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Indubbiamente, Guido Morselli non ha ricevuto in vita il giusto riconoscimento. A riguardo, Vittorio Coletti [1] parla di «sfasatura ideologica» e di codici narrativi. Infatti, non possiamo qui ignorare che Guido Morselli ha messo in discussione ogni certezza della sua epoca, rifiutando, ad esempio, il contemporaneo idealismo filosofico, così come ogni realismo o materialismo storico. Mentre sul piano letterario, Morselli prende le distanze dalle correnti letterarie dell’epoca: dal Neorealismo e dall’Avanguardia.

Antonio Porta in un articolo del 1976, a tre anni dalla scomparsa, cercò di dare una risposta al “caso”:

«Proprio l’inconsistenza delle motivazioni dei ripetuti rifiuti, o la loro luciferina sicumera, fa nascere un sospetto, che è come il sintomo rivelatore di una malattia che non si vuol rivelare. Questo: che consciamente o oscuramente, senza poterselo confessare, si sia voluto contrastare la sua incontrastabile intelligenza di scrittore e la sua carica inventiva, che se messe bene in evidenza avrebbero relegato nell’ombra i valori «correnti». In altre parole, si è avuto paura che la buona “merce”, detto in termini commerciali, cacciasse dal mercato quella cattiva, rovesciando una antica legge di mercato. Poiché il «mercato» è dominato dalla «merce» scadente, pubblicare Morselli significava davvero gettarvi lo scompiglio e mandare a fondo tutte le monete false che ci vogliono far credere autentiche». (Antonio Porta, La storia reinventata, in «Il Giorno», 3 marzo, 1976, p.3)

Ci si trova dunque di fronte a uno scrittore “irregolare”: il che è a nostro avviso il suo principale merito. Tuttavia, dobbiamo notare che la lucidità critica, anche se forzatamente parziale, di Porta è straordinaria. Infatti, a pochi mesi dalla pubblicazione, Porta coglie bene alcuni aspetti dell’opera morselliana. L’acume critico di Porta fa trasparire una sensibilità fresca e arguta, ma anche affettuosamente attenta ai libri di Morselli

E con vivo piacere, dunque, che pubblichiamo qui quattro recensioni di Antonio Porta scritti a partire dal 1974: Santa sede a Zagarolo. Roma un anno prima del Duemila, «Il Giorno», 4 ottobre 1974, p.3; Un caso letterario che fa meditare. Il “rifiuto” di Morselli, «Il Giorno», 6 settembre 1975; Un inedito di Guido Morselli: Il comunista, «Il Giorno», 3 marzo 1976, p.3; La scomparsa dell’umanità. Recensione a Dissipatio H.G., «Il Giorno», 2 marzo 1977.

Ringraziamo Rosemary Liedl per averci inviato le recensioni e per averci concesso l’autorizzazione alla pubblicazione.

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NOTA

[1] Cft. Vittorio Coletti, Guido Morselli, in «Otto/Novecento», 1979, n.5, settembre-ottobre, pp. 89-115

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In «Il Giorno», 4 ottobre 1974, pag. 3.

Santa Sede a Zagarolo. Roma un anno prima del Duemila

In un singolare e intelligente romanzo di Guido Morselli, scrittore scomparso da poco, s’immagina una capitale senza pontefice – Un prete svizzero alla ricerca della verità Roma senza Papa di Guido Morselli (Adelphi) è un libro felice perché felice è il suo protagonista. Siamo nella Roma dell’anno 1999. Un prete svizzero vi ritorna dopo trent’anni per essere ricevuto in udienza dal Santo Padre, Giovanni XXIV, benedettino, irlandese (succeduto a Paolo VI e Libero I) che ha abbandonato la Città Eterna per eleggere a propria residenza (così viene ora chiamata) Zagarolo, «…nome che suonava all’orecchio dei romani come una volta quello di Kopenick per i berlinesi, un toponimo non illustre, e anzi proverbiale del contrario».

La felicità del protagonista nasce dal modo in cui la sua umile e acuta intelligenza affronta una realtà civile, religiosa e teologale ai confini del paradossale, scoperta, indifesa in tutta la sua indigenza spirituale. Nessuna esecrazione, nessuno sgomento o timore per «tempi così tragici» (sentimenti-rifugio dei pavidi, degli ottusi “defensores temporis acti”) ma un’attenta registrazione degli eventi, di rapporti ispirati dalla carità, soprattutto con quei preti che si potrebbero definire «folli». Con mano leggera egli scrive il suo diario per mettere a fuoco questioni e problemi in cui si imbatte e trova spesso una risposta adeguata, a volte una condanna ben motivata, mai il rifiuto irresponsabile.

Nella Roma senza Papa (la Santa Sede degradata a museo è abitata solo dai diplomatici vaticani), dove affluiscono e s’intrecciano tutte le voci, si può ben meditare, come in una condizione “estraniante”, sul significato dei mutamenti avvenuti o in atto. Si susseguono nel diario l’amarezza per la resa dell’infallibilità pontificia, ormai, condizionata dal voto del Sinodo: le perplessità per il “via libera” dato dai Gesuiti all’uso del L.S.D. che dicono aumenti il sentimento religioso; l’ironia per certi missionari francescani sbarcati in California per convertire i due più grossi computers del mondo, con risultati incoraggianti, se è vero che uno di questi ha improvvisamente espulso un trattatello sul libero arbitrio; la contrarietà per essere stato ingannato partecipando a un dibattito teologico sfigurato dai calcolatori elettronici che sono riusciti a fare in modo che il protagonista e il suo “avversario”, presente solo in forma di voce, non si rispondessero mai; le considerazioni divertite sull’attività “pro turismo” delle ragazze romane che abbordano con violenza i passanti stranieri con fini di immediata soddisfazione sessuale; lo sconforto provocato dal ridicolo dell’unica industria italiana superstite, il gioco del calcio, quella turistica è controllata dagli albergatori tedeschi…

Ogni pagina riserva più di una sorpresa e moltissimi potrebbero essere gli esempi, ma lo scopo di questa narrazione, la linea che la separa dall’aneddotica brillantissima, è molto più importante: prepararsi adeguatamente alla visita a un Papa che potrebbe svelare il segreto della sua personalità, tanto incomprensibile a prima vista e insieme rivelare il significato ultimo di una presenza religiosa nel mondo. La fede stessa è in gioco, quella fede che sempre ha sorretto il nostro prete, che ha improntato di sé anche l’intimità, discreta e carica di affetto, con la moglie Lotte (inutile dire che il celibato ecclesiastico è stato abolito).

Quando il Papa ha deciso di trasferirsi a Zagarolo, trascurando i suggerimenti di coloro che avrebbero preferito, se proprio si doveva, come si doveva, lasciare Roma, una sede vagante, quindi più universale, «si sono fatti innumerevoli nomi di dimore più degne e dicevoli, pure negli stessi confini del Lazio… Subiaco, sacra all’ordine benedettino cui Giovanni apparteneva, Bolsena, teatro di un grande miracolo, Castelgandolfo, già frequentata dalla Corte, Tivoli… Nessuno ha saputo e sa quali ragioni profonde abbiano prevalso nel recondito pensiero di chi la scelta ha fatto… Quanto a me, umile prete… ci trovo un alto disegno di saggezza».

La felicità del protagonista nasce dal suo ottimismo teologale che lo fa accanito nella ricerca della verità. Dal principio “sa” che una verità ci deve essere. Quel credere a «un alto disegno di saggezza» diventa la speranza del libro. Che cosa fa sapere il Papa di sé che possa mettere sulla buona strada un povero prete?

Si sa che non viaggia (anche il protagonista non ama quel continuo e frenetico spostarsi che è tanto di moda); si sa che è di una laconicità estrema: dicono che «avrebbe fatto compilare il repertorio degli argomenti trattati nelle allocuzioni, comprese quelle d’occasione, dei suoi predecessori, a partire da Pio XII: ed è venuto fuori che quegli interventi formano un’enciclopedia doppia di quella Britannica… Giovanni, a chi consiglia di pronunciarsi su una data materia, risponderebbe mettendo mano al repertorio (elettronico). “Vedete? Ecco qua, è già stato detto, e sin troppo bene”».

Dunque si sa, soprattutto, che il Papa tace. Ma arriva il temuto e desiderato giorno dell’udienza. Come è fatta questa nuovissima residenza? «8-9 edifici di modeste proporzioni, una ventina di locali ciascuno… in luogo le chiamano palazzine, in tedesco si direbbero case… Lisce, intonacate di bianco o di rosa tenero, le persiane verdi. Sorgono intorno a un prato, prato naturale non tappeto all’inglese, ma folto, fiorito in piena estate di ranuncoli e di fiori gialli e rossi di cicoria e trifoglio… ». C’è la Cappella comune aperta al pubblico ogni domenica, le piantagioni sono abbondanti anche se giovani perché il terreno prima era brullo, il tutto immerso in un «silenzio non sacro né religioso, eolio e bucolico mi pareva; vi era soltanto un lieve suono metallico, di arpa toccata dal vento. Nient’altro che un apiario… L’arte o le arti, dopo venti secoli, non hanno più accesso alla dimora papale… L’agricoltura, e l’economia agricola, quelle sì; ne hanno preso il posto».

Poi le parole del Papa, che si possono definire enigmatiche, scandalose, ispirate, a seconda di dove si colloca l’ascoltatore: «Delle cose del mondo, il Papa non può occuparsi» osservò. Si corresse subito: «non può trattare». Il Papa «ragiona la sua reticenza, è sicuro di questa sua modestia, non è che se ne scusi». Anche una sorta di esortazione: «Bisogna persuaderci che Dio è diverso, Dio non è prete». «Ni moine non plus», aggiunge sorridendo.

Confesso di avere letto pochi romanzi che confermino come questo la loro attualità e “profeticità” di giorno in giorno. Se si osserva che è stato scritto nel 1966 e che l’autore, Guido Morselli, nato nel 1912 e scomparso circa un anno fa, come romanziere è inedito (in vita è riuscito a pubblicare solo due libri: Proust o del sentimento Garzanti, 1943, e Realismo e fantasia, Bocca, 1947) credo si possa affermare che se casi letterari esistono questo è esemplare. Mi risulta che Morselli abbia lasciato nove romanzi, sei pezzi teatrali circa 25 racconti e numerosi scritti a carattere filosofico e religioso. Inutile ora, mi pare, insistere sulle cause delle sue sconfitte editoriali (una volta gli fu restituito un romanzo già in bozze!) e utilissimo invece affrontare la sua opera e la sua figura culturale, di specie rarissima. Sono certo che tutti potremo esserne arricchiti. E’ una dichiarazione di fiducia nelle residue risorse vitali della società letteraria italiana.

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In “Il Giorno”, 6 settembre 1975

Un caso letterario che fa meditare. Il “rifiuto” di Morselli

Il successo, postumo, di critica e di pubblico, dei primi tre libri di Guido Morselli (Roma senza Papa, Contro-passato prossimo, Divertimento 1889) tutti editi da Adelphi costringe a ripensare in modo diverso alla società letteraria italiana, alla cultura che produce o crede di produrre, al funzionamento delle relazioni e dei rimandi che paranoicamente si attribuiscono funzioni di “veto”, quasi esistesse la necessità di un «visto» semi burocratico per pensare, scrivere e soprattutto stampare. La figura di uno scrittore “eccentrico”, nel senso letterale del termine, come Morselli, funziona da elemento “straniante” e ciò che si scopre, rivelato dalla nuova luminosità, negli angoli oscuri delle coscienze letterarie suscita come un lieve senso di orrore, di nausea prolungata, di mal di mare a bordo di un’imbarcazione che si intuisce condotta da un capitano ottuso e sereno verso la catastrofe.

Nel «caso» Morselli si possono fare, in prima istanza, due rilevazioni: da una parte, la condizione di isolato, di emarginato, era voluta dallo scrittore, incapace di «farsi avanti», di entrare in scena, che preferiva il buio discreto delle quinte, pur potendo contare davvero su conoscenze cosiddette «importanti» (che mai furono strumentalizzate). Tale scelta dovette rendere problematici i rapporti con le case editrici cui probabilmente cercava di nascondere la propria opera, limitandosi a proporre, in modi tali da provocare diffidenze, un’opera alla volta (con nove romanzi inediti alle spalle). Dall’altra, proprio questa condizione da nascondiglio, proprio questo suo voler essere «altrove», gli permise di affrontare temi e realtà, di elaborare, consciamente e inconsciamente, una poetica e una scrittura senza riscontri immediati con la realtà italiana, cioè di essere il Morselli che ora tutti possiamo conoscere e esplorare come un’isola non registrata da nessuna carta, ricca di ignorate ma fascinose vegetazioni.

Occorre uscire da questa contraddizione, risolverla, per avere una misura atta a capire quello che è successo, fino all’atto conclusivo del suicidio, con lo scopo ultimo di formarci strumenti capaci non certo di modificare una realtà in senso strutturale ma di impedire il primato di quella mediocrità che per vivere ha bisogno di limitare, zittire, ignorare. Per farlo, bisogna arrivare alle radici della poetica di Morselli, del suo atteggiamento verso la realtà, del suo modo di concepire l’uso della scrittura. Di qui si può risalire al terreno dello scontro, avvenuto più dentro di lui che in campo aperto, con la società di cui si è detto.

Primo: fondamento della cultura, di conseguenza dell’immaginazione letteraria e non letteraria, di Morselli è il rifiuto dello storicismo di stampo hegheliano, generatore di quell’ottimismo «progressista» accettato come un dogma dalla maggioranza della cultura non mitteleuropea. Per Morselli il primato non spetta alla storia e al suo divenire dubitoso, mitizzato, strumentalizzato in senso propagandistico, «demagogico», avrebbe detto, credo, ma all’intelligenza dell’uomo, intesi come momenti o prodotti della storia, quanto come realtà umanamente capace di andare oltre le proprie radici culturali, come “essere” nel mondo piuttosto che come “starci”. Di qui tematiche narrative da opporre al presente, proiezioni di futuro (Roma nel 2000) o ricostruzioni di passato, intese come esercizi dell’intelligenza autonoma, libera di elaborare quasi in senso combinatorio i dati della conoscenza, all’inseguimento delle estreme conseguenze delle sue ipotesi solo in apparenza paradossali. Se l’Italia avesse perso la grande guerra, per esempio, l’avrebbe vinta l’Europa, la mitteleuropa, precisamente, dunque, la parte geniale di essa, quella davvero moderna, e oggi un comune governo socialista nato in Germania ci darebbe quella forza che abbiamo distrutto.

Basterebbe questo modo di «immaginare» per spiegare il rifiuto cui Morselli si è sottoposto docilmente in vita: pochi gli avrebbero risparmiato l’etichetta di “uomo di destra”, se ci avessero pensato bene. Tale giudizio si è espresso nell’atto di tenerlo lontano, “fuori”. Lui ha preparato coerentemente la sua rivincita «togliendosi di mezzo».

Secondo: la sua scrittura doveva essere in grado di seguire duttilmente percorsi diversi, moltiplicando le invenzioni lungo la via, in modo da confermare, nell’atto stesso del suo farsi, la verità della menzogna assunta come struttura del “romanzo” coerente «finzione» fino alle estreme conseguenze tematiche, come avviene in musica. Questa scrittura doveva apparire curiosamente «dilettantesca», quasi inattendibile, fragilissima. E così fu. Pareva animato da un eccesso di ambizione e una società che è solo velleitariamente ambiziosa doveva rimuoverlo. Come accade con le rimozioni nella psiche.

Il ritorno è stato folgorante.

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In “Il Giorno”, 3 marzo, 1976, pag. 3, recensione a: GUIDO MORSELLI, Il comunista, Adelphi, Lire 4.500.

Un inedito di Guido Morselli: “Il comunista”. La storia reinventata

La esplosione postuma di un autore di eccezione, lungamente respinto dalla nostra società letteraria con luciferina sicumera

Guido Morselli ha pubblicato, in vita, solo due libri (Proust o del sentimento, 1943, e Realismo e fantasia, 1947), nonostante abbia scritto moltissimo, dividendosi tra la saggistica, la narrativa e il teatro. Una non comune cultura giuridica, storica, filosofica e letteraria, unita a una vitalità che chi lo conobbe definisce “eccezionale e imprevedibile”, gli ha permesso di rimanere attivo, resistendo a una serie di rifiuti editoriali che oggi stentiamo a capire, a spiegare.

Ne è prova il romanzo Il comunista, che in questi giorni la casa editrice Adelphi pubblica, scritto nel 1964-1965 e allora restituito all’autore dalla casa editrice che con lui aveva firmato un contratto e che lo aveva perfino composto e impaginato. Dopo un colpo simile nessuno, credo, avrebbe trovato la forza di continuare. Invece Morselli nel 1969-1970 ha scritto Roma senza Papa e Contropassato prossimo, nel 1970-1971 Divertimento 1889. In attesa della pubblicazione degli altri inediti (tra cui ho potuto leggere in dattiloscritto lo straordinario Dissipatio H.G. che significa «Dissoluzione del genere umano», dell’aprile 1973) si può delineare un primo bilancio di questo «caso», paragonabile a un’esplosione che continui a esplodere, libro dopo libro, ingigantendo la propria energia di fuoco, come se la materia esplodente moltiplicasse la propria energia liberandola da un nucleo originario densissimo.

A questo punto della vicenda si ha l’impressione che Morselli non decise di por fine ai suoi giorni in conseguenza diretta dell’ultimo rifiuto editoriale, ricevuto al ritorno da una vacanza in montagna. Credo che in lui il desiderio di abbandonare l’umanità, di lasciare il mondo che vedeva irrimediabilmente perduto, sia stato sempre vivo. Agì infatti a livello di tematiche precise, di cui una fondamentale: rifare la storia al passato o al futuro, rivendicando il diritto di modificare quanto già accaduto (Contropassato prossimo) o quanto sicuramente doveva accadere (Roma senza papa).

Rimane la gravità del rifiuto di pubblicare i romanzi di Morselli, della pervicace emarginazione di quella che si chiama «società letteraria», da cui aveva a volte l’illusione di venire accolto (collaborò a qualche rivista non secondaria, come «Il mondo» di Pannunzio, per essere poi allontanato con una serie di pretesti che ci paiono risibili. Proprio l’inconsistenza delle motivazioni dei ripetuti rifiuti, o la loro luciferina sicumera, fa nascere un sospetto, che è come il sintomo rivelatore di una malattia che non si vuol rivelare. Questo: che consciamente o oscuramente, senza poterselo confessare, si sia voluto contrastare la sua incontrastabile intelligenza di scrittore e la sua carica inventiva, che se messe bene in evidenza avrebbero relegato nell’ombra i valori «correnti». In altre parole, si è avuto paura che la buona “merce”, detto in termini commerciali, cacciasse dal mercato quella cattiva, rovesciando una antica legge di mercato. Poiché il “mercato” è dominato dalla «merce» scadente, pubblicare Morselli significava davvero gettarvi lo scompiglio e mandare a fondo tutte le monete false che ci vogliono far credere autentiche. L’opera di Guido Morselli è stata per tanti anni un’isola sommersa e ora che assistiamo alla sua naturalmente lenta emersione, ci accorgiamo che l’ampiezza e la meraviglia dei suoi territori vanno oltre ogni possibile immaginazione. Pur abituati alle sue temerarie scorribande narrative questo scrittore non finisce di sorprendere: nel caso di Il comunista direi che la sorpresa maggiore è la freschezza e l’attualità di un romanzo scritto più di dieci anni fa. Sono tre i punti che desidero segnalare ai lettori. Il primo è la ricostruzione perfetta delle strutture del PCI in pieno clima di destalinizzazione, più apparente che reale dal momento che la scena è dominata, dall’alto, da Olindo Maccagni (Togliatti). Il Supremo, che pratica il suo ben noto «compromesso stanco» secondo uno schema di incontrastabile leadership, in nome della stabilità dello Stato, prima di tutto, e della salvezza della cultura occidentale. Il protagonista (un personaggio perfetto), Walter Ferranini, vice «parcheggiato» a Montecitorio dove, come gli altri deputati del PCI, conta meno di zero. Su questa base si innesta la seconda caratteristica dell’opera: le invenzioni di pura narratività dal rapporto amoroso di Ferranini con Nuccia, al viaggio finale negli USA per incontrare, per l’ultima volta, la sua prima e unica moglie, cui è divorziato: Nancy, ricoverata in un ospedale di Filadelfia. La camminata notturna del protagonista nella tempesta di neve lungo i parchi gelati della città è un passaggio di assoluta arte narrativa. Terzo e ultimo punto segnalato, lo scritto che Walter Ferranini pubblica su «Nuovi Argomenti» provocando un processo da parte del Partito. E’ intitolato: «Il lavoro, il mondo fisico, l’alienazione» e dimostra la parte di Guido Morselli un’attenzione di stampo non borghese per le problematiche del socialismo.

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In “Il Giorno”, Giornolibri, 2 marzo 1977, prima pagina, recensione a: GUIDO MORSELLI, Dissipatio H.G., Adelphi, pag. 154, lire 3.800.

La scomparsa dell’umanità

In un mondo in cui l’umanità intera, immeritevole – e forse inutile -, è stata “assunta” in qualche luogo, che non è sicuramente “il cielo” né dei credenti né degli atei, l’autore e protagonista di questa scrittura (in cui lo stesso ritmo narrativo sembra volersi negare a se stesso, sospendersi, trattenersi…) nutre un’estrema quanto utopica speranza, quella di ritrovare l’amico Karpinsky, uno psicoanalista, l’unico che sia mai riuscito ad aiutarlo (proprio perché psicoanalista) e lo cerca, si fa per dire, in un vicolo di Crisopoli, la città ormai deserta (per la cronaca: Zurigo con dentro, se vogliamo, un pizzico di Varese, la “città” in cui abitava Morselli) dove: “… pende un drappo stinto e profetico: CAPITALISTI E’ FINITA!

Subito dopo (ed è il finale del libro) il narratore osserva che l’acqua piovana, confluendo nel viale centrale della città del Dio Oro, stende sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. “Poco più di un velo, eppure qualcosa verdeggia e cresce e non la solita erbette municipale: sono piantine selvatiche.” Al Capitalismo che si è auto-cancellato subentra, indifferente, il Selvaggio, come categoria trionfante sul pianeta Terra, inabitato perché, in verità, ormai inabitabile.

Con questo ultimo libro (dove H.G, è sigla per Humani Generis) il “caso” Morselli assume, a mio parere, una dimensione del tutto nuova, supera i confini della vicenda dello scrittore di enorme talento trascurato dall’editoria e dal mondo della cultura (cui per altro continua a essere particolarmente indigesto) per assumere definitivamente i connotati di una profezia che Morselli ha voluto sigillare con un colpo di pistola lo stesso anno (il 1973) in cui ha scritto «Dissipatio». La scomparsa dell’umanità, letteralmente volatilizzata, è l’indagine simmetrica della scomparsa dello scrittore, come è agevole notare; ma tutto quello che è seguito da quell’anno “fatale” non ha fatto che metterne in evidenza la verità.

Letteratura dell’Apocalisse? Certamente, in senso strettamente etimologico, dal momento che Apocalisse significa: Rivelazione. Che questa rivelazione non sia più “rimuovibile” né occultabile contribuisce a dimostrarlo, il “segnale”, fortissimo che ci viene dal quadro che l’Editore ha scelto per la copertina, un’opera di Magritte dove una nuvoletta candida s’introduce da una porta spalancata davanti a un cielo azzurro e apparentemente innocuo. Il titolo del quadro: “Le poison n. 1”. Ma prima di leggerne il titolo non potevano, oggi, esservi fraintendimenti e adesso per noi quel Veleno ha un nome esatto DIOSSINA, uno degli ultimi, inascoltati, ammonimenti di quello che succederà.

Dissipation H.G. può anche essere definito una “parabola” sul nostro presente perché in Morselli non veniva mai meno la volontà di comunicare per ammonire e anche questo ha voluto dimostrarci con il suicidio: infatti a pag. 143 sta scritto: “… perché il suicidio richiede un destinatario o dei destinatari”, e non vi è dubbio che costoro siamo noi, i sopravvissuti alla catastrofe del 1973. Ma ci servirà poco avere a disposizione questa “parabola” morselliana, questa sorta di Bibbia in negativo del nostro ormai palese cupio dissolvi, dal momento che quanto doveva mutare sembra invece marcire e ogni azione trova suo più forte contrario in una distruzione prodotta dal proliferare di una peste se attacca ferocemente tutto quello che si era chiamato “cultura”…

La nostra sottocultura tenta di cancellare la DIOSSINA è certo che la DIOSSINA cancellerà noi… Che fare, dunque? visto che non possiamo usare un libro come arma e che, comunque, un libro non ne può avere l’efficacia? Immersi, come siamo, nel più profondo di tutte le possibili contraddizioni strutturali e politiche, ancora vittime di veleni impalpabili della famigerata “metafisica” occidentale, per niente “oltrepassata”, continueremo ancora a lungo a fare l’elenco “di ciò che non siamo, di ciò che non vogliamo?” Continueremo ancora a lungo a essere sorpresi e impreparati di fronte a tutto quello che succede? L’ultima volta, dimostra Morselli, non avremo il tempo di saperlo.

 


 

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Tutto l’archivio inventariato di Antonio Porta si trova al Centro Apice: www.sba.unimi.it/Biblioteche/apice/2809.html

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.